Latitante in Brasile, dagli Anni ’90 gestisce il traffico verso l’Europa.  E, a causa delle plastiche facciali, non si conosce il suo volto attuale

Nel cuore della notte, fra le alte mura di ferro dei container del porto di Gioia Tauro, Rosario Grasso comincia a sentirsi in trappola. Qualcuno lo sta fregando, ne è certo. Mentre i suoi stessi uomini gli giurano impauriti di essere innocenti, lui stringe nervosamente il cellulare. Dall’altra parte, su una linea che crede sicura, c’è il suo contatto in Brasile. «Che cazzo mi fate fare, vedi che ho la persona legata qua per terra», digita rapido sulla tastiera del suo telefonino dopo avere identificato un possibile colpevole.

L'ultima foto del latitante Nicola Assisi
Grasso è un picciotto della ’ndrangheta, mandato a recuperare 197 chili di cocaina purissima nascosti in un container tra alcuni sacchi bianchi. Nel container però del grosso carico di droga non c’e neppure l’ombra. Come spiegare ai suoi capi che ha perso un carico che frutterebbe almeno venti milioni di euro al dettaglio? È stato qualcuno dei suoi a tradirlo? O peggio ancora, sono i venditori brasiliani che stanno giocando sporco e l’hanno portato ad un passo dal punire i suoi stessi uomini per uno sgarro che non hanno commesso?
Fino all’apertura del container era andato tutto liscio: un ufficiale corrotto del porto, che gli ’ndranghetisti chiamano con il nome in codice “il porco”, gli aveva garantito un accesso sicuro al container “msc u356 5753”. Lo stesso numero che i narcos brasiliani avevano consegnato all’intermediario della spedizione, scolpito su una tavoletta di legno.

Il container individuato al porto di Gioia Tauro è quello giusto, non ci possono essere errori. Della coca non c’è traccia. In Brasile a ricevere i messaggi di Grasso c’è Patrick Assisi, primogenito del broker Nicola Assisi. Il suo telefono squilla senza sosta. «Digli che quello arrabbiato sono io no loro», scrive in un messaggio Grasso, e poi aggiunge: «Pensavo che mi stavano imbrogliando e ne ho legato uno e piangeva come un bambino, un padre di famiglia…».

Di solito la cocaina è posizionata all’apertura del container, affinche il rip-off possa essere rapido e indolore. Invece nelle foto che Grasso invia agli Assisi si vedono solo sacchi bianchi. Il container ne è pieno. Grasso ordina ai suoi di aprirli tutti, ma della cocaina «non c’è nemmeno la puzza».

Per proteggersi dalle operazioni di polizia i boss della ’ndrangheta hanno fatto in modo di tenere la struttura dei trafficanti il più possibile separata dalla gerarchia interna ai clan. Invece di mettere a rischio i propri uomini più preziosi, i clan calabresi contano su dozzine di broker ai quattro angoli del globo. Sono specialisti del narcotraffico poliglotti, colletti bianchi, pronti a entrare senza timore nella giungla Amazzonica controllata dai paramilitari colombiani, o a scalare le alture delle Ande pur di stringere la mano direttamente ai produttori e assicurarsi i prezzi migliori.

Dopo gli arresti dei piu famosi mediatori della cocaina Natale Scali, Roberto Pannunzi e Marco Rollero Torello, resta ancora libero Nicola Assisi, calabrese classe ‘58 emigrato a Torino negli anni Ottanta, ancora latitante. Riesce a sfuggire alle maglie della giustizia da oltre vent’anni. Assisi è stato il delfino di Pasquale Marando, originario di Platì, che per vent’anni ha gestito i traffici internazionali di cocaina fino a quando nel 2002 è stato eliminato con il metodo della lupara bianca.

Adesso, grazie ad una indagine giornalistica, è possibile ricostruire gli ultimi movimenti di Nicola Assisi tra Portogallo e Sudamerica, le “cartiere” brasiliane e gli accordi che ha fatto con i narcos locali.
Quando ha iniziato a trattare la coca, Nicola Assisi per i narcos era solo un soprannome, “il nipote”. Nella primavera del 1997 per la polizia italiana il giovane narcotrafficante non ha ancora un nome e nemmeno un volto. In quei mesi la Direzione investigativa antimafia di Torino era a caccia di broker calabresi in Costa del Sol, nel sud della Spagna, che inviavano cocaina sotto la Mole e a Rotterdam.

