Il rapporto della Flai Cgil indaga il fenomeno dello sfruttamento nelle banlieue agricole italiane. Un mondo di illegalità e violenze imposte ai braccianti nelle campagne delle Puglia fino al Piemonte. La testimonianza di un caporale riluttante che ha svelato i meccanismi, business e gerarchie di boss italiani e soci stranieri

Lavorano dodici ore al giorno sotto il sole. Fino a morire di fatica. Accampati in tendopoli o stipati in ghetti fatiscenti. Ai margini dei campi dove vengono prodotte le primizie made in Italy. Senza regole, senza leggi. Dove l’unica parola che conta è quella del caporale. Una pratica che mette in moto due business: le agromafie e la gestione del mercato della braccia, che insieme muovono un’economia illegale e sommersa con un volume d’affari tra i 14 e i 17 miliardi di euro.

È quanto emerge dal terzo rapporto “Agromafie e caporalato” realizzato dall’osservatorio “Placido Rizzotto” della Flai Cgil, ricostruendo un quadro approfondito sulla condizione di braccianti e raccoglitori, delle variegate forme di illegalità e infiltrazione mafiosa nell’intera filiera.
L'anticipazione
Yvan Sagnet: "Il caporalato e le nuove forme di schiavitù"
13/5/2016

Nelle campagne ci sono soprattutto i lavoratori stagionali stranieri. Perché lo sfruttamento viaggia di pari passo con il fenomeno della tratta degli esseri umani. Ma ci sono anche i braccianti italiani come Paola Clemente, 49enne di San Giorgio Jonico, nel Tarantino, caduta in un campo pugliese la scorsa estate, stroncata dalla fatica mentre lavorava all'acinellatura dell’uva. Per due euro all’ora.

Non è solo Puglia e la raccolta dei maledetti pomodori. Dal rapporto emergono 80 distretti agricoli con le stesse pratiche di sfruttamento e regole non scritte: cinquemila donne che lavorano nelle serre di Vittoria (Ragusa) dove vivono segregate e nel totale isolamento subiscono ogni genere di violenza sessuale, e poi gli schiavi della vendemmia dal Monferrato alla Sicilia per produrre spumanti e vini doc e sempre più giù nella scala sociale, fino ai 13 mila indiani che vivono nell’Agropontino, raccogliendo frutta per 400 euro al mese.

Infografiche
Tutti i numeri delle agromafie e caporalato
13/5/2016


Non c’è settore di produzione immune al fenomeno: è appena stato scoperto un traffico di profughi reclutati per lavorare nei campi del Chianti fiorentino. Sottopagati e picchiati per sottostare alle regole di cinque aziende vitivinicole, nel cuore di un territorio diventato in trecento anni e milioni di bottiglie prodotte, un tutt’uno con il brand della Toscana.

Ad essere vittime del caporalato (e delle sue diverse forme) sono indistintamente italiani e migranti, un esercito di braccia anonime di 430 mila persone. Un esercito che ha ingrossato le sua fila di altri 40 mila lavoratori rispetto all’anno precedente.

Per tutti le regole non scritte dello sfruttamento rimangono più o meno le stesse: nessun contratto, un salario tra i 22 e i 30 euro al giorno (inferiore del 50 per cento rispetto a quelli ufficiali) e poi tantissimo lavoro a cottimo.

Unito a un corollario di violenza, ricatti, abusi (come la sottrazione dei documenti), l’imposizione di un alloggio, i guanti venduti peso d’oro e il trasporto effettuato dagli aguzzini stessi.

«Il nostro rapporto esce dopo i fatti della drammatica estate 2015, nella quale troppi sono stati i morti sui nostri campi. Abbiamo voluto non solo fotografare ma anche indagare il fenomeno del caporalato, dello sfruttamento, della condizione dei lavoratori migranti, delle infiltrazioni mafiose nell’agroalimentare perché nessuno possa dire che non si conosceva il fenomeno», sottolinea Ivana Galli, segretario generale della Flai Cgil.

IL CAPORALE RILUTTANTE

Questo è il racconto di un migrante del Burkina Faso che per quattro anni è stato uno dei tanti caporali che comandano nella campagne italiane. Trent’anni, dopo la fuga dall’Africa, ha vissuto in un casolare a Boreano, la città fantasma dei raccoglitori di pomodoro in Basilicata, a cavallo con il confine della Puglia.

«Sono arrivato in Italia nel 2009 dopo una tappa in Francia», racconta Francis (il nome è di fantasia): «Finisco a Foggia per la raccolta del pomodoro. Dopo un anno da bracciante, un caporale mi propone di aiutarlo, io ho la patente e lui no. Ha paura di imbattersi nella polizia e il sequestro del furgone per questo io gli posso servire».

