Una voce da Ankara, dal cuore della Turchia, quella di Mariano Giustino che ci aggiorna costantemente dalle frequenze di Radio Radicale, con la sua “Rassegna stampa turca”, su ciò che accade in uno Stato antidemocratico ai confini con l’Europa. E ascoltando Radio Radicale apprendo che Osman Kavala è stato arrestato con l’accusa di sovversione costituzionale. I media vicini a Erdogan, e al suo partito l’Akp, lo chiamano “K?z?l Soros”, il “Soros Rosso” e con l’arresto di Kavala credono di aver intimorito chiunque si esponga per far rispettare i diritti umani in Turchia. E in effetti, questo arresto, ha acuito lo sconforto che vive chiunque in Turchia promuova la democrazia e il dialogo, quindi è nostro dovere non solo parlarne, scriverne e raccontare questo dramma, ma anche seguire le sorti di un uomo che, dopo aver ereditato dalla famiglia un impero economico tra i più importanti della Turchia, ha deciso di investire risorse per creare consapevolezza. Kavala è il co-fondatore di Iletisim Yayinlari, una delle più grandi case editrici turche, ed è presidente dell’istituto Anadolu Kültür, da lui fondato e divenuto un punto di riferimento prezioso per comprendere la società civile turca, le minoranze e la loro condizione. Al momento Kavala è accusato di tutto, di essere il burattinaio della rivolta di Gezi Park e di aver avuto un ruolo di primo piano nel fallito golpe del 15 luglio 2016.
In Italia, ormai da tempo, vige la strana convinzione che tutto ciò che non ci riguardi, sia inutile orpello a ogni dibattito; che gli italiani vadano tutelati, raccontati, blanditi, prima degli altri e tutto questo assume accenti sempre più populisti e quindi sostanzialmente vuoti: vuoti eppure pericolosi. Ma se davvero è così, se conoscere ciò che accade in Turchia interessa poco, perché ostinarsi a raccontare di terre lontane dove ci si limita a non andare più, nemmeno in vacanza, per timore di attentati? E perché seguire le sorti di un uomo ricco, che già per questa sola ragione, secondo alcuni, potremmo benissimo ignorare? Ecco perché: l’arresto di Osman Kavala non è solo ingiusto, ma è anche una pericolosissima messa in scena, pericolosa anche per noi che osserviamo da lontano e crediamo che questa violazione non abbia alcun effetto sulle nostre vite. Pericoloso perché risponde alla ricerca continua di un capro espiatorio che assuma su di sé responsabilità che invece appartengono, in questo caso, alla politica e al governo turco. E che questo arresto sia una grottesca messa in scena lo dicono accademici, scrittori, economisti, politologi e politici che il 7 novembre hanno pubblicato sul Financial Times un appello alle autorità turche perché liberino Kavala. Carl Bildt, Timothy Garton Ash, Ivan Krastev, Kalypso Nicolaïdis, Claus Offe, Chris Patten, Javier Solana e Nathalie Tocci hanno scritto «per richiamare l’attenzione sulla detenzione totalmente ingiustificata di Osman Kavala, uno dei più illustri cittadini turchi e un europeista impegnato. Kavala è stato accusato di aver tentato, praticamente da solo, di sovvertire l’ordine costituzionale turco». Un’accusa assurda, ma è anche un’accusa a cui Erdogan ci ha abituati. Qualcuno definisce la Turchia una sorta di prigione per giornalisti, scrittori e attivisti. Ne abbiamo prove e testimonianze, e abbiamo toccato con mano cosa accade alla stampa indesiderata quando il nostro connazionale Gabriele Del Grande è stato detenuto praticamente senza motivo, per due settimane. Ai giornalisti basta poco per essere arrestati, magari un tweet. E alla gente comune basta protestare per aver perso il lavoro, per essere stati licenziati magari senza motivo o per questioni politiche.
Sulle colonne del Financial Times Kavala è descritto come un uomo «che per decenni ha utilizzato le arti, la cultura e il dialogo per facilitare scambi in tutta la Turchia, con i paesi limitrofi e con tutta l’Europa». Eppure dopo 14 giorni di custodia cautelare, un tribunale di Istanbul, il primo novembre, ha deciso di incriminarlo accusandolo di aver attentato all’ordine costituzionale e aver avuto rapporti con organizzazioni terroristiche. «Queste accuse» si legge nell’appello pubblicato sul Financial Times «sono oltre il ridicolo». Queste accuse, potremmo aggiungere noi, sono le solite con cui Erdogan pensa di poter eliminare chi si pone tra il suo governo autoritario e il popolo turco.