Questa è una storia di straordinario malaffare. Centinaia di milioni di euro decollati dall’Italia per rimbalzare fino in Lussemburgo, via Svizzera, Montecarlo e i paradisi offshore dei Caraibi. I documenti che "l’Espresso" ha potuto consultare raccontano una trama con un cast davvero assortito. Un ruolo decisivo viene svolto da grandi banche come Intesa e Ubi. E tra i protagonisti della storia troviamo imprenditori, manager e professionisti. Nomi già noti alle cronache come il gruppo guidato da Giuseppe Pasini, l’immobiliarista milanese coinvolto e poi assolto sei mesi fa in primo grado nel processo per le tangenti del cosiddetto "sistema Sesto" di Filippo Penati, pezzo grosso del Pd lombardo anche lui prosciolto. E poi Marco Marenco, imprenditore arrestato un anno fa per un crac da 3,5 miliardi e titolare, tra l’altro, della Borsalino, il famoso marchio dei cappelli. Nella lista troviamo anche l’azienda meccanica friulana Brovedani con il patron Benito Zollia, le acciaierie Valbruna della famiglia Amenduni, la Laworwash un tempo quotata in Borsa.
La grande centrifuga del denaro nero ha girato a pieno regime per almeno una dozzina di anni. Fino a quando, nel 2012, una lite tra gli eredi del gruppo piemontese Giacomini ha portato alla luce gli ingranaggi del sistema. La procura di Verbania e poi quella di Milano hanno raccolto e analizzato migliaia di documenti che disegnano i contorni di quella che appare come una gigantesca frode fiscale. Si è scoperto che grandi marchi del credito nazionale come Intesa e Ubi hanno fatto soldi a palate aprendo le porte delle loro filiali in Lussemburgo ai clienti italiani in fuga dalle tasse. C’è di più. I file raccolti dagli investigatori rivelano che all’occorrenza Intesa inviava propri dirigenti ad amministrare le società lussemburghesi da cui transitavano i flussi di denaro sospetti.
LEGGI LA LISTA DELLE PERSONE COINVOLTE
Nelle carte della procura di Milano compare anche il nome del banchiere Giuseppe Castagna, da poco promosso amministratore delegato del nuovo grande gruppo che nascerà dalla fusione tra Popolare Milano e Banco Popolare. All’epoca dei fatti, cioè tra il 2003 e il 2009, Castagna era un manager di punta della divisione Corporate and investment banking (Cib) di Intesa nonché consigliere di amministrazione della Société Européenne de banque (Seb), filiale lussemburghese del gruppo bancario all’epoca guidato da Corrado Passera.
Nell’estate del 2012 i riflettori della cronaca hanno illuminato solo la vicenda dei Giacomini, che nell’arco di una ventina di anni avevano nascosto all’estero oltre 200 milioni di euro. "L’Espresso", sulla base di documenti giudiziari e carte riservate, è però in grado di rivelare che molti altri imprenditori e professionisti hanno utilizzato sistemi simili per trasferire denaro all’estero. Tutti i nomi della lista, a cominciare dai Giacomini, avevano un unico broker di riferimento, uno spallone d’alto bordo in grado di garantire ai suoi clienti un servizio rapido, discreto ed efficiente.
L’uomo del Lussemburgo si chiama Alessandro Jelmoni, 49 anni, un veneto di San Donà di Piave che ha imparato in banca i segreti del mestiere per poi mettersi in proprio come consulente. Era lui, Jelmoni, il capo di quella che i pm di Milano, Giordano Baggio e Andrea Civardi, descrivono come un’organizzazione criminale creata allo scopo di favorire l’evasione fiscale.
La giostra del denaro nero ruotava attorno a una società lussemburghese, la Titris, organizzata come una scatola con molti cassetti, ciascuno dei quali era intestato a un cliente, oppure serviva per uno specifico affare. Un report di un centinaio di pagine agli atti dell’inchiesta segnala 38 comparti in totale. Secondo questo rapporto, affidato dalla Procura di Milano al consulente tecnico Roberto Pireddu, gran parte dei movimenti di denaro transitavano su conti bancari di Ubi international.
