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Attualità
aprile, 2016

Appalti, all’Atac chi sbaglia non paga

Un contratto per la manutenzione dei bus gonfiato per diversi milioni. I manager che lo approvarono, finiti in quarantena, oggi sono di nuovo ai vertici della municipalizzata romana

Cinque anni fa erano stati colpiti di striscio dallo scandalo per l’appalto della manutenzione degli autobus e messi in quarantena. Oggi Roberto Monichino e Alessandro Cafarelli occupano due caselle chiave di Atac, la tormentata azienda dei trasporti del Comune di Roma, 860 milioni di ricavi e 141 di perdita nel 2014.

Il primo è direttore centrale delle operazioni: posizione un gradino sotto quella del direttore generale, Marco Rettighieri, che nel nuovo organigramma aziendale detiene la quasi totalità dei poteri. Il secondo è responsabile dei servizi di superficie e dipende gerarchicamente dal primo. Nei rispettivi ruoli controllano contratti da decine di milioni: solo quello per la pulizia degli autobus e dei depositi ne vale 39. Un’area delicata per un’impresa legata a filo doppio col Campidoglio.

Nel 2010 - sindaco Gianni Alemanno - Monichino e Cafarelli erano dirigenti di seconda linea. Monichino rispondeva all’allora direttore dei servizi di superficie, Norberto Raponi, il quale sarà licenziato per una vicenda cui risulterà estraneo, e perciò avrà un indennizzo di circa un milione. E Cafarelli dipendeva dall’allora direttore della manutenzione veicoli, Gianfranco Nasto, che sarà travolto dalla bufera giudiziaria di “parentopoli”.
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L’anno prima, nel 2009, l’azienda aveva affidato all’esterno una parte dell’attività di manutenzione e revisione degli autobus per cercare di contenere i guasti che provocano ancora oggi il fermo di un numero elevato di mezzi. L’operazione era stata gestita da Trambus (che nel 2009 sarà fusa in Atac insieme a Metro) e aggiudicata a Zf Italia, multinazionale tedesca dei cambi, che s’impegnava a garantire la manutenzione delle trasmissioni automatiche e delle idroguide di 1.086 vetture. In realtà Zf forniva i pezzi di ricambio. L’attore del contratto era la sua officina autorizzata per l’area di Roma, la Drive Line service di Nettuno.

I problemi affiorarono dopo l’ottobre 2010, con la nomina di Maurizio Basile ad amministratore delegato in sostituzione di Adalberto Bertucci, rinviato a giudizio poi, lo scorso anno, al termine dell’inchiesta su “parentopoli”. Basile, che era anche capo di gabinetto di Alemanno e restò in Atac fino all’aprile 2011, scoprì che la gestione del contratto era fuori controllo. Il valore previsto degli interventi - per un totale di 2,5 milioni più Iva fino al 30 giugno 2010 - era stato abbondantemente superato. Già sul finire di quell’anno il contratto era stato sforato per quasi 10 milioni.

Queste ed altre irregolarità emersero da un audit tecnico su poche decine di vetture. Alcune componenti meccaniche risultavano sostituite più volte in tempi ristretti. Venti motori Iveco erano spariti e sostituiti parzialmente con altri di marca differente. Ventimila biglietti test, consegnati a Drive Line per il controllo delle obliteratrici, non erano stati restituiti. Mancava la documentazione completa delle lavorazioni svolte nelle rimesse. Alcune pezze giustificative erano comparse in fase di audit, firmate da Gianfranco Nasto, ma di esse non c’era traccia nella documentazione conservata in azienda. Le rilevazioni effettuate da Atac e poi condivise dalla stessa Zf, che ebbe un atteggiamento collaborativo, indicavano che circa il 15 per cento delle attività fatturate non trovava alcuna giustificazione tecnica. In sostanza, non erano mai state eseguite.

La ciliegina sulla torta fu un verbale di riunione datato 15 ottobre 2010, con cui la dirigenza di Atac prendeva atto di fatture per 6 milioni emesse dal fornitore. Il documento, di cui siamo venuti a conoscenza, fu sottoscritto dai massimi rappresentanti di Zf e Drive Line e, per conto di Atac, da Raponi, Nasto, Monichino e Cafarelli.