«All’epoca chiaramente usavano le cabine telefoniche, non i cellulari». ricorda Gianni Abbate, ex investigatore della Dia che ha indagato in passato su Assisi. «Eravamo riusciti ad individuare due cabine a Torino, che i trafficanti usavano spesso, e le abbiamo messe sotto controllo», aggiunge Abbate. All’alba del 16 maggio 1997 la Dia inizia a pedinare un uomo che proprio da una di quelle cabine aveva ricevuto l’ordine di assistere “il nipote” in una missione. Seguendolo gli agenti finiscono nelle campagne a nord di Torino, dove scoprono il volto di Assisi. Il calabrese e un suo complice hanno il compito di attendere un camion con un carico di droga per guidarlo ad un magazzino sicuro. Gli agenti danno ai trafficanti il tempo di scaricare, poi intervengono e li bloccano con 200 chili di cocaina: è il più grosso sequestro effettuato fino ad allora.

Quando Assisi vede gli investigatori tenta di fuggire. «Cercò di rubare una delle volanti dando un pugno ad un collega», racconta Abbate, «ci sono voluti tutti gli altri agenti per fermarlo».

Diciassette anni dopo, mentre Rosario Grasso e i fornitori brasiliani litigano a distanza per mezzo di Patrick, Nicola Assisi ha ormai l’esperienza e l’autorità per gestire quello che potrebbe diventare per i narcotrafficanti un grave “incidente diplomatico” fra i fornitori brasiliani e i compratori calabresi. Nessuno, infatti, aveva tradito nessun’altro. La coca era stata sequestrata a Valencia ma in accordo con gli investigatori italiani il container era stato nuovamente sigillato e lasciato proseguire. Nicola Assisi intuisce la trappola e fornisce al gruppo nuovi telefoni mentre Patrick organizza una nuova piccola spedizione “di prova”. La Guardia di finanza non si lascia ingannare e il “canarino” passa indisturbato. E il clan mangia la foglia.

La svolta nella carriera di Assisi arriva nel 2002, quando viene assassinato il suo mentore, Pasquale Marando, il primo a fare accordi direttamente con i cartelli colombiani in Sudamerica, aumentando i margini di profitto.
Il vuoto lasciato dal broker è un’opportunità per Assisi, che diventa l’unico in grado di portare avanti il traffico allo stesso livello. Eredita come alleati e compratori le famiglie di Platì a Torino, i Perre e gli Agresta, e un metodo di lavoro che lo porta con successo in America Latina. Il 6 novembre 2007 per lui arriva la prima sentenza definitiva con il bollo della Cassazione. I giudici lo condannano a 14 anni per droga.«Esattamente dieci giorni prima della sentenza, Assisi lascia l’Italia. Prima scappa in Spagna e poi in Sudamerica», spiega a “l’Espresso” l’ex agente Dia, Gianni Abbate, che gli ha dato la caccia.

Da allora Assisi si muove nell’ombra. Per altri sei anni nessuno sente nemmeno parlare di lui, ma vari indizi fanno pensare che abbia passato lunghi periodi in Brasile a stringere accordi con i fornitori. È la qualità dei contatti con i cartelli che producono la coca il vero valore di un broker. Secondo Nicola Gratteri, procuratore a Catanzaro e autore di “Oro Bianco”, «i più abili riescono a strappare prezzi bassissimi, anche 1200 euro al chilo». Lo stesso chilo, venduto ai clan dopo il trasporto in Italia, vale già 30 mila euro. «Almeno il 66 per cento del bilancio della ’ndrangheta è costituito dal business della cocaina, circa 44 miliardi di euro l’anno», conclude Gratteri.
All’inizio del 2013 il nome di Assisi ricompare sui radar degli inquirenti. È il 20 gennaio e a Torino c’è un freddo da tagliare il respiro, specialmente a un uomo ormai abituato al sole del Brasile. Sotto la Mole compare Patrick Assisi, è in missione per conto di suo padre.

Il rampollo entra in un ristorante del centro e prende posto ad un tavolo dove siedono intermediari della ’ndrangheta reggina che gli chiedono di importare per loro cocaina dal Brasile. I compratori saranno gli Alvaro e tramite loro gli Aquino-Coluccio di Gioiosa Ionica. Dal pranzo usciranno tutti soddisfatti, ma non sanno di essere intercettati. Per gli investigatori delle Fiamme gialle mentre Nicola Assisi è latitante, sono i figli a condurre gli “affari” in Italia.