Diverse operazioni risalgono molto indietro negli anni, fino al 2004 e a volte la documentazione recuperata dagli investigatori è incompleta, probabilmente distrutta o messa al sicuro prima dell’inizio delle indagini. In alcuni casi diventa quindi difficile associare una persona a un singolo affare sospetto. C’è un comparto (numero 21) denominato Borsalino, che fa riferimento al già citato Marco Marenco. Un altro, il numero 15, è intestato all’immobiliarista milanese Michele Carasi. Alla famiglia Di Leo, proprietaria della Astor immobiliare di Atella (Potenza) era stata messa disposizione la piattaforma 28, su cui sono transitati 8 milioni di euro. All’azienda Brovedani, guidata da Benito Zollia, comparto numero 29, è invece associata un’operazione del valore di 21,4 milioni. Il "cassetto" 25 della grande scatola Titris risulta assegnato a PM, uomo d’affari finito sui giornali qualche anno fa come il titolare del residence in via Olgettina a Milano dove Silvio Berlusconi ospitava le sue amiche, da allora in poi meglio conosciute come "Olgettine".
Giunti ai numeri 36 e 37, gli investigatori sono inciampati in un rebus difficile da risolvere. Si legge infatti nella relazione tecnica agli atti dell’indagine che quei comparti erano intestati al commercialista Lorenzo Barbone insieme a un non meglio identificato Maurizio Lupi. Nome e cognome corrispondono a quelli del parlamentare del Nuovo Centrodestra, nonché ex ministro del governo di Matteo Renzi. Nelle carte però non compare nessun altro elemento utile a individuare la persona: niente data di nascita, residenza, professione. Solo quel nome e cognome. Va però segnalato che Barbone è socio di studio del tributarista Raffaello Lupi ed entrambi hanno assistito Jelmoni per alcuni affari all’estero.
L’intestazione dei comparti 36 e 37 potrebbe essere quindi il frutto di un errore materiale: un Lupi al posto di un altro. Maurizio invece di Raffaello. L’ipotetico errore è stato ripetuto più volte, almeno quattro, in diverse pagine dello stesso faldone di atti, dove non compare mai Raffaello Lupi, ma sempre e soltanto Maurizio. Il nome dell’ex ministro ha ovviamente incuriosito i magistrati che hanno chiesto spiegazioni a Jelmoni. Interrogato dal pm Civardi il 12 settembre 2012, il broker risponde che «Lorenzo Barbone è in rapporti stretti di lavoro con il professore Raffaello Lupi. Sicché per me è un errore l’indicazione di Maurizio».
Caso risolto? Non proprio, perché Jelmoni era in ottimi rapporti con gli ambienti milanesi di Comunione e Liberazione, gli stessi da cui proviene il politico Lupi. Quei rapporti si erano a suo tempo trasformati in una relazione d’affari. La società di gestione di fondi di proprietà di Jelmoni, la RMJ sgr, compariva infatti tra i finanziatori di "Tempi", periodico di riferimento di Cl. In quello stesso interrogatorio del settembre di quattro anni fa, il finanziere ha liquidato la questione come una semplice coincidenza. «Replico che non conosco nemmeno il parlamentare (cioè Lupi, ndr)», ha tagliato corto il patron di Titris, aggiungendo però che forse in passato l’aveva «conosciuto in una occasione» con Simone (Antonio Simone, ciellino, a processo con Roberto Formigoni per le tangenti sulla clinica Maugeri, ndr) senza che però siano «stati presentati». La vicenda, a quanto pare, si è chiusa qui. Dagli atti dell’inchiesta non risulta che i pm abbiano svolto ulteriori approfondimenti.
Sta di fatto che i comparti 36 e 37 sono serviti a gestire alcuni affari immobiliari in Germania, a Berlino, conclusi attraverso la società tedesca Capital Investment spv 2. Quest’ultima è solo una delle tante operazioni descritte nella relazione del consulente della procura. Semplificando al massimo, il canovaccio seguito da Jelmoni era il seguente. I soldi in arrivo dal cliente in Italia venivano triangolati dal Lussemburgo verso sigle offshore nei Caraibi per poi affluire su conti bancari, anche questi all’estero, riferibili ai presunti evasori fiscali. Anche lo studio panamense Mossack Fonseca aveva dato una mano: alcune delle società schermo risultano costituite con l’assistenza dei legali diventati famosi nel mondo per via dello scandalo dei Panama Papers.
