Matteo Salvini invita a stare coi figli. Antonio Tajani si è dichiarato esplicitamente per l’astensione. Giorgia Meloni ha evitato con accuratezza persino di pronunciare la parola referendum: secondo gli archivi l’ha fatto tre volte in un anno, l’ultima cinque mesi fa. E anche il 2 giugno, quando finalmente la presidente del Consiglio si è decisa ad articolare il suo arzigogolo di sapore morettiano - vuole andare al seggio ma senza ritirare le schede (cioè la si nota di più se viene e si mette di profilo, ma comunque non voterà) - quella parola non l'ha mica detta. Tutto, pur di non diffondere la notizia che l'8 e 9 giugno si vota. E basterebbe forse solo questo, per regolarsi di conseguenza.
Nell’Italia che cammina spencolata sull’abisso della democrazia a bassa intensità, come l’ha chiamata il capo dello Stato Sergio Mattarella, la presidente del Consiglio e i suoi due vice, tutti i leader di governo, affrontano così l’appuntamento per i cinque referendum sul lavoro e la cittadinanza: come si trattasse di bambini col mostro sotto il letto.
Peccato che il mostro sia un diritto costituzionale, uno strumento che ha segnato nel tempo tappe fondamentali della vita del nostro Paese: il divorzio, l’aborto, il nucleare, l’acqua pubblica, ma anche la fine di certe epoche, come fu nel giugno 1991 con la preferenza unica, che segnò l’inizio della fine della prima Repubblica. Fu proprio quella la famosa volta in cui il segretario del Psi Bettino Craxi consigliò agli italiani di andare al mare. Inascoltato: votò il 62 per cento dei cittadini, per il sì il 95.
«Farò propaganda affinché la gente se ne stia a casa», annuncia adesso il presidente del Senato Ignazio La Russa, segnando un nuovo record nella sua interpretazione di seconda carica dello Stato (e non era facile, dopo l’indimenticabile «a via Rasella fu colpita una banda musicale di semi pensionati»). Del resto anche in Giorgia Meloni sembra sgonfiato ogni preteso afflato istituzionale, pur in precedenza sfoderato. Adesso che è presidente del Consiglio, la preoccupazione per il disinteresse dei cittadini non la sfiora più: «L’astensionismo è la crisi della democrazia, non della politica», avvertiva invece preoccupata, quando era solo una leader di partito e magari - come le ha ricordato il deputato di +Europa Riccardo Magi attraversando l’Aula della Camera travestito da fantasma – protestava perché il governo faceva quel che fa adesso lei: nascondere che c’è una consultazione referendaria.
Prima che l’Agcom denunciasse il silenzio comunicativo delle tv – né la Rai né Mediaset e nemmeno La7 ha dedicato l’1 per cento del tempo a parlare di referendum – il 25 aprile, nel discorso sugli ottant’anni dalla Liberazione, il presidente della Repubblica è rimasto solo a ricordare che «la partecipazione politica è l’esercizio democratico che sostanzia la nostra libertà», e che dunque «non possiamo arrenderci all’assenteismo dei cittadini dalla cosa pubblica, all’astensionismo degli elettori, a una democrazia a bassa intensità».
Parole che il capo dello Stato ha pronunciato proprio a Genova, la città che nel 1945 si liberò da sola dall’occupazione tedesca, dove lunedì scorso la sinistra ha vinto di nuovo, unita, con Silvia Salis, dopo otto anni di destra, e dove la partecipazione è aumentata di sette punti, dal 44 al 51 per cento, rispetto a tre anni fa. In un turno elettorale che, per quanto riguardasse soltanto 117 comuni di cui 4 capoluoghi (Matera, Ravenna, Taranto, oltre a Genova), ha segnato un’inversione di tendenza che non può essere ignorata: la percentuale di chi è andato a votare è rimasta stabile e sopra il 50 per cento (56,3). Un segno che va in direzione diversa rispetto a tutte le recenti elezioni, ultime le europee di un anno fa, dove per la prima volta la partecipazione è scesa sotto il 50 per cento degli aventi diritto (48,1).