Dopo l’incontro i finanzieri scoprono il lusso in cui vive la famiglia Assisi, ufficialmente senza reddito per il fisco, tra Bmw, voli intercontinentali e l’affitto estivo di una villa a Lisbona che gli costa diecimila euro al mese.

Gli inquirenti credono che gli Assisi siano in contatto con il gruppo criminale più pericoloso del Brasile, il Premier comando capital (Pcc), oltre che con i cartelli colombiani attivi in Perù con cui organizzano grosse spedizioni verso la Calabria.

Il Pcc condivide con i colombiani e i messicani il controllo del cosidetto “Cono Sur”, la parte più meridionale dell’America Latina anche detta “Narcosur” per la crescente importanza che riveste per il traffico di droga.
Il Paraguay in particolare sta diventando un Paese chiave per il transito dei carichi di droga destinati all’Europa. Qui piccoli gruppi criminali a conduzione familiare, ma affiliati al Pcc, organizzano le spedizioni. Assisi nell’estate del 2014 si trova proprio qui per nuovi accordi. «Sono in Paraguay, per i telefoni e per lavoro», dice a un suo collaboratore calabrese, e poi aggiunge: «Vedete che sto preparando altro...».

Nicola Assisi nel Narcosur fa affari lasciando pochissime tracce. Per tracciare le spedizioni i suoi fornitori brasiliani gli consegnano a mano un pezzo di legno dove è inciso il numero del container con la coca, numero che Assisi comunica poi con messaggistica criptata ai calabresi che devono recuperare il carico. Per rompere il cerchio del narcotraffico, buona parte del lavoro degli inquirenti è focalizzata sul riuscire a “craccare” il loro sistema di comunicazione. Il bisogno di passarsi informazioni a distanza resta il punto debole di ogni trafficante e con gli Assisi i risultati cominciano ad arrivare nella primavera 2014. La Guardia di finanza è infatti riuscita a intercettare e decriptare le chat Blackberry usate dal gruppo. È cosi che hanno scoperto come gli Assisi inviassero grandissimi quantitativi di cocaina ogni mese in Italia.

Da quel momento è scattata l’operazione Pinocchio. Di quasi mille chili di cocaina spediti da Assisi in soli quattro mesi, oltre quattrocento sono finiti nel capitolo delle prove a suo carico. Il 27 agosto 2014 Assisi finisce in manette di nuovo. Atterrava a Lisbona dal Brasile, con un passaporto argentino a nome Javier Varela, e la polizia portoghese lo blocca.

Mentre le autorità italiane si affrettano a ottenere l’approvazione per l’estradizione, il legale portoghese di Assisi racconta al giudice che non sussiste il pericolo di fuga perché «la sua intera vita sociale è a Lisbona», e il narcotrafficante viene liberato dal braccialetto elettronico che ne controllava i movimenti. Poco dopo, naturalmente, scompare nel nulla.
Colpito dalle ultime sventure, Patrick fornisce ai sodali telefoni Sony con chat Android ancora impossibili da intercettare. E così con Nicola di nuovo un fantasma, la famiglia può riprendere le attività.
Rosario Grasso, l’uomo della ’ndrangheta al porto di Gioia Tauro, è oggi in carcere in attesa di processo. “Il porco”, l’ufficiale corrotto, non ha ancora un nome per gli investigatori. E un volto certo non lo ha neppure Nicola Assisi, che non è nuovo a operazioni di plastica facciale. Quel che è certo è che il narcotrafficante e la sua famiglia restano forti in Sud America, lasciando poche flebili tracce.

La più recente è stata scovata in Brasile. Ad agosto di un anno fa Patrick ha registrato presso uno studio legale di Ferraz de Vasconcelos, una zona povera e degradata di San Paulo, una piccola azienda. Si chiama “Poli Pat 9” e come attività ufficiale commercia cartoleria e prodotti sanitari e informatici e infine offre trasporto su gomma. Quattro business completamente diversi in un’azienda sola. Abbiamo chiesto agli Assisi di spiegare lo scopo dell’azienda e di commentare sulla loro latitanza, ma hanno preferito non rispondere, lasciandoci con il dubbio che “Poli Pat 9” serva ad altro. Perche Ferraz de Vasconcelos è tristemente nota quale centro di riciclaggio di denaro sporco sia per i politici corrotti che per i narcotrafficanti del Pcc.

Hanno collaborato ?Frederik Richter e Giuseppe Legato. 
Questo articolo è parte di un progetto ?sul narcotraffico dei centri di giornalismo d’inchiesta IRPI e CORRECTIV sostenuto dal Flanders Connect Continents Grant.