Il processo contro Jelmoni e i suoi principali collaboratori (Nerina Cucchiaro, Mario Iacopini e altri) è iniziato ai primi di giugno, quattro anni dopo l’arresto del broker. Procedimenti separati, anche in altre città italiane, sono invece stati avviati contro gli imprenditori e i professionisti accusati di aver dribblato il Fisco nostrano. È il caso dei fratelli Giacomini (Andrea, Corrado ed Elena) che però potranno essere giudicati per frode fiscale solo per i fatti successivi al 2011. Tutte le altre accuse, che riguardano giochi di sponda finanziari per decine di milioni di euro, sono già state azzerate dalla prescrizione.
E le banche? Nel 2012 i pm Baggio e Civardi hanno iscritto nel registro degli indagati anche Intesa e la sua controllata in Lussemburgo, la Seb, insieme all’amministratore delegato di quest’ultima, Marco Bus, e al già citato Castagna. In sostanza, i manager erano sospettati di riciclaggio per aver gestito il denaro frutto dell’evasione fiscale dei Giacomini. Gli istituti di credito erano invece chiamati a rispondere in base alla legge sulla responsabilità amministrativa degli enti.
A ottobre dell’anno scorso, però, i due pubblici ministeri hanno chiesto e ottenuto l’archiviazione del filone d’inchiesta che riguarda Intesa, un provvedimento deciso dal giudice per le indagini preliminari (Gip), Cristina Di Censo. La partita non è ancora chiusa. L’avvocato Mario Zanchetti, il legale di parte civile che assiste l’azienda Giacomini spa, ha fatto ricorso in Cassazione contro l’archiviazione. Motivo: il decreto del Gip, datato 19 ottobre 2015, non ha tenuto conto dell’opposizione formulata da Zanchetti a tutela delle ragioni del gruppo Giacomini.
Secondo l’accusa infatti, l’azienda novarese, che ha un migliaio di dipendenti e filiali in tutto il mondo, sarebbe stata depredata dai suoi proprietari che hanno nascosto all’estero un vero tesoro. Il ricorso della parte civile riguarda il solo Bus. Il 12 luglio la Cassazione deciderà quindi se rimandare al Gip gli atti che riguardano l’ex amministratore delegato di Seb, che ha lasciato il suo incarico in Lussemburgo ma lavora ancora nel gruppo Intesa come manager di Imi. In teoria è quindi possibile che l’archiviazione venga annullata. Di conseguenza ripartirebbero le indagini sul banchiere che quindi rischia di andare a processo.
Numerose testimonianze, decine di documenti societari e anche un rapporto riservato redatto dagli ispettori interni della banca, confermano che Intesa aveva rapporti strettissimi con i Giacomini. Nei file agli atti dell’inchiesta giudiziaria vengono ricostruiti versamenti e prelievi per milioni di euro, anche in contanti, senza che i funzionari abbiano mai segnalato queste operazioni sospette all’antiriciclaggio di Bankitalia. In una nota della direzione internal audit di Intesa, si legge che tra il 2002 e il 2005 dai conti della Giacomini spa in Italia sono usciti 22 milioni verso la società lussemburghese The Net. Nei sei anni successivi, fino al 2011, sono volati in Lussemburgo 33 milioni, questa volta a favore di un’altra società del Granducato, la J&Be. La famiglia piemontese aveva collaudato un sistema per portare all’estero milioni di euro all’anno mascherandoli come pagamenti di fatture per prestazioni inesistenti. Ed erano Jelmoni e i suoi collaboratori a gestire il flusso di denaro attraverso le lussemburghesi The Net e J&Be. Quest’ultima aveva un conto corrente a Ubi bank international, filiale nel Granducato della bergamasca Ubi banca.
