Indoeuropei e di provenienza incerta, abitano in Birmania e sono tra le etnie meno tollerate al mondo. Ora anche dalla vincitrice del premio per la Pace (Foto di Pietro Masturzo)

Fango, pioggia e ancora fango. Scampare alla morte per fuoco rischiando, nel tentativo di fuggire, la morte per acqua persi dentro a quel mondo liquido che sta tra Bangladesh e Myanmar. Donne e bambini e vecchi, a nuoto o strizzati dentro a gusci di noce lanciati dentro a quel mondo a specchio, acqua e cielo, per cercare la vita, una vita qualunque, dentro alla desolazione affollata dei campi profughi di Kutupalong e Balukhali.

Sono un popolo che attira le iperboli, i Rohingya. «La minoranza più perseguitata del mondo», «Il popolo meno voluto della terra»: protagonisti, secondo Zeid Ra’ad Al Hussein, a capo della sezione diritti umani delle Nazioni Unite, di un caso di «pulizia etnica da manuale».

La “questione Rohingya” è annosa, e si perde nelle nebbie polverose della storia. Comincia forse, a voler proprio cercare un principio, quando lo Stato di Rakhine, dove i Rohingya vivono da secoli, è stato conquistato e annesso al Myanmar, da cui è praticamente separato da una catena montuosa, nel 1784. Diventato poi parte dell’impero britannico, è rimasto parte dell’allora Birmania dopo l’indipendenza.
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Le origini dei Rohingya sono piuttosto incerte: una teoria li vuole originari dello Stato di Rakhine mentre un’altra teoria, la più accreditata dagli studiosi birmani e non senza ragione, li vuole discendenti di un gruppo di mercanti musulmani originari dell’allora Bengala emigrati in loco durante il periodo coloniale. La loro lingua sarebbe strettamente imparentata a quella che ancora si parla a Chittagong, oggi Bangladesh, e, più alla lontana, alla lingua bengali.

Sulla fragile base di questa presunta estraneità della popolazione Rohingya al territorio birmano poggia la politica del governo di Naypyidaw: pur essendo di fatto cittadini del Myanmar, i Rohingya sono stati privati della nazionalità birmana, non riconosciuti come uno dei 135 gruppi etnici che vivono all’interno del paese e fatti oggetto di una campagna persecutoria in grande stile: moschee distrutte, terre confiscate, stupri etnici e omicidi hanno costretto alla fine degli anni Settanta più di duecentomila persone ad abbandonare il paese e a rifugiarsi all’estero.

Quelli che sono rimasti sono stati dichiarati “stranieri residenti” senza diritto a possedere terra e senza diritti civili o legali. Secondo una legge del 1982, ai Rohingya non è consentito viaggiare senza ottenere un permesso speciale, non gli è concesso possedere terreni o proprietà immobiliari, sono soggetti a limitazioni del regime legale in materia di matrimoni e sono costretti a firmare, quando si sposano, un impegno a non mettere al mondo più di due figli. Non solo: sono soggetti a vere e proprie estorsioni e a lavorare in regime di semi-schiavitù alle dipendenze dell’esercito e del governo.

Al principio degli anni Novanta, in seguito all’ennesima campagna di stupri, omicidi e persecuzioni, altri duecentocinquantamila Rohingya abbandonavano la Birmania per rifugiarsi principalmente in Bangladesh inseguendo l’illusione di poter essere meglio accolti in uno Stato di popolazione a maggioranza musulmana sunnita.

Non è stato così, perché subiscono anche in Bangladesh discriminazioni, soprusi, violenze e ripetute violazioni dei diritti umani più di una volta denunciati dalle Nazioni Unite e caduti fino a oggi in un assordante silenzio. Nell’ultimo anno, però, le operazioni di pulizia etnica del governo birmano si sono ripetute con allarmante frequenza. Secondo le agenzie umanitarie, tra il 9 ottobre e il 2 dicembre 2016 sono arrivati a Cox Bazaar, in Bangladesh, ventunomila Rohingya in seguito all’ennesima ondata di violenze. Ripetutasi in grande stile nell’agosto del 2017 come ritorsione per un attentato a un check point da parte di un gruppo di militanti Rohingya.

Secondo le Nazioni Unite, il Myanmar ha praticamente raso al suolo 285 villaggi e ucciso un numero ancora imprecisato di persone. In seguito agli attacchi, dal 25 agosto in poi sono arrivati in Bangladesh circa cinquecentomila Rohingya, metà della popolazione totale stimata. Stimata perché nessuno sa quanti sono davvero, visto che sono stati lasciati fuori dall’ultimo censimento fatto da Naypyidaw nel 2014. L’ultima ondata di profughi, di dimensioni epiche, maggiori di qualunque ondata di profughi siriani, tanto per fare un paragone, si aggiunge ai più o meno 230.000 Rohingya (dati ufficiali, ma si parla di cinquecentomila) che vivono già in Bangladesh: più o meno, perché di questi soltanto 32.000 sono registrati.