Francis accetta e diventa un “reclutatore” di braccianti: dapprima con il suo boss e poi piano piano autonomamente. Si sveglia alle 5 del mattino, va nei diversi casolari e sceglie la squadra che porterà nell’azienda da cui è partita la richiesta.

Ogni mattina accompagna circa 15 persone al lavoro, ma a bordo del furgone ne possono stare all’occorrenza anche venti, uno in braccio all’altro. I braccianti pagano cinque euro al giorno, sia per l’andata che per il ritorno, a prescindere dai chilometri da percorrere. È un costo forfettario, poiché a volte il tragitto da fare è lungo (anche 50 km) mentre a volte è breve (appena qualche chilometro). Il reclutatore non solo porta i braccianti nel campo, ma resta con loro a lavorare per tutto il tempo.

caporali, caporalato, agricoltura, immigrati

Avanti e indietro dai casolari abbandonati e diventati ghetti senza acqua e corrente elettrica e i campi arsi dal sole. Casa e lavoro sono lo stesso inferno. Sul furgone si trasportano anche acqua, pane, medicine (aspirine, antidolorifici, cerotti) che in caso di necessità vengono vendute ai membri della squadra o ad altri lavoranti. Tutto qui ha un costo.

«Tra i soldi del “biglietto” e la vendita di questi prodotti ogni settimana incassavo circa 1.400 euro. Di questi 500 erano per me e il resto lo versavo al mio capo. Sommando altri 40/50 euro dalla raccolta mi rimanevano tremila, tremilacinquecento euro al mese. Un cifra enorme per uno straniero come me. Io appartenevo al gruppo di caporali e lavoratori, nel senso che stavo con la squadra, ma ci sono caporali che trasportano solo le persone e poi svolgono altre attività illegali. Questo è il motivo che mi ha spinto ad uscire dal giro. È un giro sporco con uomini violenti e aggressivi, che usano il loro potere per arricchirsi».

Come? «Vendendo anche droghe, portando a prostituirsi le donne sulle strade. Hanno rapporti con la criminalità locale e per ogni cosa chiedono soldi ai lavoratori dicendogli che non lavoreranno più se non accettano le loro condizioni». Ecco il mondo nascosto delle baracche e strade assolate del Tavoliere.

La «piramide dello sfruttamento» ha in genere un italiano all’apice e intorno una selva di figure: il “tassista” che si limita a gestire il trasporto, il “venditore” che organizza le squadre e impone la vendita di beni di prima necessità. C’è poi “l’aguzzino”, quello che utilizza e impone sistematicamente violenza, sottrazione dei documenti e impone condizioni di vita indegne.

I più scafati diventano “caporale amministratore delegato”: l’uomo fidato che gestisce per conto dell’imprenditore l’intera campagna di raccolta con l’obiettivo di massimizzare i profitti. Ci sono poi forme nuove di caporalato. A gestire il business sono le cooperative senza terra, che garantiscono la raccolta chiavi in mano. Assumono per la vendemmia o la raccolta con un contratto a chiamata truffaldino perché i braccianti si ritrovano sulla busta paga appena due giorni, anche se ne hanno fatti venti o più.

Il più pericoloso è quello mafioso: colluso con la criminalità organizzata, il caporalato è solo una delle sue attività (oltre alla tratta di esseri umani, truffa per documenti falsi e all’Inps, estorsioni, riciclaggio). Gestiscono migliaia di persone, e decine di furgoni. I proprietari dei campi da una parte danno l’incarico a questi personaggi per trovare lavoratori, dall’altra ne hanno anche paura poiché sono delinquenti. Ma gli imprenditori comunque ci guadagnano sempre. E sempre fanno guadagnare il boss annullando ogni forma di diritto.

«I caporali italiani – insieme al loro boss – possono imporre le loro regole anche agli imprenditori, ma quelli stranieri devono sempre aspettare l’ingaggio da parte delle aziende. Non sono in grado di imporre i loro braccianti. Questa è la differenza, in termini di potere e di intimidazione, tra gli uni e gli altri. E se gli stranieri, non rispettano ciò che gli italiani gli dicono di fare diventa molto difficile anche per loro operare in questo settore» svela Francis.

La differenza di potere e di prestigio sta anche nei guadagni. «Il caporale italiano guadagna molto di più di quello straniero, poiché è in grado di negoziare con l’imprenditore il prezzo della raccolta e al contempo pagherà i braccianti di meno. Chi sta al vertice di questo sistema può arrivare a guadagnare anche 200 mila euro al mese. E non è un’esagerazione. E i suoi aiutanti altri 70mila. Chi li può fermare?».