Lo stesso Bus, interrogato a più riprese dei magistrati, ha parlato dei fondi offshore gestiti da Seb per conto dei Giacomini. Nei verbali viene tra l’altro citata una società delle British Virgin Island, la Henderson services group, costituita, dichiara Bus ai pm, «su incarico di Seb» per conto di Alberto Giacomini (deceduto l’anno scorso). E il Fisco? «In pratica non ci era richiesto di verificare che le somme che gestivamo fossero effettivamente dichiarate», ha precisato il manager alla domanda dei pm milanesi. Nel 2009, secondo Bus, «la sensibilità su questo tema si sarebbe modificata». Risultato: solo allora alla Seb di Lussemburgo sarebbero cessati i rapporti con le società situate nei paradisi offshore.
Per il gruppo bancario italiano, però, il colpo grosso porta la data del 2006. Nei primi mesi di quell’anno, infatti, la famiglia Giacomini decide di riportare sui conti di Intesa nel Granducato oltre 100 milioni di euro che cinque anni prima aveva ritirato e accreditato presso altri istituti. L’operazione viene gestita da Bus insieme a Jelmoni. Il patron di Titris era una vecchia conoscenza nei corridoi della Seb. Per anni infatti, fin dal 1993, il broker poi finito agli arresti, aveva lavorato per conto di Cariplo International in Lussemburgo, poi diventata Intesa e infine Société Européenne de banque.
Nel 2001 Jelmoni si mette in proprio, ma continua a fare da consulente per i Giacomini che in quell’anno avevano deciso di azzerare i loro depositi alla Seb. Nel 2006 gli industriali piemontesi fanno marcia indietro e circa 116 milioni tornano sui conti della filiale lussemburghese di Intesa. I soldi arrivano dall’isola di Man, un altro paradiso fiscale, dove erano nella disponibilità del "Giacomini trust". Jelmoni recita più parti in commedia. È consulente della famiglia e allo stesso tempo è il protector del trust all’isola di Man, cioè il garante della correttezza della gestione del patrimonio. In pratica il broker di San Donà di Piave doveva controllare se stesso.
Per Intesa quei soldi di un cliente come i Giacomini significano milioni di euro di profitti sotto forma di commissioni. Per questo i vertici di Seb decidono di premiare Jelmoni. La banca sigla un contratto di consulenza con Rmj, la piccola società di gestione del broker. È lo stesso Bus, interrogato dai pm, ad ammettere che quello fu il prezzo da pagare «per recuperare il cliente». A due anni di distanza, quei 116 milioni, a cui se ne sono aggiunti nel frattempo un’altra quarantina, vengono utilizzati come garanzia per un prestito di 129 milioni erogato da Seb ad Alberto Giacomini e ai suoi tre figli Andrea, Corrado ed Elena. I soldi del finanziamento servivano per liquidare altri due rami della famiglia e invece di smontare il trust si decise di indebitarsi con la banca. Di lì a poco, però, Andrea comincia a litigare con Corrado ed Elena. L’azienda diventa un ring dove i parenti si parlano a suon di carte bollate.
La fine è nota. Nel 2011, arriva la Guardia di Finanza e poi i pm. Tutti a processo, salvo la banca e i banchieri. Secondo i pm Baggio e Civardi, non sarebbe infatti possibile sostenere in giudizio l’ipotesi d’accusa di riciclaggio perché non «si può ritenere raggiunta la prova» che quei 116 milioni confluiti nel Giacomini trust e accreditati a Seb siano di «provenienza delittuosa». In altri termini, non è detto che i soldi volati via da Intesa Lussemburgo nel 2001, denaro frutto di evasione fiscale, siano gli stessi che i Giacomini hanno poi collocato nel trust dell’isola di Man con il conto (dal 2006) alla Seb.
Quindi, secondo i pm, Bus poteva non sapere che i soldi che gestiva, intestati a un trust offshore, erano provviste in nero. Eppure, lo stesso Bus in uno dei suoi interrogatori ammette la "sostanziale identità" tra le somme uscite nel 2001 e rientrate cinque anni dopo. Niente da fare. Per Baggio e Civardi il processo al manager d’Intesa non s’ha da fare.
Aggiornamento del 18 luglio 2016, ore 17,43: Banca d'affari e di evasione