Fondata da un senegalese, dedicata al profeta della dignità africana, Casa Sankara accoglie e prepara a trovare un lavoro regolare. Mentre l’ennesima sanatoria arranca tra costi insostenibili e burocrazia

A Casa Sankara abitano 500 persone. Il nome della cooperativa di San Severo, in provincia di Foggia, è ispirato a Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso morto nel 1987: un leader rivoluzionario che lottò per liberare l’Africa dal neocolonialismo. Il suo volto è dipinto sul muro di uno dei prefabbricati di Casa Sankara. I suoi occhi ti guardano, ti rapiscono. Nel ritratto il braccio è alzato, il pugno chiuso. Bisogna ribellarsi, diceva.

Spiegare cos’è Casa Sankara non è facile, soprattutto per chi non la vive quotidianamente. Può essere utile partire dai motivi per cui questa comunità è nata: «Noi vogliamo distruggere i ghetti, i “non luoghi” in cui chi lavora la terra o ha altri impieghi di fortuna si rifugia per dormire, lavarsi e sopravvivere, e salvare le persone che ci lavorano dallo sfruttamento», racconta Mbaye Ndiaye, uno dei padri fondatori.

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La sua storia si intreccia con quella di Casa Sankara. È stato Mbaye a battersi fin dall’inizio per creare una realtà che potesse aiutare i migranti a uscire dall’illegalità e dalla miseria: «Chi arriva qui trova un luogo dove potersi rifugiare. Gli offriamo un posto dove dormire, lo aiutiamo a regolarizzarsi e a cercare un lavoro».

Secondo il ministero delle Politiche agricole sono 150.000 i lavoratori irregolari impiegati nei campi. Vivono in condizioni disumane, soffocati da reti di sopraffazione ben radicate. Lavorano la terra e si riposano nelle baracche allestite nei ghetti, perché non possono permettersi di stare altrove. Ma le paghe sono così basse che alla fine finiscono per indebitarsi lo stesso: nei ghetti si pagano 50 centesimi per il bagno, 5 euro per mangiare, 10 per comprare un rapporto sessuale. Tutto ha un prezzo.

In provincia di Foggia, dove si concentra gran parte della produzione italiana di pomodori, ci sono diverse realtà di questo tipo. Se ne parla solo quando c’è una rivolta o quando qualcuno, stroncato dalla fatica, perde la vita. Il 24 giugno è morto Camara Fantamadi, un ragazzo di 27 anni originario del Mali: zappava la terra nelle campagne di Tuturano, vicino Brindisi.

Casa Sankara è nata a pochi chilometri dal ghetto di Rignano, quello che era stato smantellato a marzo del 2017 ed è poi rinato. «Io quel ghetto l’ho visto. L’ho visitato diverse volte con un’associazione di volontariato: ho parlato con le persone che ci vivevano, ho ascoltato i loro racconti, ho capito cosa gli facevano e come li trattavano», dice Mbaye. Non era lì per raccogliere pomodori ma per portare assistenza.

«Dal Senegal sono arrivato in Italia legalmente. Lavoravo in un’azienda milanese, poi quando mi è scaduto il contratto ho perso tutto: il permesso di soggiorno e la possibilità di trovare un’altra occupazione», racconta Mbaye. In Italia, con la legge Bossi-Fini, funziona così: puoi avere un impiego regolare solo se hai già un permesso di soggiorno, altrimenti sei destinato a lavorare in nero.

Mbaye diventa un venditore ambulante. La sua vita cambia. «Volevo uscire da quella condizione a tutti i costi», dice. Nel 2009 cerca di rientrare nella sanatoria predisposta dall’ultimo governo Berlusconi, ma viene truffato da un avvocato che gli chiede più di mille euro per aiutarlo a preparare i documenti necessari alla regolarizzazione. I raggiri e le estorsioni in questi casi capitano spesso; episodi simili si sono verificati anche con l’ultimo provvedimento di emersione introdotto dall’ex ministra per l’Agricoltura, Teresa Bellanova.
Mbaye decide di denunciare l’avvocato che l’aveva ingannato e si rivolge all’associazione Libera di Don Ciotti. Viene ascoltato, aiutato e indirizzato a un’altra organizzazione che si occupa di offrire supporto a chi lavora nei campi del Foggiano.

È a quel punto che Mbaye entra nel ghetto di Rignano. Incontrando gli stagionali pagati a cottimo e malnutriti, Mbaye capisce che l’unico modo per assistere realmente queste persone è portarle via da quell’inferno: «Non basta dargli un pasto caldo e un luogo dove dormire. Bisogna mostrargli un’alternativa, far in modo che in quel ghetto non mettano più piede».

Mbaye ne è convinto, diventa la sua missione. Decide di creare un luogo dove poter dare accoglienza a chi fugge dallo sfruttamento. Fonda un’associazione “Ghetto out” e prende in affidamento una struttura abbandonata: in quel terreno, il 27 luglio del 2013, nasce Casa Sankara. La comunità cresce anno dopo anno: aumentano le stanze e gli ospiti. «Eravamo pochi, ora siamo centinaia», ripete fiero. Al telefono la sua voce è squillante, parla piano scandendo le parole per paura di non essere compreso. Si sente quanto sia legato alla realtà che ha costruito. «All’inizio era difficile convincere le persone a lasciare i ghetti, non credevano fosse possibile una vita diversa. Avevano paura di perdere quel poco che avevano. Dopo, quando hanno visto che non volevamo prenderli in giro e che farsi aiutare era possibile, sono corsi da noi».