Numeri che offrono un motivo di speranza in più al fronte referendario, civico, sindacale e politico per il quale questi cinque referendum segneranno un passaggio importante nella costruzione di un’alternativa e come prodromo di una possibile spallata al governo. Comunque vada a finire, molto cambierà. Per Maurizio Landini che a questa battaglia aggancia di fatto un suo futuro in politica dopo la fine del secondo mandato di segretario della Cgil (scade nel 2027), per il Pd di Elly Schlein che rifà i conti col renzismo (forse per l’ultima volta), per il posizionamento del leader M5S Giuseppe Conte che guida un partito cresciuto proprio all’ombra di quel vuoto a sinistra ma anche con una politica migratoria decisamente non di sinistra (non a caso il leader pentastellato ha detto barcamenandosi che voterà sì al quesito sulla cittadinanza, ma a titolo personale). I destini individuali, ma soprattutto quelli della coalizione.

Perché è chiaro che il grado di partecipazione, il numero di persone che non si farà scoraggiare dal silenzio e andrà a votare, suonerà (o meno) come una smentita verso un governo che, nel suo grigio procedere senza parole d’ordine (sbiadite anche le riforme), è invece legittimato dal vuoto, dall’assenza di partecipazione. E perché, al di là delle tecnicalità dei vari quesiti, l’esito del voto darà una direzione, un’indicazione sul futuro delle politiche sul lavoro e sull’immigrazione: come si trattasse, per certi versi, di un reset.
I dibattiti, anche tipicamente cavillosi (tipo: vado a votare ma ritiro solo una o due schede), che in queste settimane si sono aperte nel privato dei pranzi di famiglia delle case democratiche e della sinistra larga indicano del resto quanto i quesiti tocchino la turbolenta storia recente del centrosinistra e le sensibilità dei tanti orfani politici (orfani di Renzi, orfani di Bersani, orfani di Vendola, orfani di D’Alema, ma l’elenco potrebbe continuare).
A partire naturalmente, dall’abolizione del jobs act (col ritorno alla possibilità del reintegro per i licenziamenti illegittimi, l’abolizione del tetto massimo di ristoro nel caso delle piccole imprese, con l’abolizione dei contratti a termine a-causali), cioè il pacchetto di provvedimenti feticcio di Matteo Renzi che provocarono l’uscita dal Pd di Elly Schlein con l’allora minoranza civatiana e, soprattutto, quella che l’attuale segretaria del Pd definisce una delle tante «fratture» col popolo della sinistra, che da quando è stata eletta lavora a ricucire: quella che adesso ha il volto della battaglia, unitaria, per il salario minimo.
Un’altra grande frattura è proprio quella della cittadinanza: il dimezzamento dei tempi da dieci a cinque anni di residenza per ottenerla è tecnicamente un ritorno alla normativa ante 1992, psicologicamente invece è un azzeramento della frattura che si produsse nel 2017, quando l’allora ministro dell’Interno Marco Minniti firmò il Memorandum con la Libia e il governo guidato da Paolo Gentiloni rinunciò anche solo a tentare la battaglia per fare una legge sullo ius soli, pur avendo tecnicamente i numeri in Parlamento.

Non è un caso che, ora, lo stesso Matteo Renzi sia felicemente saltato sopra la battaglia referendaria, sia pur tifando per il no: per il leader di Italia viva la lusinga è evidente (si parla comunque delle «riforme che ho fatto io») e l’occasione è eccellente per tirare una riga e agevolare anche da questo punto di vista il proprio ritorno stabile nel campo del centrosinistra, dopo il fallito vagheggiamento di conquistare la Forza Italia post-berlusconiana. Vale anche per i Cinque stelle: politicamente, stare dentro questo fronte referendario, sia pure con tutti gli evidenti disagi e distinguo, significa per Conte consolidare una volta di più il campo da gioco che si è scelto. In questi giorni si rincorrono le varie asticelle: c’è chi indica il quasi quorum (il modello è il referendum del 1999 per abrogare la quota proporzionale del Mattarellum), chi i 12 milioni coi quali il centrodestra ha vinto nel 2022. I numeri della partecipazione diranno, al di là dei tornaconti personali, quanto l’insieme sia credibile e, anche, quanto la direzione sia o no quella giusta.