Vladimir Putin rafforza la supremazia militare sul terreno mediorientale per massimizzare la vittoria diplomatica. Mentre il segretario di Stato Usa Kerry vola a Mosca

John Kerry con Vladimir Putin
La Russia consolida la sua presenza militare in Siria, a garanzia dei premi diplomatici che intende incassare negli incontri del ministro degli Esteri Sergey Lavrov con il segretario di Stato americano John Kerry mercoledì e giovedì a Mosca. Le armi ancora sul terreno e il potenziale dimostrato nel conflitto giocano a favore del ritorno del più grande paese del mondo a un ruolo di superpotenza nel sistema internazionale. Un esito probabilmente giustificato, e anche pieno di rischi.

RITIRO FANTASMA

Nella base aerea russa di Khmeimim, vicino a Latakia, sono in costruzione infrastrutture militari. Risulta da immagini satellitari riprese il 17 marzo e acquisite dall'agenzia di intelligence Stratfor, la cosiddetta "Cia privata". Le foto inoltre confermano che negli ultimi giorni lo schieramento si è arricchito di elicotteri d'attacco Mi-28 e Ka-52, come aveva anticipato una fonte del governo Usa alla Nbc. Una buona parte dei cacciabombardieri Sukhoi Su-24 e dei caccia multiruolo sono ancora presenti e operativi, evidenziano le immagini. Così come l'arma più potente: il sistema di difesa aerea S-400.
Fonte: Stratfor


Alcune delle foto riguardano la base navale di Tartus, storico avamposto della marina militare russa nel Mediterraneo. Si nota l'assenza di artiglieria pesante e carri armati tra i mezzi in attesa di essere imbarcati e rimpatriati. Potrebbero quindi esser rimasti ad affiancare le forze governative siriane sul terreno. Rimangono attive in Siria anche le forze speciali russe, gli addestratissimi spetsnaz, afferma la Stratfor citando non meglio identificate "prove" trovate su persone recentemente cadute in combattimento.
Un dispositivo niente male per una forza di spedizione di cui proprio in queste ore dovrebbe terminare il ritiro.

PAROLE POTENZIALI

"Non sono le discussioni che contano, ma il potenziale", diceva Otto Von Bismark. Ultimamente Vladimir Putin lo cita spesso, forse perché qualche incauto lo ha paragonato al cancelliere prussiano. Nel caso delle discussioni dei prossimi giorni tra Lavrov e Kerry, il potenziale che la Russia mantiene intatto in Siria conterà parecchio. E non solo quando si parlerà di Siria. Nella sua impresa mediorientale, Mosca ha dimostrato di guardare a orizzonti più ampi e di avere le capacità per poterlo fare. Le parole di Lavrov avranno il peso specifico del mercurio, nei colloqui con gli americani.

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John Kerry non è Enrico IV, Mosca non crede alle scomuniche né alle lacrime e in settimana non vi sono previste bufere di neve, ma questo viaggio del segretario di Stato americano sembra un po' un andare a Canossa. "I rapporti con Washington sono difficili" e sta agli americani darsi da fare per migliorarli, spiega una nota uscita dal grattacielo staliniano sede del Mid, il ministero degli Esteri.

Il comunicato del Mid suona come una ramanzina per gli Stati Uniti e di fatto rivendica alla Russia lo status di potenza globale: "dall'atmosfera delle relazioni [Russia-Usa] dipende in gran parte il clima generale sull'arena internazionale", vi si legge. Nell'agenda del vertice Lavrov-Kerry "gli attuali problemi internazionali"- giustappunto. Che vuol dire Siria, ma anche resto del mondo.

In una lunga intervista appena rilasciata alla rivista The Atlantic per il numero di aprile, il presidente americano Barak Obama dice di Putin: "e' costantemente interessato a esser considerato un nostro pari e a lavorare con noi, perché non è del tutto stupido. Capisce che in generale la posizione della Russia nel mondo è significativamente diminuita. E il fatto che invada la Crimea o aiuti Assad non la fa diventare improvvisamente un player".

A Mosca, e non solo al Cremlino, al Mid e tra i sostenitori di Putin, sono in molti a pensare che questo sia il momento giusto per far ringoiare agli americani parole e atteggiamenti di sufficienza antichi e recenti. Negli ultimi cinque mesi la Russia ha ottenuto "il ritorno del sistema internazionale a una dimensione bipolare", osserva Fyodor Lukyanov, direttore della rivista Russia in Foreign Affairs e influente commentatore di politica estera.

