Non solo grattacieli e lusso: nel momento più difficile dei rapporti tra Islam e Occidente, l’emirato sul Golfo si candida a luogo di incontro tra civiltà. Attraverso i parchi divertimento per famiglie, il commercio e l’Expo del 2020. Obiettivo: venti milioni di visitatori all’anno (Foto di Andrea Frazzetta per l’Espresso)

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Ora dell’aperitivo, a Dubai, è quella in cui il caldo soffocante dà finalmente un po’ di tregua. Così sull’Alserkal Avenue, negli ex magazzini commerciali riconvertiti in locali di design, è un tripudio di tapas, involtini creativi, sushi e piattini fusion. Certo: rispetto al rito nostrano, qui non c’è l’ingrediente alcolico. Ma la musica di sottofondo è la stessa e i ragazzi ai tavolini non hanno vestiti e volti diversi dai loro coetanei del Ticinese o del Pigneto.

È anche questo Dubai, nel 2016. Una città-Stato (federata agli Emirati Arabi ma con una robusta autonomia) a cui sta ormai stretta l’identità con cui da un decennio è conosciuta nel mondo: cioè quella di tempio del lusso e dei grattacieli. E quindi vuole essere anche altro: ad esempio, vetrina di melting pot etnico (gli autoctoni sono meno del 20 per cento, tutti gli altri residenti vengono da India, Pakistan, Bangladesh e Filippine) e come ponte tra Islam e Occidente, porta aperta tra l’uno e l’altro, in un momento di confronto non facile tra questi due mondi.

Certo, le contraddizioni non mancano: il Paese è una monarchia assoluta, le libertà politiche sono negate, gli immigrati trattati meglio che altrove ma pur sempre classi inferiori di cui l’élite emiratina si serve per tutto, dall’edilizia ai servizi. E ancora: la legge islamica è ancora applicata nel diritto di famiglia e non mancano tra i musulmani quelli di osservanza wahhabita, la più ortodossa. Ma l’idea dello sceicco Mohammed bin Rashid Al Maktoum (67 anni, un patrimonio personale che si aggira sui 16 miliardi di dollari) è quella di offrire al mondo l’immagine di un posto non solo pacifico, sicuro e con un alto controllo sociale, ma soprattutto aperto e tollerante, quindi in grado di attrarre turisti da tutto il pianeta - specie ora che il Mar Rosso egiziano è meta meno ambita per motivi di sicurezza - e così dare un senso all’infinita quantità di investimenti edilizi che continuano a trasformare questa lingua di deserto in una Disneyland globale. Obiettivo dichiarato: almeno venti milioni di visitatori nel 2020, anno in cui Dubai ospiterà l’Expo, anch’esso un omaggio alla comunicazione interculturale (il suo titolo è “collegare le menti, creare il futuro”).

Nemmeno il decollo turistico è impresa semplicissima, s’intende: le spiagge sul Golfo sono piacevoli ma i fondali non certo corallini, il caldo umido d’estate è proibitivo (perfino le fermate dell’autobus sono al chiuso e con aria condizionata, altrimenti si rischia di svenire) e nei dintorni non c’è alcun bene storico-artistico di rilievo. Tuttavia le attrazioni non mancano, anche oltre i luoghi più celebri come il grattacielo più alto del pianeta (la Burj Khalifa, 830 metri), l’arcipelago a forma di palma dove ha casa anche Ibrahimovic e quello poco distante che richiama le terre emerse del mondo (The World), fino alla pista di sci al chiuso costruita dentro un centro commerciale, due gradi fissi sotto lo zero mentre fuori si sfiorano i 50, famigliole con i cappellini di lana che risalgono la collinetta artificiale in seggiovia come se fossero sui monti del Tirolo.
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Arriveranno ad esempio, prima ancora di Expo, i nuovi parchi a tema di Dubailand, colossale progetto di entertainment che va dai dinosauri agli eroi Marvel; arriveranno nuovi centri commerciali - anche questi ispirati a una logica di enormità assoluta - a rafforzare il gioco di parole che vuole Dubai pronunciarsi come do buy, “devi comprare”; arriverà a breve il faraonico Teatro dell’Opera, mega architettura a ispirazione navale che già lascia senza fiato e punta a competere con i più celebri concorrenti europei; e sarà completata anche la Città della Salute, polo di attrazione per la ricerca e la tecnologia, ma anche per un fenomeno in crescita come il turismo medico.

