La geografia del mondo sta cambiando. E i confini saranno stabiliti dalla connettività, su macro aree urbane. Colloquio con Parag Khanna
Parag Khanna, 40 anni, indiano di nascita ma americano da molti anni, è oggi uno dei più ascoltati esperti al mondo in tema di geopolitica, geostrategie e tendenze globali. Khanna descrive da anni un mondo le cui mappe sono sempre meno disegnate dalla geografia classica e sempre più dalla connettività. Il suo ultimo saggio “La rinascita delle città-stato. Come governare il mondo al tempo della devolution” (appena pubblicato in Italia da Fazi) sostiene che sono le città (e non più gli Stati -nazione) la dimensione del progresso. Ma va anche molto oltre.
Khanna, nel suo ultimo libro si legge: «Le città-stato sono il punto di partenza per trovare soluzioni alle sfide del Ventunesimo secolo». Ma possono rappresentare un’alternativa alla crisi attuale dell’idea di Stato? «Non c’è dubbio che soluzioni a sfide più ampie, dagli alloggi pubblici alle disuguaglianze e al problema ecologico, si trovino nelle città. Per tutte queste questioni, sono le città il luogo delle risorse e degli esperimenti che forniscono soluzioni, siano le politiche pubbliche per gli alloggi di Singapore o gli sforzi di Madrid per ridurre la sua impronta di carbonio. Le lezioni impartite da queste città si trasferiscono ad altre nel mondo. Il cammino verso il progresso globale sta nella capacità delle città di condividere le proprie migliori pratiche tra loro».
È così che si realizza quello che lei definisce «info-Stato», il luogo in cui la tecnocrazia e la democrazia diretta convivono grazie ai dati? «L’idea di “info-stato” - in cui la democrazia e i dati sono entrambi cruciali nel migliorare la governance - viene implementata al meglio a livello delle città, perché è a questo livello che si possono avere feedback da comuni cittadini e residenti su ogni misura politica che li interessi, e inoltre usare i dati pubblici per identificare carenze nelle infrastrutture, nella cura agli anziani, nell’istruzione e altro, così da colmarle in fretta».
Sono le “città-stato” la chiave per affrontare le istanze di localismo e indipendentismo che attraversano l’Europa, dalla Scozia alla Catalogna? «Quasi tutti i movimenti che mirano alla devolution si basano sulla prosperità economica di una grande città, che sia Edimburgo in Scozia o Barcellona in Catalogna. Altrimenti non potrebbero sostenere l’indipendenza che cercano. Fintantoché ci sono libero movimento delle persone e investimenti attraverso quelle zone, il rapporto può venire gestito pacificamente».
In Italia si terrà presto un contestato referendum per soddisfare le spinte autonomiste in Lombardia e Veneto. Che ne pensa? «Aumentare l’autonomia amministrativa di città e regioni, così che possano aumentare le tasse e determinare da sé gli investimenti cruciali per avere successo commerciale, è critico nel mio modello. Ma il modo migliore per riuscirci è adottare lo schema suggerito dal vostro precedente primo ministro Renzi, e cioè avere un nuovo assetto nazionale sulla base di una dozzina di regioni metropolitane. Se l’Italia lo facesse, allora potrebbe ridurre le tensioni secessioniste in luoghi come il Veneto, e quel tipo di autonomismo diverrebbe un problema minore. Fondamentalmente è una questione di equilibrio fiscale e di trasferimento di poteri, e nel lungo termine apporterebbe benefici al paese intero».
Lei argomenta che nel nostro mondo multipolare è la “connettività”, non più la geografia, a essere un “destino”. E tuttavia, la geografia sembra importare eccome nell’era della crisi dei migranti. Come si conciliano il moltiplicarsi di posizioni nazionaliste, razziste e anti-immigrazione, in Europa e negli Usa, e la sua idea che gli Stati e i confini nazionali contino sempre meno? «In realtà il mio argomento è che ci siano più confini di sempre; ed è fattualmente vero, dato che ci sono più Stati di sempre. Ogni paese ha la responsabilità di gestire flussi e attriti derivanti da quei confini, che si tratti di persone, capitale, beni, tecnologia o altro. Il fatto che siano diventati così permeabili è ovviamente parte della ragione del contraccolpo in corso. La connettività è stata talmente potente nel consentire flussi di persone in ingresso in Europa e negli Usa da ingenerare una resistenza. Gli europei hanno davvero bisogno di migranti, ma ora devono essere più precisi nel dire quanti, di quali paesi, con quali competenze, e per quanto tempo. Piuttosto di un generico dibattito sui migranti, sono queste le domande a cui andrebbe data risposta con una strategia concreta».
La parola “connettività” è la chiave di volta del suo intero pensiero. Cruciale nel comprendere il futuro della geopolitica, di che significa essere “umani” - più saremo connessi, più vivremo in una “Era Ibrida”, di uomo e tecnologia - e delle forme di governo. Addirittura lei sostiene che la governance globale dovrebbe avere “una struttura fondamentale simile a quella di Internet”. In Italia un movimento politico, il Cinque Stelle, ha provato a fare altrettanto, con un’utopia di reti locali connesse, democrazia digitale, intelligenza collettiva, meccanismi di influenza e disintermediazione simili a quelli che lei definisce «megadiplomazia». E con un’ottica orientata all’efficienza che sembra in perfetto accordo con quanto immagina nei suoi testi. Eppure oggi quel movimento ha sviluppato gerarchie interne, opacità di gestione, deficit democratici, e non sembra essere radicalmente diverso o migliore rispetto a ciò che l’ha preceduto. Non è che stiamo facendo un fantoccio della “connettività”, trasformandola indebitamente in una panacea di ogni male? «È un’ottima domanda. È normale che perfino un movimento che comincia come una rete, come il M5S o En Marche di Macron in Francia, assuma un certo livello di struttura verticistica dei partiti, una volta giunto nelle istituzioni o al governo. È naturale ed essenziale se vuole avere la capacità non solo di vincere le elezioni, ma anche di governare. Ed è questa la differenza tra democrazia e governance, tra rappresentazione e amministrazione. Non è abbastanza rappresentare interessi ed essere democraticamente eletti. In ultima analisi, i cittadini e gli elettori vogliono giustamente risultati, gesti e progressi misurabili nel tempo. Il che richiede costruire o aggiustare istituzioni che li ottengano».