A VOLTE RITORNANO

Il capo della diplomazia statunitense dovrà riconoscere alla Russia un ruolo da protagonista nel processo di pace che sta nascendo a Ginevra sotto l'egida delle Nazioni Unite. E dovrà probabilmente accettare che Mosca possa dire la sua anche sulle altre crisi presenti e future nel resto del Medio Oriente. Ma anche questo è solo un obbiettivo minimo, per i russi. Che puntano a una vittoria diplomatica che vada ben oltre le decisioni sul futuro di Damasco e sulla guerra allo Stato Islamico.

Ogni atteggiamento e ogni messaggio del Cremlino nelle ultime settimane sono stati calcolati per ottenere il massimo vantaggio sulla scena internazionale. Lo sbandierato ritiro delle truppe dalla Siria è servito per darsi la credibilità necessaria a partecipare alle trattative per la pace. Il messaggio era per le Nazioni Unite e per l'opinione pubblica internazionale ma anche interna: i russi cominciavano a stufarsi delle immagini di bombardamenti su Aleppo e delle tirate propagandistiche che da mesi riempiono i loro programmi televisivi.

Il freddo monito sulla capacità della Russia di ricostituire e rafforzare in poche ore la sua operazione bellica nel paese arabo nel caso di una escalation del conflitto era invece rivolto direttamente alla Nato: ha voluto far capire che in Medio Oriente si è andati per rimanere. Il fatto che sia stato lo stesso Putin a parlare ha dato autorità all'affermazione.

Ed è stato di nuovo il presidente ad annunciare che sarebbe rimasta operativa in Siria l'arma più strategica e micidiale, il sistema integrato di difesa aerea S-400/S1. Tanto per chiarire le idee a chi ritenesse l'offensiva in soccorso dell'amico dittatore Bashar al- Assad solo un'evasione temporanea dal ruolo di mera potenza continentale che si vorrebbe assegnare a Mosca.

"Tutti i nostri partner sono stati avvertiti che useremo [i missili S-400] contro ogni bersaglio che considereremo una minaccia per le truppe russe", spiegò giovedì scorso il presidente ai suoi generali tintinnanti di medaglie sovietiche riuniti nel Salone di San Giorgio al Cremlino. Lo Stato Islamico, come gli altri gruppi armati siriani, non ha forza aerea né missili particolarmente minacciosi. Ma il messaggio non era per loro. E nemmeno per i generali tintinnanti.

ARMA LETALE

"E' il sistema difensivo missilistico a lungo raggio più capace e letale del pianeta", dice dell'S-400 Scott Wolff, ex top gun americano oggi responsabile delle testate specializzate Pilot e Fighter Sweep. "Fa paura: è la maggior minaccia da terra per la forza aerea della coalizione". Il sistema è l'ultima evoluzione dei missili Sam. In confronto, i Patriot americani sembrano antiquariato. Può distruggere tutto quel che vola nel giro di 460 chilometri, anche se viaggia a 17mila chilometri orari e a bassa quota. Solo gli stealth, gli aerei invisibili, riescono a farla franca: i B2 e gli F22 americani avrebbero buone possibilità. Ma a integrare l'S-400 sono schierate batterie di S1 Pantsir. Buttar giù velivoli stealth è la loro specialità.

Le unità missilistiche arrivarono in Siria solo dopo l'abbattimento dell' Su-24 russo da parte dell'aviazione turca nel novembre scorso, almeno ufficialmente. Il dispiegamento ha creato di fatto una no fly zone di oltre 400 chilometri quadrati: qualsiasi aereo che decolli da una base nel sud della Turchia è a tiro non appena alza le ruote dall'asfalto. Quindi, chiunque voglia mettere il naso sopra a quei 400 chilometri quadrati, deve parlare prima con i russi - per evitare conseguenze spiacevoli.

L'affermazione della potenza russa è stata perentoria, in Siria. Le operazioni contro i nemici di Assad hanno stupito i generali statunitensi per precisione ed efficienza. Le più clamorose erano dimostrazioni di capacità militare fini a sé stesse. Come quando i missili Kalibr lanciati da due corvette della flottiglia del Mar Caspio hanno centrato obbiettivi in Siria a 1000 chilometri di distanza. Era il 7 ottobre, compleanno di Putin. Auguri mortali. I Kalibr sono missili da crociera analoghi ai Tomahawk americani e servono a penetrare le difese aeree più moderne e complesse. Roba che lo Stato Islamico se la sogna. Se i missili erano per terroristi o affini, il messaggio - ancora una volta - non era certo per loro.

"CAPABILITY" E GUERRE FREDDE

Della capacità militare di Mosca era ragionevole dubitare, considerando che nella breve guerra del 2008 contro la Georgia sette aerei con la stella rossa furono abbattuti e almeno altri quattro danneggiati nel corso di 17 missioni in tutto. Il riarmo di dimensioni sovietiche poi voluto da Putin ha pagato. La conseguenza del riproporsi della Russia come superpotenza è che le relazioni tra Est e Ovest hanno raggiunto "la temperatura più bassa dalla fine della guerra fredda", nota la Intelligence Unit dell'Economist.

