Che bello, che gioia, che festa : benvenuti a Casa Mika, il programma dei record (Rai Due in prima serata) che dopo i successi internazionali è tornato per quattro puntate della sua seconda stagione di lustrini ?ed entusiasmo. Il principe dello show ?è una delizia multifunzione, canta, balla, chiacchiera, fa le faccette, sorride, si spoglia, si ricopre di stelle e sparpaglia petali di buonumore in ogni angolo e in tutte le lingue a disposizione. Il varietà ?ha un sapore d’oltreoceano, un budget ?di tutto rispetto e il tocco intelligente degli autori (Ivan Cotroneo in testa).
Ci sono ?i salti temporali, gli ospiti illustri, le citazioni. Scelte coraggiose, come quella di proporre una rilettura operistica alla portata di Twitter. E il padrone di casa ?è dolce, sensuale, colto e sensibile come sempre. Al punto che verrebbe voglia di tenerlo sul comodino con quel sorriso contagioso e quell’aria da Mini Pony ?in vacanza perenne. Tutto giusto. Ed estremamente ben fatto.
Eppure, questa glassa spessa di colore rosa alla lunga, come si dice in cucina, stucca. Il pubblico che batte le mani a tempo e lancia gridolini entusiasti, il valzer ballato come segno di pace, catapultano lo spettatore in un universo parallelo di nuvole lilla ?in cui si fatica a cogliere l’ironia.
Un po’ come aggiungere quel tocco di melassa a una torta già sin troppo lievitata. Il rischio è che si sgonfi e crolli inerme sul vassoio. Persino i temi sociali che serpeggiano in ogni puntata, diritti civili, gender pay gap, bullismo, violenza sulle donne e battaglie arcobaleno perdono peso dal momento in cui vengono immerse come bustine da the nel mare magnum della bontà universale. Dove i mostri sono sensibili e le favole a lieto fine.
Il guizzo che ti riporta coi piedi per terra è quello del finto taxi che attraversa il Paese reale coi perfetti sconosciuti protagonisti davanti alla telecamera nascosta. Ma dura un attimo. Polverizzato dall’arrivo ?dei due cani di Mika che, doppiati, si scambiano battute degne della cattiveria di Flora Dora. Insomma, è difficile riuscire a resistere per quasi tre ore a tale armonia. Mentre il turpiloquio ?si trasforma in carezze e il falsetto ?impera quel che rimane è la fastidiosa sensazione di un’occasione mancata. Perché sarebbe bastato giusto ?un tocco di imperfezione per regalare ?lo spettacolo perfetto.
Ho visto cose belle
Un uomo misterioso, una tavola calda e una domanda: «Fino a che punto sei disposto a spingerti per esaudire i tuoi desideri?». The Booth at the End (Netflix) è la serie a cui si è “liberamente” ispirato Paolo Genovese per il suo The Place. Diabolica e irresistibile dimostra quanto si possa fare bene con soli dieci personaggi.
Ho visto cose brutte
Chiedimi tutto ma non la mia età si diceva in tempi galanti. Poi è arrivato Guess My Age, ?il giocarello di Enrico Papi (Tv8). ?In cui due concorrenti di fronte ?a una distinta signora si fomentano a vicenda: «Guarda bene le rughe, deve essere vecchia, non vedi il collo come è ridotto?». E l’eleganza svapora per un mucchietto di gettoni d’oro.