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Attualità
marzo, 2016

Roma, Cantone conferma le accuse dei pm: nella Capitale solo appalti fuorilegge

Il rapporto dell'Autorità nazionale anticorruzione mette in evidenza "la sistematica e diffusa violazione delle norme". Il procuratore Giuseppe Pignatone: "Riconfermate sul piano amministrativo le conclusioni delle indagini penali su mafia Capitale"

Ci sono voluti quasi due anni, dagli arresti di “mafia Capitale”, per far giungere l'Autorità nazionale anticorruzione (Anac), presieduta Raffaele Cantone, alla stessa conclusione a cui erano arrivati i magistrati sulla gestione degli appalti del Comune di Roma dal 2012 al 2014. E cioè che tutto avveniva con «la sistematica e diffusa violazione delle norme e il ricorso generalizzato e indiscriminato a procedure prive di evidenza pubblica, con il conseguente incremento di possibili fenomeni distorsivi che agevolano il radicarsi di prassi corruttive».

L'inchiesta della procura capitolina si basa anche su questi appalti pilotati, i cui atti sono approdati davanti ai giudici del tribunale di Roma che stanno processando i componenti del clan di Massimo Carminati, accusati a vario titolo di associazione mafiosa, turbativa d'asta e corruzione. Nel documento firmato da Cantone il 10 marzo scorso, l'Anac riscontra varie irregolarità: dalla manutenzione delle strade ai servizi per i disabili; dagli ospizi agli affitti delle case; dalla macellazione della carne alla tutela del verde pubblico; dall'acquisto di nuovi software alla gestione dei canili. Storie di corruzione e mala amministrazione ben note negli atti giudiziari che sono alla base del processo. Quella dell'Anac sarebbe dunque una conferma amministrativa di ciò che penalmente è stato vagliato da un primo giudice.

Secondo il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, «oggi Cantone riconferma sul piano della verifica amministrativa la conclusione delle indagini penali su mafia Capitale. Non parlo dei processi che sono in corso e per cui arriveranno le sentenze, ma è emerso un quadro di mala amministrazione che era sotto gli occhi di tutti, e che senza le indagini non sarebbe mai emerso». Il capo della procura intervenendo all'incontro “Educare alla cittadinanza. Noi contro le mafie”, rassegna promossa dalla Regione Lazio, ha aggiunto: «Se per il giudizio penale serve la sentenza, per il giudizio amministrativo non dobbiamo aspettarla. Non si può più contestare il giudizio che a Ostia ci sia la mafia, o che ci siano sistemi di corruzione in certi ambienti, e questo lo possiamo dire senza aspettare le sentenze definitive». Il primo dicembre 2014 Massimo Carminati viene arrestato e segna un punto importante dell’inchiesta «mafia Capitale», perché provoca un terremoto giudiziario che si abbatte sui palazzi del potere travolgendo trasversalmente i principali partiti politici italiani e pure una parte amministrativa del Campidoglio. Un’indagine senza precedenti, che scoperchia un sistema di corruzione, usura, estorsione, concussione, turbative d’asta e false fatturazioni. Una macchina ben rodata, guidata da Carminati, che lavorava per il controllo della città e degli appalti pubblici e poteva contare sulla connivenza della politica e delle istituzioni.

Dopo gli arresti il procuratore Pignatone aveva detto: «Con questa operazione abbiamo risposto alla domanda se la mafia è a Roma. La risposta è che a Roma la mafia c’è». Al centro di tutto c’è sempre lui, il Nero, Massimo Carminati. In quei giorni nessuno sembra conoscerlo. Tutti sembrano cadere dalle nuvole.

Come evidenziano le indagini, ai quattro «Re» (Carminati, Senese, Fasciani, Casamonica), di cui aveva parlato in precedenza l'Espresso, nel frattempo se n’è aggiunto un altro: Salvatore Buzzi, il «Rosso», presidente della cooperativa 29 giugno, pezzo da novanta del mondo della Legacoop, al quale Carminati detta gli ordini quando cambia il vento in Campidoglio, l'uscita di Alemanno e l’arrivo di Ignazio Marino: «Bisogna vendere il prodotto, amico mio, eh. Bisogna vendersi come le puttane... adesso, e allora mettiti la minigonna e vai a batte’ co’ questi, amico mio, eh... capisci».

Il Rosso e il Nero, come hanno documentato gli inquirenti, hanno creato un sistema corruttivo per l’assegnazione di appalti nel settore ambientale e delle politiche sociali, ricevendo finanziamenti pubblici dal Comune di Roma e dalle aziende municipalizzate. Commesse per decine di milioni di euro a società collegate a Carminati. «In cambio di appalti a imprese amiche – spiega il procuratore aggiunto Michele Prestipino – venivano pagate tangenti fino a 15.000 euro al mese per anni. Ma anche centinaia di migliaia di euro in un solo colpo.».

Nelle ore seguenti agli arresti si resta stupiti da come la società civile abbia potuto sottovalutare – o addirittura ignorare – un fenomeno di tale gravità; da come Roma sia distratta e collusa, prona e corrotta da questo sistema mafioso.

Il «Nero» Carminati e il «Rosso» Buzzi sono le due facce della stessa medaglia. Due ruoli differenti, due vite distanti, due ideologie opposte che, pure, insieme hanno creato il «sistema» perfetto. Avevano la Capitale d’Italia inginocchiata ai loro piedi, come due veri Re con i loro sudditi, e un impero da spartirsi.