La firma posta in calce al verbale dai quattro dirigenti era un boomerang per Atac. Avvalorava, infatti, l’interpretazione del contratto, sostenuta da Zf, secondo cui l’importo predeterminato di 2,5 milioni non avrebbe dovuto intendersi come forfettario, ma in parte “a canone” e in parte, per gli interventi straordinari, “a misura”, ovvero pagato in base al lavoro svolto. Osservò a questo proposito Giorgio Meo, ordinario di diritto commerciale della Luiss, in una relazione ad Atac del giugno 2011 rimasta riservata: «…occorre rilevare che, pur essendo forti gli argomenti testuali favorevoli a un’interpretazione circa il carattere forfettario del corrispettivo, sussiste in atti un riconoscimento proveniente da vostre fonti apicali che preoccupa in senso opposto».

Il riconoscimento di cui scrive Meo è la firma che Raponi, Nasto, Monichino e Cafarelli appongono al documento. Proseguiva Meo: «Tale riconoscimento […] vi espone con grado di sensibile probabilità al rischio di una contestazione, da parte di Zf Italia, dell’interpretazione di “forfettarietà” del corrispettivo, che voi stessi avreste contraddetto con il comportamento dei vostri dirigenti».

Perché, dunque, i quattro si risolsero a firmare? Per leggerezza, incompetenza? Cafarelli smentisce questa interpretazione (vedi box nella pagina). In consiglio d’amministrazione un esponente del collegio sindacale parlò di «carenza di idonee verifiche, da parte di Atac, al momento della liquidazione delle fatture presentate dall’appaltatore».

L’indagine interna di Atac indusse a miti consigli Zf e Drive Line. Entrambe sottoscrissero nell’agosto 2011 un accordo transattivo con cui concedevano all’azienda romana 2,8 milioni di sconto su lavori fatturati per 12,8, pari a un risparmio del 22 per cento. Era l’implicita ammissione delle irregolarità commesse a partire dal 2009 e delle oscure prassi operative aziendali favorite dal consociativismo tra management, giunta, opposizione e grandi organizzazioni sindacali.

Atac non adottò alcun provvedimento disciplinare, nemmeno un richiamo, nei confronti dei suoi dirigenti. Raponi e Nasto si ritrovarono fuori, come abbiamo accennato, per fatti estranei a questa vicenda. Monichino e Cafarelli furono invece allontanati dalla manutenzione e dai contratti plurimilionari della sede centrale. Monichino fu nominato capo della rimessa di Grottarossa, Cafarelli destinato ai progetti di ingegneria.
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Le loro carriere sembravano compromesse, ma evidentemente l’incidente del contratto gonfiato non aveva del tutto intaccato i loro crediti interni. Del resto, il giudizio finale su questa storia è atteso dall’Autorità nazionale anticorruzione, che dall’ottobre dello scorso anno sta analizzando 24mila procedimenti di Atac.

Il primo tentativo di riportare in auge Cafarelli è del gennaio 2013. Quattro mesi prima la giunta Alemanno ha insediato in Atac un nuovo amministratore delegato, Roberto Diacetti, già consulente e amministratore di diverse partecipate del Comune e della Regione Lazio. Diacetti riorganizza la struttura di comando, nomina direttore delle manutenzioni dei mezzi di superficie e della rete metro-ferroviaria Giuseppe Cassino e gli incunea come diretto collaboratore Cafarelli, che le malelingue indicano vicino al Pd. Punto di riferimento dei democratici nel consiglio d’amministrazione di Atac è, in quel momento, Andrea Carlini, che nelle intercettazioni di “mafia Capitale” sarà indicato come uomo di fiducia dell’allora capogruppo del Pd in consiglio comunale Umberto Marroni. La reazione di Cassino è durissima. In una email di fuoco il manager ricorda a Diacetti le “acclarate responsabilità” di Cafarelli nella gestione dell’appalto di manutenzione. E conclude: «…mi appare del tutto impossibile che si voglia procedere […] in piena controtendenza con l’azione moralizzatrice avviata da Atac su questa come su altre vicende».

