Tra il dittatore nordcoreano e il presidente Usa si sta giocando una lunga e delicata battaglia diplomatica. E torna al centro dello scenario la teoria del "madman"

Donald Trump
«Perché Kim Jong-un continua ?a insultarmi chiamandomi “vecchio”, quando io non l’ho mai chiamato “basso e grasso”? Sto cercando in ogni modo di esser suo amico, magari un giorno o l’altro accadrà!». Il tweet che Donald Trump ha postato l’11 novembre, dopo il tentativo ?(fallito per il maltempo) di sorvolare con l’elicottero la linea “smilitarizzata” che divide il Nord dal Sud (e l’ultimo comunismo reale dalla democrazia), spiega meglio di tanti discorsi e raffinate analisi il perché dell’attuale stallo tra gli Stati Uniti di The Donald ?e il regime di Kim sulla questione nucleare.

Quello di oggi, al ritorno del viaggio in Asia del presidente Usa, è uno strano status quo, dove scambi ?di invettive e reciproche minacce non corrispondono (quasi) mai ?alla realtà. È in corso - e continuerà a lungo - una sfida diplomatico-militare, dove un contendente (Kim) ha molto più tempo ?dell’altro (Trump), dove il giocatore nettamente più forte (gli Usa) rischia di non vincere mai. ?«Anche limitate azioni militari potrebbero far precipitare ?la situazione, ma non saremo ?mai in grado di distruggere completamente la capacità nucleare di Pyongyang», ha scritto al Congresso Jan-Marc Jouas, il generale dell’aviazione che è stato il vice-comandante delle forze armate Usa in Corea del Sud fino all’inizio di quest’anno. ?E altri militari dicono ormai apertamente che la sfida tra The Donald e “Ciccio Kim” di fatto ?la sta vincendo quest’ultimo.

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24/11/2017
Quando da una parte abbiamo ?un presidente degli Stati Uniti ?- vale a dire il Commander in Chief ?della più grande superpotenza della storia - che almeno a parole (con i suoi tweet incendiari) promette fuoco, fiamme e “distruzione totale” e dall’altra ?un feroce (ancorché giovane) satrapo-dittatore che scherza ?con missili e testate nucleari ?quasi fossero un videogioco ?e lancia minacce («raderemo ?al suolo l’America») che non sarà mai in grado di mettere in atto, anche gli scenari più catastrofici vanno però tenuti in conto.

Quella di Kim è una lunga partita ?a scacchi, gestita con bullismo provocatorio, ma facendo molta attenzione a ogni mossa in attacco e difesa. Non è un mistero che ?al Pentagono studino da sempre con molta attenzione le opere ?dei “teorici dei giochi”. ?Nel caso dello scontro Usa-Corea del Nord è stata letta con molta attenzione la cosiddetta “madman theory”, quella in cui un leader gioca una “strategia folle” (fingendo di essere pazzo) per indurre il proprio antagonista alla capitolazione. Strategia che può anche funzionare, almeno fino a quando non diventi anche quella dell’avversario. Perché a quel punto si può passare rapidamente dalle invettive personali ?alle minacce pubbliche, in un crescendo che parte (nel caso Trump-Kim) dai tweet dell’uno ?e dalla propaganda dell’altro ?e finisce con comunicati ufficiali ?(o dichiarazioni a vertici internazionali) che coinvolgono governi, intelligence e militari. ?E che sono l’anticamera ?dello scontro armato.

Gli analisti della Difesa stanno anche rivedendo i concetti basilari del “Mad” (Mutual Assured Destruction), che risalgono alla Guerra Fredda e che prevedono ?- in caso di attacco (e risposta) atomico - la totale distruzione ?di entrambi gli schieramenti. ?Una teoria che poteva avere valore nel trentennio Cinquanta-Ottanta, quando Stati Uniti e Unione Sovietica disponevano di arsenali nucleari in grado di distruggere mezzo mondo e (almeno sulla carta) erano pronti a usarli. ?Gli arsenali di oggi sono ancora ?più diffusi - oltre alle prime ?storiche potenze nucleari come Francia e Gran Bretagna si sono ?via via iscritte al club atomico ?una superpotenza come la Cina ?e a seguire i vari India, Pakistan, Sudafrica, Israele; ma dalla ?caduta del Muro gli scenari militari contemplavano solo possibili ?(ma altamente improbabili) ?conflitti nucleari locali. ?Se negli anni di Obama l’amministrazione Usa ha privilegiato la ricerca della soluzione diplomatica (cosa ?che gli viene rimproverata come sintomo di debolezza), con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca ?la temperatura tra Stati Uniti ?e Corea del Nord si è impennata ?a livelli da allarme rosso.

Gli Stati Uniti non hanno rapporti diplomatici con l’ultimo bastione comunista, ma sono diversi anni che i rispettivi governi si affidano ? a quello che viene chiamato ?il “canale di New York”. ?Si tratta di un ufficio all’interno ?della missione di Pyongyang ?alle Nazioni Unite ?(a poche centinaia di metri ?dal Palazzo di Vetro) gestito ?in coppia - secondo la vecchia tradizione di tutti i regimi autoritari che vuole i diplomatici all’estero potenzialmente spie o traditori - ?da Pak Song-il e Kwon Jong-gun. ?Per la legge Usa e gli accordi con l’Onu i due “mediatori” nord-coreani non possono allontanarsi più ?di 24 miglia da Columbus Circle ?e il loro ufficio nei pressi ?dell’East River è così diventato ?il “canale” per eccellenza per chiunque voglia in qualche ?modo interagire (più o meno segretamente) con il regime ?di Kim Jong-Un.

È lì, in quelle stanze della ?Grande Mela, che ogni tanto ?aprono le porte ad inaspettati “mediatori”, che prima o poi ?una soluzione potrebbe essere trovata, è da lì (e dalla vicina missione Usa alle Nazioni Unite) che magari arriverà quell’input tale per cui Trump e Kim diventeranno “amici” come auspica il presidente Usa. In fondo lo sperano tutti ?i protagonisti in campo. ?Perché il vero pericolo, per ?la penisola asiatica (ma anche ?per il mondo intero) è che prima ?o poi tra The Donald e il dittatore lontano finisca la “guerra degli slogan”. E che la parola passi ?alle armi.