Arriverà infine anche il nuovo sistema di mobilità urbana che alle attuali strade asfaltate a più corsie affiancherà un sistema di canali e vie d’acqua vagamente veneziano: un modo per ridurre il traffico automobilistico, certo, ma anche per rimarcare l’unica identità storica di questa terra, quella di porto e città commerciale in cui dai tempi del protettorato inglese transitavano le merci provenienti da Bassora o dalla Persia e destinate all’Europa.

Ed è a quest’anima mercantile che si richiama Dubai quando si propone come luogo di rinnovato dialogo tra Oriente e Occidente: siamo sempre stati quello, dicono in sostanza gli emiri, cioè il punto di passaggio per navi in transito fra tre diversi continenti, non è strano che la contaminazione faccia parte del nostro modo di approcciarci al mondo. E anche oggi la lingua di mare che penetra nel deserto della città, il creek, è un tripudio di piccole imbarcazioni che fanno la spola tra la penisola arabica e Bandar Abbas, porto commerciale di quell’Iran che pure si sta un po’ aprendo all’Occidente.

Ed è vero, in effetti, che l’Islam di Dubai non è integralista nelle regole come quello dei vicini sauditi: nella città-Stato sul Golfo le donne hanno diritti ignoti dall’altra parte del deserto, come quello di guidare l’automobile, di girare a volto scoperto, perfino di uscire la sera senza mariti o fratelli, solo tra amiche, per una tavolata tutte insieme in un ristorante.

Allo stesso modo, a Dubai hanno cittadinanza anche religioni diverse dall’Islam e forse non potrebbe essere diversamente dato l’altissimo numero di immigrati: così i filippini si ritrovano a migliaia per la messa alla St. Mary Church, dove i preti celebrano matrimoni collettivi e il cortile assolato è attraversato dall’ombra di un vicino minareto. E proprio nell’anno delle Torri gemelle, il 2001, è stata aperta anche un’altra chiesa cattolica, intitolata a Francesco d’Assisi. Lì accanto, ecco il gurudwara dei Sikh, intitolato al Guru Nanak e frequentato dagli immigrati del Punjab. Dieci minuti in macchina e si arriva al tempio induista dedicato a Shiva e Krishna, affollato ogni giorno di immigrati di Mumbay e dintorni - i più numerosi - ma pure di altre regioni indiane e del Nepal. Anche questo luogo di culto “infedele”, circondato da negozietti di oggetti votivi in cui si respirano tutti gli odori dell’India, convive pacificamente con la Grande moschea, proprio lì a fianco, costruita negli anni Sessanta, mentre Dubai iniziava a trasformarsi da villaggio di pescatori di perle in una vera città.

In un’altra moschea - quella di Jumeirah, sul lungomare - gli sceicchi hanno poi deciso di aprire le porte ai visitatori non musulmani nell’ambito di un progetto culturale chiamato “Open Doors, open mind”, con il quale il regime di Dubai vuole proporre l’Islam come «religione di pace, di tolleranza, di coabitazione»: a spiegare questi concetti ai turisti sono spesso donne europee convertite, che in un perfetto inglese espongono sorridenti i pilastri del Corano e, a sera, offrono cene tipiche della tradizione araba (“cultural meals”, le chiamano) mostrando piena disponibilità a rispondere a «qualsiasi tipo di domanda», comprese quelle sul terrorismo estremista.

Un tentativo, certo. In cui non sai mai se agli autentici propositi interculturali si mescoli una semplice operazione-simpatia di tipo commerciale, finalizzata ad attirare visitatori e a rendere quindi profittevoli quegli investimenti edilizi mostruosi che la crisi globale iniziata nel 2008 ha messo un po’ a rischio anche per i nababbi del Golfo.
Ma, al netto di tutto, Dubai oggi è davvero un melting pot di volti ed etnie: con una lingua franca (l’inglese: nessun immigrato ha bisogno di imparare l’arabo) e un paesaggio di geometrie in vetrocemento per forgiare il quale a ogni archistar è stata lasciata la massima libertà di osare. Ne risulta un incrocio di visioni sempre al confine tra il fantastico e il burino, tra lo spettacolare e il cafone, tra la contemporaneità e il non luogo. E anche questo in fondo è un pezzo di realtà globale, nel secondo decennio del terzo millennio.