Solo raccontando si supera il trauma, così dicono gli esperti. Che spiegano come vanno seguiti e curati i minori che hanno subito maltrattamenti, violenza o sfruttamento sessuale

C’era una volta Cappuccetto Rosso, col lupo cattivo pronto a divorarla. C’erano gli orchi, che mangiavano le bambine. E c’era Pelle d’asino, che l’insidioso padre seduceva con abiti meravigliosi, determinato a sposarla. E lei fuggiva, ricoperta dalla pelle dell’animale, nella versione di Charles Perrault. O come un’orsa, nella rivisitazione del “Cunto de li cunti” di Giambattista Basile.

C’erano le favole che parlavano di temi universali: il bene e il male, per cominciare. Poi tutto è diventato relativo; le fiabe espressioni popolari da licenziare; l’orrore in esse racchiuso mostruosità da allontanare. Ma «quelle terribili vicende che volevamo tenere fuori dalla vita dei nostri figli sono già nelle nostre famiglie», spiega la scrittrice Teresa Buongiorno in “Dizionario della fiaba” (Lapis Edizioni): «Tanto vale guardarle in faccia, riconoscerle e affrontarle».
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Proprio questo è il punto: come affrontarle? Come comportarsi di fronte ad abusi; come aiutare i bambini a superare il trauma. E, prima di tutto: denunciare sempre o solo in certi casi? «Denunciare sempre: per ottenere giustizia e per non lasciare un criminale in circolazione», interviene Ida Bonagura, direttore del Centro Psicotecnico della Polizia di Stato, una di quelle professioniste che sa come ascoltare i più piccini: lo fa su delega del pubblico ministero, nella fase preliminare al processo.

È lei a raccogliere i loro racconti: «Come e quando vogliono. Ai bambini non dici qual è il momento di cominciare, sono loro a dettare i tempi». Ma come evitare che questo necessario resoconto risvegli il danno subito, e si trasformi in un trauma ulteriore? «Questo rischio c’era fino a poco tempo fa, quando il bambino era costretto a ripercorrere i fatti in diverse fasi del giudizio. Oggi è molto limitato: il ricorso all’audizione protetta, in fase di incidente probatorio, videoregistrata, fa prova: evita altri interrogatori e il rischio che il bambino, rivivendo la violenza, sia traumatizzato una seconda volta».
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È l’effetto della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro sfruttamento e abuso sessuale, firmata a Lanzarote nel 2007 e ratificata in Italia nel 2012: una normativa che detta precise cautele a garanzia del minore nel processo. «A valutare è sempre il giudice che, data la delicatezza della situazione, si avvale di periti tecnici»: esperti nell’impiego di criteri accettati dalla comunità scientifica.

«Partiamo da un presupposto. Nella maggior parte dei casi la pedofilia avviene tra le mura domestiche. In questo caso produrrà silenzio e segreto. Pericolosissimo, perché fa sì che il reato possa essere reiterato e che nella testa del bambino si normalizzi. Se il colpevole è una persona di famiglia, di cui si fida, la violenza è ancora più difficile da scardinare. Genera senso di colpa, di impotenza, di vergogna», dice Bonagura: «Il bambino si sente addirittura colpevole perché magari è tornato lui stesso a sollecitare la violenza, che a volte è l’unico modo per essere visibile agli adulti. Muta tutto quando decide di parlare. Fino a quel momento non era consapevole di essere una vittima. Dopo, deve affrontare le conseguenze della sua rivelazione».
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E se il carnefice non è all’interno delle mura domestiche? «Se c’è stata una denuncia, col sostegno di un genitore o di un insegnante, quel bambino parlerà più facilmente: non ha la necessità di coprire il responsabile. Ma se è meno problematico arrivare al racconto, senso di inadeguatezza, rabbia, vergogna, tendenza all’isolamento sono identici. Come la paura: le luci gli si puntano addosso, il mondo adulto lo osserva».

