Francese di nascita, fondatore in Burkina Faso del “Le journal du jeudi”, Damien Glez ha ricevuto a Forte dei Marmi il premio per il disegno satirico internazionale. «Chi dice che la satira non ha limiti non è onesto. La vignetta di Charlie su Amatrice? Ha mancato l'obiettivo»

“Quando disegno una vignetta mi chiedo sempre se e per che cosa è utile, qual è il suo obiettivo. Nel caso della vignetta di Charlie Hebdo che raffigura una "lasagna" di macerie e vittime del terremoto, Riss, che l’ha ideata, ha detto aveva l’intento di sdrammatizzare. Ma se per le persone è stato uno choc e un'offesa, l'obiettivo non è stato centrato. Dunque penso che quella vignetta, per quanto lecita, non fosse opportuna”. E' l'opinione di Damien Glez, 49 anni, disegnatore francese ma burkinabe di adozione, che in Burkina Faso ha fondato 25 anni fa il giornale satirico “Le journal du jeudi”.

Glez, che è anche docente universitario e autore televisivo, è arrivato nella capitale Ouagadougou nel 1990 come cooperante in una scuola privata cattolica, dove dava lezioni di disegno e di tedesco. E l'anno seguente ha deciso di creare un giornale di satira nel clima di entusiasmo democratico che si respirava in Africa dopo il vertice di La Baule. In Burkina dice di sentirsi a casa, perché - come dice l'etimologia - è  il "Pays des hommes intègres".
A Forte dei Marmi ha ricevuto il premio Satira Politica per il disegno satirico internazionale.
 
Ma come nasce l'idea di fondare un giornale satirico in un paese difficile come il Burkina Faso?
"Per una fortunata concomitanza di eventi privati e situazione politica. A scuola ho sempre studiato disegno, sapevo che quello sarebbe stato il mio futuro e, quando con un'associazione di volontari nel 1990 sono arrivato in Burkina Faso, il destino voluto che nel '91 si instaurasse la Repubblica e quindi si respirava finalmente libertà d'espressione (nel “World Press Freedom Index“, stilata ogni anno da Reporter Senza Frontiere oggi l'Italia è n.77 e il Burkina 42, ndr). Era il momento più opportuno per un giornale satirico. Certo alcune difficoltà restavano. Ma è pur vero che per essere un vignettista devi avere una dose di incoscienza. È stata una sfida continua, ho dovuto in certi momenti andare avanti con coraggio. Ma devo ammettere che in 25 anni di storia del giornale le maggiori difficoltà non sono mai venute da istituzioni e governo del Burkina Faso, dove la stampa è libera, cosa che ne fa un po' un unicum nel continente africano”.

E’ stato oggetto di minacce e pressioni. Con quali paesi ha avuto maggiori problemi?
“Tra i più seri, con il Marocco. Una caricatura sul re Mohammed VI, pubblicata su Le Monde, poi su El Pais, ha creato un grande scandalo. Ed è comprensibile se si considera che lì esiste un articolo di legge che prevede il reato di lesa maestà. È la legge "di sacralizzazione" per cui il re ha personalità divina. Io non ho avuto ripercussioni gravi, ma un adolescente marocchino che aveva postato su Facebook la caricatura è stato condannato a 18 mesi di carcere.
Simili i problemi con la Tunisia di Ben Alì. Ho rappresentato il presidente come un rinoceronte per il Courrier international e dal suo gabinetto hanno scritto lettere di protesta a diversi ministri burkinabe. Contrariamente a quanto richiesto dalla Tunisia non ho avuto alcuna reprimenda nel mio paese mentre ho subito un atto intimidatorio alcuni mesi dopo all'aeroporto di Tunisi dove sono stato fermato e interrogato a lungo.
Ancora, con il Senegal, ho subito minacce a causa della confraternita islamica Mouride che ha lanciato una fatwa contro di me per una vignetta in cui un artista occidentale (già accusato di omosessualità per aver indossato una borsa), si chiedeva come mai la borsa è vietata, ma un vestito - cioè una gonna - per un imam no. La provocazione, pubblicata sul Jeune Afrique, mi è costata minacce di morte. Avevano anche minacciato di incendiare le edicole che avessero venduto il giornale. JA ha dovuto pubblicare delle scuse e quell'artista ha dovuto fare a brandelli in pubblico la sua borsa.