Quando, infatti, al Campidoglio subentra Ignazio Marino al posto di Gianni Alemanno, il Cecato cerca il modo di infiltrarsi nella nuova dirigenza della pubblica amministrazione capitolina. Gli investigatori trovano conferma di questo tentativo durante una conversazione tra i due, intercettata il 20 giugno 2013, nella quale Carminati spiega a Marione (Mario Corsi, noto per le trasmissioni radiofoniche sulla Roma) come sia necessario, in quel momento, andare a «bussacchiare» agli uffici del Comune per accreditarsi presso i neoeletti e garantirsi gli appalti. «Gli si dice adesso che cazzo... ora che abbiamo fatto questa cosa, che progetti c’avete?» E ancora: «Teneteci presenti per i progetti che c’avete, che te serve? Che cosa posso fare? Come posso guadagnare, che te serve il movimento terra? Che ti attacco i manifesti? Che ti pulisco il culo... ecco, te lo faccio io perché se poi vengo a sape’ che te lo fa un altro, capito? Allora è una cosa sgradevole...».

E così emerge dalle indagini la storia delle gare sulla raccolta differenziata nei mercati, nelle mense e nei ristoranti di Roma. Storie che svelano ancora di più l’inedita alleanza tra ex terroristi di destra come Massimo Carminati e di sinistra come Emanuela Bugitti, ma anche perché è una risposta a chi sostiene, per sminuire l’importanza dell’indagine, che gli affari incriminati siano in fondo piccolezze, noccioline rispetto ai miliardi di euro del bilancio di Roma Capitale.

Le gare aggiudicate con una spartizione tra le coop di Buzzi e soci da un lato e la cooperativa Edera dell’ex guerrigliero comunista Cancelli dall’altro sono due.

A detta di Buzzi, la banda si è comprata mezza politica romana. Lo scopo però non è la presa del Campidoglio, ma gli appalti dei centri immigrazione e dei campi nomadi; l’ingresso nella partita dei servizi per i pasti e i ristoranti; il business dell’emergenza abitativa e quello della raccolta della differenziata nei ristoranti, bar e mense; e poi ancora i centri di compostaggio a Morlupo e persino i bar degli studios e della Rai, i circoli sportivi e le palestre. Tutto ciò con la complicità di alcuni dirigenti o funzionari del Comune, che molti mesi dopo verranno fatti ruotare. Ma non ci si riesce per tutti. Alcuni resteranno al loro posto.

L'ex assessore alla Legalità Alfonso Sabella, nel suo libro Capitale Infetta (Rizzoli), scritto con Giampiero Calapà, appena uscito in libreria, racconta come «ogni riforma o tentativo di cambiamento che nel Comune di Roma si è provato a portare avanti è finito inevitabilmente con lo scontrarsi con coloro che avevano interesse a mantenere il sistema precedente e anche nei casi in cui costoro non avevano più i vecchi autorevoli interlocutori politici, o avevano trovato difficoltà a oliare i nuovi, avevano la potentissima arma del conflitto sociale o dei lavoratori che perdevano il loro posto di lavoro, che quindi venivano puntualmente mandati sotto la statua di Marc’Aurelio, in piazza del Campidoglio, a protestare contro sindaco e giunta e a guadagnarsi i titoli di giornali e tg.

In altre parole l’incapacità della macchina amministrativa capitolina di tradurre rapidamente in progetti, gare e affidamenti, le direttive della politica, spesso effettivamente volte a dare risposte più efficienti ed efficaci alle domande dei cittadini, crea terreno fertile affinché i beneficiari dei vecchi e lucrosi appalti invece di adattare la loro offerta imprenditoriale alle mutate esigenze di rinnovamento, trovino più conveniente diffondere il panico tra i loro dipendenti che, giustamente preoccupati per il proprio futuro, si fanno parte attiva nel richiedere l’immobilismo dell’amministrazione, bloccare ogni cambiamento e, quindi, consegnare ai loro padroni l’ennesima proroga».

Sabella che è arrivato nella giunta Marino dopo gli arresti di mafia Capitale, affronta il problema degli appalti in campidoglio, ne evidenzia le criticità e gli errori fatti. E suggerisce soluzioni che però non sempre sono state prese in considerazione dalla politica. Per l'ex assessore: «Un’amministrazione capace e competente, quale dovrebbe essere quella della Capitale d’Italia, avrebbe al contrario avuto il dovere di verificare le legittime esigenze dei lavoratori e prevedere nei nuovi bandi adeguate clausole sociali e di salvaguardia dei posti di lavoro magari puntando sulla territorialità delle imprese e sull’esperienza maturata così da rendere più indolore possibile, per le parti deboli del contratto, il cambiamento richiesto dalla politica ma soprattutto dai cittadini. Nel settore del sociale e dei servizi alla persona la questione peraltro assume un particolare rilievo in quanto l’oggetto della tutela pubblica non è sempre e solo l’anziano, il disabile, il senza tetto, il disoccupato ma anche lo stesso lavoratore che, senza quell’impiego, sovente finirebbe per trovarsi nelle medesime condizioni delle persone di cui è chiamato a occuparsi».

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