E come avviene, concretamente, il colloquio? «È un’intervista fatta a step, un gradino dopo l’altro», spiega Bonagura: «Prima parli di cose generiche, valuti il modo di esprimersi, la congruità del lessico. Domandi di eventi importanti della sua vita; ti avvicini all’argomento. Dopo l’intervista, scatta l’analisi, perché ci sono criteri di veridicità di cui tenere conto: la contraddizione è normale nei bambini, come l’inserimento di elementi superflui. Spesso è un disegno a sciogliere l’ansia. Si compie un esame grafologico. Si riflette sulla congruità tra emozioni e parole. Alla fine si dà un giudizio».
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«È come fare una diagnosi clinica», conferma il neuropsichiatra dell’età evolutiva Francesco Vitrano, consulente dell’autorità giudiziaria in varie procure italiane: «La pedofilia lascia tracce psicopatologiche dal punto di vista clinico nitidamente definite. Esperienze sfavorevoli subite nell’infanzia, non a caso, generano comportamenti di maltrattamenti da adulto. Naturalmente, è diverso se mi trovo in un ambito giuridico o terapeutico: in un caso devo rilevare elementi da dare al giudice, nell’altro utilizzo un approccio clinico-trasformativo». Di cura.

Ma come si consola un bambino maltrattato? Come lo si libera di quel peso? «I bambini che raccontano soffrono, ma danno a ciò che hanno vissuto un significato. È un momento delicato ma importantissimo. È anche un lavoro su una linea sottilissima tra la protezione del bambino e l’attenzione a non portare elementi di condanna dove non ce ne sono. Prima di tutto cerco di sintonizzarmi con lo stile del bambino, col suo linguaggio, per arrivare a un racconto spontaneo».
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I disegni. I giochi. La drammatizzazione fiabesca: gli strumenti di intervento sono vari, ma mirano tutti all’ascolto profondo. Quello che è mancato. «I genitori hanno il compito dell’ascolto empatico: i bambini che hanno subito violenze lasciano tracce. Più che illudersi di proteggere, serve saperle cogliere», aggiunge Vitrano. La violenza non si può prevenire? E sono utili quei libri che raccontano temi difficili, maltrattamenti inclusi, con parole leggere, come gli albi di Carthusia “Ho bisogno di una storia”?: «L’unica prevenzione è esercitare la funzione genitoriale dando significato alle esperienze dei figli», continua Vitrano: «Non possiamo far nulla contro l’esistenza dei pedofili, ma possiamo fare in modo che i bambini abbiano in sé i significati per capire le emozioni e le risorse per affrontarli. La pedofilia si realizza in tutti i contesti sociali. In comune, però, questi luoghi hanno sistemi affettivi non chiari. Serve fare chiarezza». Dissipare la confusione tra tenerezza ed erotizzazione del mondo adulto.

«La verità è che, in tanti anni, non si è fatto un passo avanti nella tutela dei bambini», accusa la psicologa Maria Rita Parsi, che di abusi infantili si occupa dal 1979: denunce drammatiche restano le testimonianze raccolte nei suoi libri, da “Le mani sui bambini” a “I quaderni delle bambine” (Mondadori): «Nulla è stato fatto per formare gli insegnanti, e per monitorare i maltrattamenti a scuola: abbiamo maestri che notano ma non denunciano, altri che non vedono. Così perdiamo l’occasione di utilizzare migliaia di avamposti contro la pedofilia. Denunciare o no? La giustizia non è a misura di bambini. E la denuncia non deve andare a scapito della loro salute mentale. La cosa migliore è denunciare ma, contestualmente, avviare una psicoterapia, che aiuti a tirare fuori le ferite. Il problema vero sono i bambini cresciuti nella violenza e rimasti in silenzio. Quelli che, invece, riescono a canalizzare l’orrore, fortunatamente recuperano presto».
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«Dipende dal contesto familiare, da figure adulte in grado di favorire il ritorno alla normalità», precisa Angela Cammarella, che dirige il Centro Spazio Sicuro Giorgio Fregosi di Roma, al quale si rivolgono i servizi sociali per sostenere bambini maltrattati: «Dipende dall’età dell’abuso: se è avvenuto presto, quell’esperienza inciderà sui legami di adattamento», le relazioni affettive con la figura di cura.

«Come si recupera la fiducia verso gli adulti? La psicoterapia aiuta a ritrovare punti di riferimento. Il trauma può aver provocato disfunzioni cognitive, emozionali, persino neurobiologiche per effetto dei meccanismi che fronteggiano la paura: i percorsi d’intervento sono molteplici. Ma tutti puntano a evitare che il racconto generi un nuovo trauma».

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