Secondo gli analisti del settimanale londinese, ci sono rischi concreti di uno scontro diretto, e questo provocherà "un incremento della spesa militare in Europa", a scapito del risanamento dei conti pubblici e del welfare.

"Siamo alla vigilia di una nuova guerra fredda", conclude l'analisi dell' Intelligence Unit. E qui si sbaglia: la nuova guerra fredda, o guerra ibrida o comunque la si voglia chiamare, è in corso da tempo. Ma ha ragione, l' Economist, nell'identificare l'effetto immediato. Che è la corsa agli armamenti, oggi come nella Guerra fredda storica, quella con la "G" maiuscola. Industriali e i mercanti del settore stiano pure allegri: finché c'è guerra, va bene anche fredda, c'è speranza.

Ironicamente, il motivo di fondo che ha provocato la situazione attuale è lo stesso che settant'anni fa scatenò la contrapposizione politica, ideologica e militare tra Stati Uniti e Unione Sovietica: l'incertezza da parte dell' Occidente sulla "capability" della Russia di essere una potenza globale.

Difficile tradurre il termine "capability" nel senso che gli si dà in politica internazionale. Proviamoci: capacità, risorse e forza militare. Unite alla volontà e alla reale possibilità di utilizzarle.

Facile constatare una spiccata tendenza occidentale a non riconoscerla a Mosca, la "capability". Difficile non prendere atto di una storica supponenza nei confronti dello stato che si estende dal centro dell'Europa al Mar del Giappone. Il fatto che nel 1946 fosse dissanguato dai costi smisurati di una guerra vinta e nei primi anni '90 dagli sconvolgimenti per la fine di un regime che era sembrato infinito non giustifica atteggiamenti così miopi.

GIOVENTU' BRUCIATA

Venticinque anni fa, il 17 marzo del 1991, nel referendum nazionale voluto da Mikhail Gorbachev per cercar di salvare l'Unione Sovietica, tre quarti dei votanti - anche in Ucraina - si espresse per la continuità dell'Urss in un nuovo quadro istituzionale. Nove mesi dopo, in un altro referendum, il 90 per cento degli ucraini votò per l'indipendenza. E l'Urss cessò di esistere.

In quel periodo cruciale, il mondo perse l'occasione per re-immaginarsi e diventare un posto più sicuro. Se solo l'Occidente avesse gestito meglio il crepuscolo sovietico e i rapporti con la giovane Urss/Russia emersa piena di passioni, cultura e grandi idee dalla cappa grigia del periodo brezneviano.

"Ci fu un anno critico tra il 1989 e il 1990 quando un aiuto sostanziale da parte di Washington avrebbe potuto far la differenza", ha ricordato Gorbachev in un'intervista a The Atlantic. Alla Casa Bianca, quella americana, c'era Bush senior. L'aiuto non arrivò.

L'incertezza, le ambiguità e la miopia prevalsero. E prevalsero anche più tardi, sotto la presidenza Clinton, durante la terapia shock con cui Boris Yeltsin - lasciato solo - finì per distrugere l'economia inaugurando una specie di Far West capitalista senza regole, popolato di imprenditori improvvisati, improvvisi ricconi e delinquenti seriali.

Da quel Far West è nato il putinismo, che effettivamente ha fatto un po' di ordine. Sdoganando e proteggendo i delinquenti seriali, dicono i critici del leader del Cremlino. Di certo, Putin ha armato potentemente il Paese e sfruttato il risentimento verso l'Ovest suonando le corde del patriottismo. E attirandosi consensi plebiscitari.


PARADOSSI PERICOLOSI

Fyodor Lukyanov ritiene che molto di quel che avviene oggi in Russia e nel sistema internazionale abbia le sue radici nella tempesta del 1991 e nelle diffidenze mai risolte che allora si crearono. "L'Occidente, forte della cosiddetta vittoria nella Guerra fredda, si sentì intitolato a costruire un nuovo ordine mondiale unilaterale". I russi sentirono solo "lo sgretolarsi delle poche certezze" che il vecchio sistema garantiva, e "si videro offrire solo la possibilità di partecipare nel sistema Usa-centrico", dice il direttore di Russia in Global Affairs. Una cosa ben diversa dalla "Casa comune europea" allargata a Urss e Usa che aveva in mente Gorbachev.