Gli risponde Diacetti: «Non posso non esprimere il mio stupore per i modi (mail) e i tempi (solo oggi ad oltre quattro mesi dal mio insediamento) con i quali sono messo a conoscenza di una simile vicenda. Quanto da lei asserito rivela un quadro di assoluta gravità rispetto al quale, di concerto con il direttore generale, avvierò immediatamente le opportune verifiche […] non accetto da nessuno lezioni morali».

Gli ribatte Cassino: «[…] mi permetto anch’io di manifestare, con il dovuto rispetto, il mio stupore per il fatto che Ella non sia stata messa a conoscenza di uno dei principali contenziosi che la nostra società ha dovuto affrontare negli ultimi anni […] La quantità di documenti disponibile in azienda è davvero impressionante e quantificabile in diversi faldoni archiviati presso le varie direzioni […]: direzione generale, direzione acquisti e affari legali, direzione centrale operazioni, direzione tutela e vigilanza e direzione audit». Aggiungiamo anche il consiglio d’amministrazione, che nella riunione del 14 luglio 2011 delibera «di negoziare al meglio con Zf una soluzione transattiva che consenta una significativa riduzione degli importi fatturati ad Atac». Come poteva Diacetti non saperne niente?

Tra l’altro proprio in quel Cda, di cui ci siamo procurati il verbale, il direttore centrale degli affari legali dichiara che una parte delle lavorazioni fatturate da Zf non solo esorbitava dal perimetro contrattuale, ma era anche “illegittima”.

Cassino e Cafarelli vivono da separati in casa tra il febbraio e il settembre 2013, finché in Campidoglio non arriva Ignazio Marino. Dopo la formazione della giunta di centrosinistra, che avrà vita difficile e breve, comincia un nuovo giro di poltrone, l’ennesimo. Cafarelli è nuovamente rimosso e spedito al settore ingegneria, e a Diacetti è dato il benservito, anche se nell’estate 2015 il governo Renzi lo premierà con la presidenza di Eur Spa, società al 90 per cento del ministero dell’Economia e al 10 del Comune di Roma, che gestisce uno straordinario patrimonio immobiliare, ma chiude in perdita. Al posto di Diacetti, l’assessore alla Mobilità della giunta Marino, Guido Improta, designa amministratore delegato di Atac Danilo Broggi, il quale riorganizza ancora una volta la macrostruttura aziendale affidando a Cassino la direzione dei servizi di superficie. Ecco però il colpo di scena: nel giugno 2014, mentre Marino è impegnato nel ricambio manageriale delle partecipate, Roberto Monichino è ripescato dalla quarantena e proiettato ai piani alti dell’azienda nella veste di direttore centrale delle operazioni, ruolo ricoperto fino a quel momento da Pietro Spirito.

A gennaio 2015, con il trasferimento di Cassino alle attività di ingegneria, Monichino riceve ad interim anche la contesa direzione dei servizi di superficie, tornando a occuparsi di appalti da una posizione di maggior peso. E dopo le dimissioni di Marino e l’arrivo in Campidoglio del commissario prefettizio Francesco Paolo Tronca, ottiene la fiducia e la riconferma dal nuovo direttore generale, Rettighieri.

Non è finita. Nel marzo 2016 Monichino lascia l’interim, e l’amministratore unico di Atac, Armando Brandolese, di concerto con Rettighieri, ripesca Cafarelli, che ritorna così all’ambita direzione dei servizi di superficie, da cui dipendono sia la produzione dei servizi sia le manutenzioni dei mezzi. I sindaci e le giunte passano, i manager restano e a volte ritornano pesantemente in gioco. Soprattutto se si dimostrano funzionali al blocco di potere trasversale alla destra e alla sinistra che indirizza e controlla il sistema delle partecipate come una sorta di governo parallelo. A Roma come nel resto d’Italia.

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