A Casa Sankara si coltiva: ci sono 16 ettari di terra da poter utilizzare. Chi vuole, torna nei campi, ma questa volta da uomo libero. «Abbiamo iniziato con la canapa quattro anni fa, poi siamo passati ai legumi invernali e alla fine abbiamo scelto di dedicarci alla raccolta di pomodori», racconta Mbaye. Il marchio è stato registrato l’anno scorso con il nome di “Riaccolto”, sui barattoli la ‘i’ è volutamente cancellata per ricordare a chi compra questo prodotto le condizioni dei braccianti “invisibili” pagati 3 euro all’ora. Le lettere della parola “Riaccolto” significano anche: Riscatto, Impegno, Accoglienza, Cooperazione, Condivisione, Occupazione, Legalità, Trasformazione e Opportunità. Nelle campagna di Casa Sankara oggi lavorano una quarantina di ragazzi e ragazze. Il progetto ha avuto il sostegno della Regione Puglia e del governatore del Pd, Michele Emiliano.

A Casa Sankara si dorme, si mangia e si cresce insieme. «Noi ospitiamo le persone per poi prepararle a una vita autonoma». Chi arriva viene messo in contatto con gli uffici di collocamento o indirizzato verso le aziende che cercano lavoratori; vengono offerti contratti regolari con stipendi dignitosi. Mbaye ha costruito una realtà dove viene realizzato quello che per legge dovrebbe fare lo Stato: dare una possibilità di integrazione, sfruttare l’immigrazione affinché diventi una risorsa. «Casa Sankara non è una casa, ma un appoggio. Noi mettiamo le persone in condizione di poter assolvere ai propri doveri. L’immigrazione non deve essere alle spalle dello Stato».

Integrare non vuol dire soltanto garantire un permesso di soggiorno: regolarizzare un migrante senza aiutarlo a uscire dallo sfruttamento e dalla miseria non serve a molto. Per rendere una persona libera bisogna cambiare le condizioni di lavoro che lo portano allo sfruttamento. Se non hai un’alternativa al lavoro a cottimo, ai turni di 12 ore consecutive e alle paghe in nero, avere un permesso di soggiorno non incide particolarmente. «Quando vivi in un ghetto ti pieghi a quel mondo, ti arrendi all’idea di non poter aspirare a nulla di diverso», dice Mbaye.

Anche per questo motivo, forse, i risultati della sanatoria introdotta dall’ultimo governo Conte non sono stati quelli sperati. Pochi braccianti hanno presentato i documenti richiesti per la regolarizzazione e tra questi, per adesso, un numero ridotto di persone è riuscito ad accedere ai permessi di soggiorno. Per Mbaye «i costi a carico del datore di lavoro e del migrante irregolare erano troppo alti». Le domande potevano essere depositate, infatti, o dal dipendente che fino a quel momento aveva avuto un impiego irregolare o dal titolare: in un caso bisognava versare un contributo di 180 euro, nell’altro di 500. Queste spese hanno disincentivato moltissimo sia i datori di lavoro sia i dipendenti. Per chi vive in un ghetto 180 euro sono una risorsa difficile da accumulare.

Alla sfiducia si è aggiunta la lentezza. Secondo i dati raccolti dall’associazione “Ero Straniero” su più di 200.000 richieste presentate, la regolarizzazione è stata concessa a circa 11.000 persone. Le difficoltà sono burocratiche, prevalentemente: le procedure devono essere esaminate dalle prefetture che lamentano poco personale. “Ero Straniero” calcola che con i ritmi attuali a Milano serviranno più di 30 anni per portare a termine la valutazione di tutti i documenti ricevuti.

Le speranze dell’ex ministra Teresa Bellanova sono andate disattese, il governo intendeva dare un’opportunità ai braccianti, ma per chi sopravvive nei ghetti è cambiato poco. Da tempo le associazioni della società civile che si occupano di migrazione e sfruttamento ribadiscono l’importanza di strutturare una rete che favorisca l’integrazione, quella vera.

Potrebbe essere utile avere tante realtà come Casa Sankara, diffuse sul territorio e supportate dalle istituzioni: come i vecchi centri di accoglienza (gli Sprar) gestiti da diversi enti locali, quelli che i decreti sicurezza voluti dal leader della Lega, Matteo Salvini, hanno abolito e che sono stati reintrodotti dal secondo governo Conte. La riforma del 2020 ha riaperto queste strutture ai richiedenti asilo e ha stabilito nuovamente qual è l’obiettivo a cui aspirare: l’inserimento nel tessuto sociale locale delle persone accolte. Secondo i dati elaborati dal ministero dell’Interno, nel 2020 i progetti avviati erano 794 in tutta Italia. L’obiettivo è continuare a diffondere capillarmente centri di questo tipo. Realtà in cui i migranti non devono essere solo “migranti” ma persone con desideri, bisogni e prospettive.

A un convegno sul caporalato qualche anno fa Mbaye ha fatto notare ai presenti che per ore tutti avevano parlato in nome dei migranti, ma nessuno aveva pensato di interpellarli direttamente. A Casa Sankara i discorsi subalterni vengono scardinati.