L'attuale aggressività della politica estera russa è pericolosa, ma giustificata dagli errori occidentali - sostiene Lukyanov. Ricordando come fin dal 1991 l'Ovest intraprese un'espansione della sua sfera politica e militare: i Paesi membri della Nato erano 12, ora sono 28. E la Nato - o suoi singoli membri - per la prima volta nella sua storia "ha cominciato a far le guerre: Iugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia". Il primo allargamento dell'alleanza "fu immediatamente seguito dal primo utilizzo della forza da parte dell'organizzazione". Che conclusioni doveva trarre, si chiede l'esperto di politica estera russa, "il paese che non ha mai avuto alcuna prospettiva di entrare nella Nato ma è stato invitato a credere che il rafforzamento e l'allargamento dell'alleanza non implicasse niente di significativo"?

Ma l'attivismo di Mosca sullo scacchiere internazionale è iniziato solo nell'ultima metà del regno di Putin, in piena involuzione autoritaria. Viene spudoratamente utilizzato dalla macchina politico-ideologica del Cremlino per fini interni in un momento di grave crisi economica. Che c'entra l'Occidente?

"Le politiche occidentali - risponde Lukyanov - hanno prodotto turbolenze negli affari internazionali, e sono state in buona parte distruttive [...] questo ha portato diversi governi, incluso quello russo, a ritener necessario un controllo più duro all'interno dei loro Paesi".

Il problema vero della Russia non è tanto l'involuzione autoritaria ma quella culturale, secondo l'analista diplomatico. I russi di oggi - spiega - non sono idealisti che si mettono in discussione e cercano di cambiare in meglio il mondo: quelli son finiti con la perestroika, "ultimo momento di vero dibattito culturale". Al Cremlino e nel Paese oggi regna "un cupo realismo" senza ideali e senza visioni ad ampio raggio sul futuro, "neanche in politica estera". Si tende ad incassare tutto e subito, senza preoccuparsi molto delle conseguenze a lungo termine. Un quadro che col riproporsi della Russia come potenza globale non può non preoccupare.

L'analisi di Lukyanov introduce un paradosso che aggiunge inquietudine, come se ce ne fosse bisogno. Durante una buona parte della Guerra fredda l'Unione Sovietica poté contare sull'appoggio dei partiti comunisti occidentali e dei "paesi fratelli" alla sua politica estera. Oggi la Russia di Putin è diventata un faro per i movimenti populisti della destra europea e americana: la Lega di Salvini, il Fronte della Le Pen, Donald Trump - per citare i più noti. Grazie anche alle interessate simpatie di gruppi economici e personaggi influenti che con la Russia fanno molti affari, l'élite al potere a Mosca può contare come minimo su una buona stampa, nello schieramento avversario. Se non di una vera e propria quinta colonna.

Al posto dei "paesi fratelli", poi, ci sono le dittature degli stati ex-sovietici: Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan ai confini dell'Asia centrale; Bielorussia al confine europeo occidentale. Non è una bella compagnia, ma sta diventando fidelizzata: gli autocrati che li governano, dopo l'intervento di Putin in Siria a fianco del loro peggior collega, sanno che in caso di guai possono contare sull'alleato del Cremlino per conservarsi al potere. O perlomeno in vita.

L'UOMO CHE CAPI' LA RUSSIA

Quando il primo maggio del 1998 il Senato statunitense approvò l'allargamento della Nato a Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, Thomas L. Friedman del New York Times, fresco del suo secondo premio Pulitzer, telefonò a George Kennan per chiedergli un commento. "E' un tragico errore: nessuno stava minacciando nessuno. Credo che sia l'inizio di una nuova guerra fredda", gli rispose dalla sua casa di Princeton il vecchio ma lucido architetto del contenimento dell'Unione Sovietica, uno dei maggiori statisti e il più originale diplomatico che l'America abbia avuto nel Ventesimo secolo. "La Russia gradualmente reagirà in modo avverso, e questo peserà su tutta la sua politica".

L'analisi su cui nel 1946 Kennan elaborò l' idea del "containment" - che poi l'amministrazione Truman travisò del tutto - rasentava la chiaroveggenza. Partiva dalla constatazione di un istintivo e tradizionale senso di insicurezza della Russia. Individuava la necessità di Stalin di avere nemici esterni per crearsi consenso all'interno. Prevedeva la fine dell' Urss, e riteneva potesse essere accelerata riconoscendo senz'altro Mosca come potenza globale e puntando su una resistenza non provocativa al suo espansionismo, soprattutto attraverso il rafforzamento delle democrazie europee.

Coerentemente, George Kennan favorì il Piano Marshall e si oppose alla creazione della Nato. Poi lasciò la carriera per dedicarsi all'insegnamento. Criticò fino alla fine la diplomazia statunitense. E' morto ultracentenario cinque anni fa, il 17 di marzo.

Forse è imperdonabile non aver imparato niente da Kennan e "aver voltato le spalle" ai russi negli anni Novanta. Speriamo che la nostra generazione non debba esser ricordata per questo.