Gli altri ci sono, ma non esistono sulla carta. Un popolo di fantasmi. Per la prima volta però, e dopo molto tempo, la comunità internazionale si è mossa in grande stile chiedendo perfino il ritiro del Nobel per la Pace ad Aung San Suu Kyi che da quando è stata liberata ed è in seguito andata al potere non ha mai speso una parola in favore dei Rohingya. Anzi. D’altra parte il Myanmar, prima e dopo la giunta, ha una lunga tradizione di repressione delle minoranze e di qualunque istanza indipendentista di qualunque altro gruppo. Il caso dei Rohingya è il peggiore di tutti e, soprattutto, il più emblematico.

Alle pressioni internazionali Naypyidaw ha reagito in modo quanto meno scomposto: dichiarando prima che la cosiddetta “emergenza umanitaria” è un falso inventato dai giornalisti, accusando poi i Rohingya di aver bruciato loro stessi i villaggi in cui vivevano, e infine dichiarandosi disposta a riprendere i profughi, ma soltanto quelli in possesso di documenti. Il governo del Bangladesh fino a questo momento ha adottato in sostanza la politica dello struzzo, accogliendo in teoria i rifugiati per poi abbandonarli nei campi profughi in attesa che il Myanmar riprenda i suoi cittadini.

Dacca ha chiesto aiuto alla comunità internazionale, ma ha dichiarato che non concederà lo status di rifugiato ai nuovi profughi, che sembrano destinati a dover rimanere per sempre in quel limbo tra terra e mare fatto di capanne di fango e teli di plastica dove manca l’acqua potabile, dove mancano i servizi sanitari, dove rischiano di svilupparsi focolai epidemici. E dove si sono già sviluppati focolai di altro genere. Perché l’ultima mutazione dei Rohingya, l’ultima accusa trasformatisi in scusa per la persecuzione in atto, è la militanza di alcuni di loro nelle file jihadiste.

L’Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa), il gruppo che ha attaccato il check-point in agosto, è stato formato nel 2012 e le operazioni dell’ultimo anno rappresentano, secondo l’International Crisis Group, un preoccupante punto di svolta nel conflitto. Nel corso degli anni è accaduto difatti quello che non era difficile prevedere: i campi profughi, abbandonati e dimenticati, sono diventati bacini privilegiati di reclutamento per vari gruppi jihadisti trasformando una catastrofe umanitaria in una emergenza terrorismo.

Curiosamente, proprio dal 2012 in poi ha cominciato a operare nei campi profughi del Bangladesh la Fala-I-Insaniyat, una branca della Jamaat-u-Dawa, il “braccio umanitario” della Lashkar-i-Toiba (LiT), l’organizzazione terroristica pakistana accusata, tra le altre cose, dell’attacco di Mumbai del 2008. Secondo rapporti dell’intelligence indiana e di quella birmana, i Rohingya sono felicemente entrati a far parte del progetto di jihad globale della LiT.

Ci sono Rohingya che combattono ormai in Kashmir a fianco della Jaish-i-Mohammed e della Lashkar-i-Toiba, e ci sono cellule composte ormai esclusivamente di militanti Rohingya. I legami con i gruppi terroristici di matrice pakistana sono ormai ben consolidati, tanto che a capo di uno dei gruppi si trova un maulana pakistano di origine Rohingya, Abdul Hamid, strettamente connesso alla Lashkar-i-Toiba.

L’Arsa e altri gruppi simili sono guidati da Ata Ullah e altri venti compatrioti Rohingya emigrati o nati in Pakistan e con quartier generale alla Mecca, in Arabia Saudita. Il Pakistan e l’Arabia Saudita si occupano della questione soltanto sottobanco, mantenendo un clamoroso silenzio a livello ufficiale sul genocidio dei fratelli musulmani ma finanziando i jihadisti più o meno sottobanco. E, facendo leva sull’emergenza terrorismo, il premier indiano Narendra Modi ha dichiarato di voler espellere tutti i rifugiati Rohingya, e sono più di ventimila, che si trovano in territorio indiano. Occuparsi della catastrofe umanitaria e del genocidio in corso dovrebbe essere, per l’Occidente, una priorità assoluta. Per ragioni umanitarie anzitutto, perché non si creino come spesso accade, vittime di serie A e di serie B. Ma anche per ragioni prettamente egoistiche: mentre tutti si affannano a concentrarsi su una particolare zona del mondo, fuori dal cono di luce si prepara la guerra di domani.