Come è possibile che un linguaggio, sia pure dissacrante e a volte cinico come quello delle vignette satiriche, possa essere così frainteso, spesso anche dalle persone che in teoria non dovrebbero sentirsene offese? La causa può essere un linguaggio elitario o comunque di nicchia che lo rende ostico al grande pubblico?
“Beh elitario non credo, di nicchia sicuramente. Non a caso tra noi colleghi si parla molto di educazione alla lettura delle vignette, ci preoccupiamo sempre di più di divulgare la cultura della satira perché ovviamente ci sono molti sottintesi. La satira vive di cose non dette, si alimenta di insinuazioni e soprattutto suppone molta complicità tra disegnatore e lettore. Il problema, da cui spesso lo scandalo, è che ciò che prima era un sistema chiuso, una sorta di scambio tra un giornale e il suo specifico pubblico, adesso viaggia veloce sul Web e quindi arriva spesso a destinatari anche fuori dal suo contesto”.

E’ allora necessario chiedersi se è giusto e come non offendere la sensibilità del pubblico di altri contesti?
“Quando disegno mi chiedo sempre se il mio destinatario è negli Stati Uniti o in un altro paese africano o in un paese europeo. Mi pongo sempre il problema del codice linguistico più adatto. Perché parliamo a culture diverse con sensibilità diverse. Tenendo presente che la satira deve sempre provocare una reazione, ma non necessariamente fare arrabbiare oltre certi limiti”.

C'è dunque un confine da non oltrepassare? Una sorta di autocensura?
“Non proprio autocensura. Però chi dice che la satira non ha limiti non è onesto. Certi limiti ci sono perché c'è una deontologia, non diversamente da quanto avviene per il giornalismo. Banalmente non si possono fare appelli alla violenza o inneggiare al razzismo. Dopodiché si può pensare che sia bene infrangere anche dei tabù. In Burkina Faso uno dei più grossi tabù è il sesso. E allora è molto stimolante dal punto di vista creativo utilizzare questo tabù per avvicinarsi sempre di più, anche senza superarlo, al confine dell'opportuno”.

Ma come si diffonde la cultura della satira?
“Io, ad esempio, faccio parte di un network di vignettisti, siamo 120 nel mondo, riuniti in Cartooning for Peace. L'associazione è nata per iniziativa di Kofi Annan e Plantu, con lo scopo di lavorare sulla percezione che il grande pubblico ha della satira. Questa esigenza è stata avvertita in maniera molto forte dopo il caso delle vignette su Maometto (la pubblicazione da parte del giornale Jyllands Posten di caricature del profeta provocò l'assalto di diverse ambasciate danesi nel mondo, ndr). E Kofi Annan volle un incontro presso la sede dell'Onu per iniziare un percorso per contrastare l'intolleranza. Gli aderenti a Cartooning for Peace intervengono a conferenze, tengono lezioni nelle scuole e nelle carceri e sono attivi in diversi contesti culturali”.

Ecco, parlando di limiti e di cultura del destinatario di una vignetta, lei è critico con quella di Charlie Hebdo che ha offeso molti italiani e in particolare gli abitanti della zona colpita di recente dal terremoto. Per lei c’è dunque sempre un’opportunità da valutare.
“Nell'ambito della satira ritengo che bisogna sempre porsi due domande. La prima: è lecito farla? La risposta è sì: Riss aveva il diritto di pubblicarla. Ma ciò che è lecito non è anche opportuno. In questo caso ritengo che non fosse opportuno e qui entra in ballo la seconda domanda. Mi devo sempre chiedere: questa vignetta è utile? Ris ha spiegato che con quella vignetta intendeva sdrammatizzare la situazione. Ma siccome i destinatari non hanno sentito questo senso di sdrammatizzazione bensì sono stati scioccati, vuol dire che l'obiettivo è stato mancato.? Ciò detto, ognuno può sbagliare un disegno. Ma nessuno può togliere la libertà di sbagliare. Senza la libertà non esisterebbero più satira e caricatura”.