Le confessioni di Carmelo Bene: «Si può essere confusi senza alcuna idea? Quella è l'infanzia»
In esclusiva alcune clip di "Tracce di Bene", presentato durante la kermesse romana. "Tutto è nato dal ritrovamento fortuito di una registrazione" spiega il regista Giuseppe Sansonna. "Una sorta di scatola nera in cui il grande attore racconta con una tenerezza inedita i ricordi della sua giovinezza"
Protagonista del teatro italiano e internazionale, interprete istrionico e barocco. Dalle leggendarie performance sui palcoscenici alle altrettanto memorabili ospitate nei salotti televisivi, Carmelo Bene ha saputo più di chiunque altro incarnare il binomio “genio e sregolatezza”. Ma c'erano momenti in cui il grande (e talvolta controverso) artista salentino - scomparso nel 2002 - abbandonava la sua maschera. Gli bastava calarsi nei ricordi del passato per riacquistare una voce fanciullesca, «un timbro argentino, da Pinocchio fragile, eccitato da lampi lucignoleschi», come spiega Giuseppe Sansonna, regista di “Tracce di Bene”, il film che sarà presentato domani alla Festa del cinema di Roma e andrà poi in onda il 2 novembre alle 21.15 su Sky Arte HD.
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Una pellicola che punta a riscoprire il lato meno conosciuto di Carmelo Bene attraverso la sua stessa voce. «Tutto è nato dal ritrovamento della registrazione di un dialogo di Bene con il suo intimo amico Giancarlo Dotto» racconta il regista all’Espresso. «Una sorta di scatola nera, dalla quale emerge la sua anima più intima e confidenziale, in una specie di sussurro medianico, vitale, autoironico e dolente. Un tono senz'altro inedito per un uomo abituato a palcoscenici e ribalte televisive, che si rivela insolitamente dolce, immerso in una specie di amarcord lisergico, e rivive episodi della sua vita e della sua formazione. Dalla scuola con i preti scolopi al rapporto con i genitori che volevano rinchiuderlo in manicomio perché era troppo stravagante. E poi l'incontro fondamentale con Albert Camus a Venezia. Lui, che all'epoca era uno sconosciuto, una specie di emarginato della Silvio D'amico, riesce a ottenere dal più grande scrittore vivente il permesso di mettere in scena il Caligola».
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Una registrazione riemersa dall'oblio che nella versione integrale dura diverse ore, dalle quali sono stati distillati i 56 minuti del film. «Sulla voce di Bene abbiamo innestato video inediti legati ai suoi trascorsi biografici – spiega Sansonna – girati dai videomaker Raffaele Schito e Salvatore Cagnazzi. Inoltre ho immaginato dei frammenti di cinema, che richiamano i ricordi da lui evocati, riutilizzando e assorbendo corpi, volti e voci di interpreti beniani. Ci sono Luigi Mezzanotte e Flavio Bucci, che con lui hanno lavorato moltissimo, e ci sono i membri della D'Origlia-Palmi, la compagnia di vecchi attori geniali ma scalcinati».
Una coppia teatrale ormai al tramonto, quella formata da Bruno Emanuel Palmi e Bianca D'Origlia, con cui Carmelo Bene entrò in contatto negli anni Sessanta e da cui rimase folgorato. «Interpreti ormai anziani, colti da amnesie, impegnati in spettacoli in cui la loro identità si dissolveva perché non si ricordavano quasi nulla. Continuavano a mettere in scena un repertorio ottocentesco minato dalle falle della memoria e dall'inconsistenza fisica. Una visione che produce effetti dissacranti e struggenti allo stesso tempo e che Bene racconta senza cinismo, con grande tenerezza».
Questo è, secondo Sansonna, il senso della sua poetica, quella «di personaggi donchisciotteschi, franati su se stessi. La presa di coscienza dell'impossibilità del gesto eroico è la vera lezione di Carmelo Bene. Un'idea che si nutre di una comicità vissuta con dolore, in un mondo in cui tutti si prendono troppo sul serio e allo stesso tempo tutto viene dissacrato con cinismo e a ogni costo. La sua dissacrazione, invece, è paradossalmente molto sacra».
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“Tracce di Bene” è un film importante per riscoprire un genio del teatro nella sua immagine più umana ma anche per mettere a fuoco ancora una volta il significato della sua eredità: «Non a caso – spiega ancora Sansonna – il tema dell'incomprensione è al centro del suo teatro e questa incomprensione riguarda prima di tutto il messaggio sacro e religioso. Una sensazione che per lui nasce nello stupore dell'infanzia. Come quando ascoltava le vecchiette salentine cha storpiavano la liturgia latina, trasformandola in un delirio pieno di turpiloquio involontario, quasi fosse pronunciato dai turchi invasori di Otranto. Su questi aneddoti è tornato sempre, raccontandoli a se stesso fino alla fine dei suoi giorni. E infatti la registrazione risale agli utlimi anni della sua vita». Ricordi di un'infanzia immersa in «un Salento bunueliano, quasi metafisico, escluso dalla storia e dalle sue illusioni di progresso» che è perfettamente coerente con un immaginario in cui, come sostiene il regista «nulla sembra avere un senso razionale, ma tutto è magia, incanto».