Oggi i quotidiani la portano come piccolo esempio. Di cittadina rialzata dopo il sisma del 1979. Che sembra aver retto meglio le scosse del 24 agosto, registrate, anche qui, fino a magnitudo 5.4. Che strada seguì? Lo spiega l'allora assessore regionale Franco Giustinelli. Provando a tracciare un esempio

Dai "comparti" per i lavori alle stanze agli sfollati: come andò la ricostruzione di Norcia

Ogni terremoto ha la sua storia. Il suo dolore. E i suoi silenzi, necessari, di fronte alle vittime. Ma ogni terremoto ha anche i suoi insegnamenti, costruiti sulle macerie dal momento immediato del dopo. Una scossa di magnitudo 5.4 ha scosso ieri la città di Norcia, come aveva fatto il sisma che il 19 settembre 1979 squassò e distrusse la Valnerina.

Oggi tutti i quotidiani segnalavano un'anomalia: a Norcia, le case sono rimaste quasi tutte in piedi; a Norcia i danni sono stati limitati. Perché? Per una serie di azioni. Concrete. Intraprese a ridosso di quel sisma di 37 anni fa. Prima: la «tempestività nella ricognizione dei danni e nell'offerta di spazi dignitosi agli sfollati»; seconda: la logica dei comparti, o «unità minime di intervento» per la ricostruzione; terza: l'ascolto delle competenze e l'imporsi delle istituzioni anche «se costa».

Così spiega Franco Giustinelli, all'epoca del terremoto del 1979 assessore regionale delegato alla gestione del post-sisma in Umbria, quindi senatore dal 1983 per il partito comunista, oggi presidente di un istituto di storia locale che guarda «con amarezza e dolore», dice: «a quelle vite spezzate» ad Amatrice, Accumoli, Arquata del Tronto. L'amarezza, spiega, se ripensa alla «proposta che presentammo a metà degli anni '80, di un piano nazionale di prevenzione che in 30 anni avrebbe potuto rendere più solide le fondamenta di molti paesi, almeno di quelli sicuramente collocati nelle zone rosse del rischio sismico», piano che fu «accantonato per ovvie questioni di soldi, senza capire che oggi paghiamo di più per la perdita incommensurabile di vite e per quello che servirà a ricostruire dalle macerie».

Come andò, allora, la ricostruzione di Norcia? Giustinelli prende le carte, le conserva ancora tutte, archivio privato di un'istituzione che si era confrontata con l'emergenza. «Dal giorno dopo il sisma – non c'era ancora nemmeno la protezione civile all'epoca – impegnammo 300 tecnici per i rilievi», racconta, dopo aver controllato i numeri sui documenti: «In una settimana facemmo 12mila sopralluoghi. E consegnammo immediatamente i risultati delle ispezioni al Parlamento. Questo ci permise di chiedere stanziamenti precisi. Fondati sulla realtà».
Abitanti di Norcia che hanno passato la notte all'aperto il 24 agosto

Ottennero così due miliardi di lire dalla comunità europea, altri 18 dallo Stato, poi con una legge di aprile dell'anno successivo vennero assegnati all'Umbria duecento miliardi, 631mila euro di oggi. «Ci chiedemmo subito come spenderli. Se andare avanti come in passato, con un intervento alla volta, separatamente, prima a quel cornicione, poi a quel tetto, quindi a quel singolo appartamento distrutto. Oppure ribaltare il discorso». Seguirono la seconda strada: «Chiamammo professori dal Politecnico di Milano, dall'università di Perugia. Stendemmo una normativa tecnica, con regole precise, per la ricostruzione. Stabilendo che gli interventi sarebbero stati non singoli, ma a comparti». Perché non ha senso, spiega, riassestare una casa, se quella vicina le crolla addosso. Rafforzare un muro, se sul tetto cade la torre di fianco. Com'è successo anche ieri notte a Amatrice.

«Le chiamammo Unità minime di intervento», mostra, «settori precisi in cui le ricostruzioni andavano fatte in blocco. Con norme comuni. E materiali di qualità. Aprimmo anche un cantiere sperimentale per mostrare come bisognava fare». Non solo. Con esperti del Cnr e dell'Istituto nazionale di geologia, aggiornarono la mappa sismica dell'Umbria. «Revisione che ci portò a decidere di spostare del tutto tre interi abitati», ad esempio. Lo fecero. «Molti comuni si lamentarono, perché la nuova mappa imponeva maggiori costi di costruzione, dicevano: sarà un danno all'edilizia. Ma ci imponemmo». Anche perché allora, spiega, le istituzioni si mossero compatte, per superare la burocrazia: «Il coordinamento degli interventi, e gli appalti, all'inizio, erano tutti regionali. Le delibere avevano voti all'unanimità. Dopo alcuni anni gli ultimi cantieri vennero gestiti direttamente dai comuni».

L'altra preoccupazione immediata, ricorda, «fu dare il prima possibile una sistemazione agli sfollati, che non fossero le tende. Si avvicinava l'inverno. Portammo 1.547 prefabbricati per le abitazioni. Centotrentacinque per i servizi». Ci dovettero vivere per alcuni anni, in molti, ma «già l'anno successivo eravamo riusciti a liberarne alcune centinaia, che trasferimmo in Irpinia», dove all'Umbria, con lui come responsabile, fu chiesto di coordinare gli aiuti per tre paesi dove erano stati registrati 800 morti: Castelnuovo di Conza, Aviano, Santomenna.

Quindi prima i prefabbricati, poi la ricostruzione delle abitazioni, non singole, ma a “unità minime”, infine gli incentivi economici e la protezione delle attività commerciali e agricole. «Poche settimane dopo il terremoto mi chiamarono da Botteghe Oscure. Andai. Fui ricevuto da Enrico Berlinguer e da un altro dirigente del partito Comunista. Volevano essere informati su come andava la ricostruzione». Lontano dalle telecamere.

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