Nei quartieri più degradati delle città si annida il malcontento verso il governo. Come è stato dimostrato dal primo turno delle amministrative
Quando, due anni fa, Matteo Renzi espugnò Palazzo Chigi e insediò il suo governo dell’ottimismo, aveva ben in mente due obiettivi da raggiungere. Far ripartire in tempi brevi l’economia agonizzante; arginare il populismo dei 5 Stelle premiato con numeri travolgenti nelle elezioni politiche dell’anno prima. A distanza di 25 mesi dal gelido scambio della campanella tra Enrico Letta e il successore - ricordate? Neanche si guardarono negli occhi - Renzi per la prima volta deve fare i conti con un deludente risultato elettorale. Come ha ammesso egli stesso all’indomani del conteggio dei voti di domenica 5 giugno.
La crisi economica - primo obiettivo di Matteo che si credeva piè veloce - non molla le famiglie italiane. Nonostante il Jobs Act, la cancellazione della tassa sulla prima casa, i 10 miliardi all’anno pompati nelle tasche dei redditi bassi con il bonus degli 80 euro; nonostante tutta una serie di provvedimenti piccoli e grandi il Pil continua a crescere di qualche zero-virgola-qualcosa ininfluente sulla qualità della vita di milioni di italiani. È quel ceto medio proletarizzato - secondo l’analisi di Ilvo Diamanti - che soffre il declassamento sociale generato dal prolungarsi oltre ogni aspettativa della stagnazione. È un elettorato in preda a una vera e propria febbre anti-sistema.
Renzi e il suo governo dell’ottimismo commetterebbero un grave errore a ignorare la rabbia montante nelle periferie delle grandi città. Rappresentano il lato oscuro delle nostre esistenze; grumi di società nascosti dietro le cartoline scintillanti di città da far invidia a mezzo mondo. All’ombra del Colosseo, o di via Montenapoleone, o di Piazza San Carlo, le periferie hanno accumulato una carica di risentimento scaricata nelle urne. Nei Municipi V e VI, il Far East di Roma (Tor Sapienza, La Rustica, Tor Tre Teste, Ponte di Nona) raccontato sul numero della scorsa settimana da Daniela Ranieri, con le foto di Giancarlo Ceraudo, la candidata 5 Stelle ha raccolto il 37,1 e il 41,3 per cento dei consensi. Un “quinto Stato” in cerca disperata di rappresentanza. Anche a Torino, Milano, Bologna il Pd è uscito cotto dalla caldera suburbana.
Certo, concorrono cause locali, stratificazioni antiche nel tempo, insorgenze recenti provocate dall’immigrazione e dal senso di insicurezza che ne deriva. Ma la bonifica urbana e il risanamento sociale dello sfasciume cresciuto a dismisura intorno alle nostre metropoli meriterebbero l’attenzione di un grande piano nazionale di governo. Lungo, faticoso, con un ritorno d’immagine incerto per chi se ne facesse carico.
È in discussione la natura stessa di una forza riformista e popolare, sostenuta dall’ambizione di trasformare il Paese secondo valori di equità, giustizia, solidarietà sociale. Accade così che nella capitale sabauda, laboratorio ventennale di buona amministrazione, ricadano su un bravo sindaco come Fassino le pulsioni anti-sistema in crescita in Italia e in Europa. Con un dato aggiuntivo. Nel 31 per cento raccolto dalla candidata del M5S Chiara Appendino si ritrova anche un elettorato orfano del centrodestra, a Torino spaccato e ridotto ai minimi termini. Nel capoluogo piemontese si sta delineando infatti lo scenario dell’Italicum più sfavorevole a Renzi: un ballottaggio tra il suo Pd e un M5S in grado di pescare a piene mani a destra e dunque di rivelarsi pericolosamente competitivo.
Per arginare il grillismo questi due anni di governo sono trascorsi all’insegna del populismo riformista. La stessa storica trasformazione del Senato viene presentata in questa chiave: due su tre dei vecchi senatori vanno a casa, ripete il premier-segretario. Si cambia, purché si cambi. A prescindere dalla qualità delle riforme proposte. Tuttavia quando avrebbe dovuto schierarsi in difesa dei ceti più deboli, quando cioè è esplosa la crisi delle banche locali, il governo ha agito in modo incerto, opaco, compromissorio. Errore destinato a pesare in futuro. In tempi di partiti liquidi e di cittadini propensi allo zapping elettorale, le condizioni materiali di vita e le aspettative economiche personali e collettive sono forse l’unico metro di giudizio quando si vota. È come se Renzi e il suo partito di governo avessero smarrito questo ancoraggio della politica. Senza un blocco sociale di riferimento e senza una forza morale alle spalle, lo storytelling non è sufficiente per cambiare il Paese.
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