Le minacce del dittatore nordcoreano sono il principale problema per la diplomazia mondiale. Siamo andati tra le persone dei Paesi confinanti. E qui nessuno sembra particolarmente spaventato

«Io sono furibondo, ma non nei confronti di Kim e dei suoi maledetti missili, nei confronti del mio governo, delle autorità locali, del mio provveditorato. Non si affronta in questo modo un’emergenza, non si devono terrorizzare i bambini per niente...».

Per niente? Vi volano i missili sopra la testa. «Certo, ma ammesso che ci cadano addosso, apposta o per caso, non c’è assolutamente nulla da fare. Quindi è inutile allarmare la gente, sopratutto i bambini... piuttosto, che si muova la politica. Da noi è ferma dal dopoguerra. Ma lo sa che non c’è un nostro vicino, Corea, Russia, Cina, con il quale non abbiamo ancora questioni territoriali aperte? Dopo 70 anni? La pace non viene giù dal cielo. La pace si fa sedendosi, con pazienza, attorno ad un tavolo. Non accodandosi agli Stati Uniti e rischiando di entrare in guerra».

Kazuo Hiraishi è il preside di una piccola scuola elementare di Noboribetsu, una delle stazioni termali più famose di Hokkaido, l’isola più settentrionale del Giappone. Per secoli abitata dal popolo Ainu, un’etnia di origine caucasica, l’isola è stata “colonizzata” dai giapponesi durante l’epoca Meiji (fine ’800) fino a diventare parte integrante dell’Impero nel 1868.

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Ma mentre la minoranza Ainu, tutt’ora presente ma forzatamente integrata, non dà più problemi, l’isola continua a essere fonte di tensione con i vicini. Con la Russia innanzitutto, che non vuole saperne di restituire ai giapponesi un gruppo di isolette che fanno parte dell’arcipelago delle Curili, conquistate dall’Armata Rossa durante gli ultimi giorni di guerra, ma anche con la Corea del Nord, che continua a prenderla di mira - ma senza mai colpirla, fortunatamente - con i suoi provocatori “test” missilistici. Quest’anno sono stati oltre una decina, i lanci. A settembre tre, nel giro di pochi giorni. «Le autorità locali creano una situazione di panico inutile», continua il preside, che è stato più volte ammonito a controllare le sue critiche, «urlano dagli altoparlanti di andare sottoterra, che l’impatto potrebbe avvenire a pochi minuti dall’annuncio. Solo che noi non sappiamo dove andare. Sappiano dove andare in caso di terremoto o di tsunami, ma non di attacco chimico o nucleare. Non abbiamo bunker, strutture sotterranee, edifici attrezzati. Io con i miei bambini la prendo a ridere e li faccio nascondere sotto i banchi. Un modo come un altro per sdrammatizzare».

Sdrammatizzare. Già, sembra strano, ma sono proprio i popoli più vicini al giovane e paffuto Belzebù, quello che il mondo ritiene capace di scatenare l’Apocalisse e che Trump un giorno vorrebbe sbranare, i meno preoccupati. Addirittura infastiditi. L’Associazione Albergatori di Hokkaido, assieme alla Camera di Commercio locale, ha lanciato una campagna pubblicitaria sui media, nel tentativo di fermare il drammatico calo di turismo, interno e internazionale, in vista della prossima stagione invernale. Promozioni di ogni tipo, offerte speciali e persino la creazione di una nuova mascotte - un enorme tanuko (tasso) sugli sci - che abbraccia l’isola dicendo: “Hokkaido, isola felice e sicura”.
epa06147911 South Korean President Moon Jae-in speaks during a press conference marking his first 100 days in office at the presidential house in Seoul, South Korea, 17 August 2017. Moon stated during the conference that he will prevent war in the Korean Peninsula at all costs. EPA/JUNG YEON-JE / POOL

Stesso discorso per la Corea del Sud, dove il neopresidente Moon Jae In, eletto pochi mesi fa con un programma “illuminato”, che puntava alla riapertura del dialogo con il Nord, si è trovato a gestire una situazione complicatissima. Da un lato Kim che imperversa con le sue provocazioni, dall’altro gli Usa che premono per una progressiva militarizzazione della penisola e infine la Cina, da anni ormai primo partner commerciale della Corea del Sud, che ha subito applicato pesanti misure di ritorsione - di fatto vere e proprie sanzioni, anche se non ufficiali - contro il raddoppio delle batterie Taad, il controverso sistema antimissile Usa che in realtà Pechino teme, non senza una qualche ragione, sia più utile per sorvegliare i suoi movimenti piuttosto che intercettare i missili di Kim.

Nel giro di qualche mese molte aziende coreane in Cina sono state costrette a chiudere o a sospendere la produzione, mentre il turismo cinese in Corea, che da molti anni alimenta il colossale business del duty free (oltre 10 miliardi di dollari) è crollato. Una misura temporanea, aveva avvertito Pechino, che si è rivelata molto efficace. E infatti, proprio alla vigilia della “storica” visita di Trump in Asia, Seul e Pechino si sono riavvicinati. Seul ha garantito che il Taad, tutto sommato, non è ancora completamente operativo e difficilmente lo sarà a breve, mentre Pechino ha riaperto le frontiere per i suoi ricchi cittadini a caccia di beni di lusso. Una mossa azzardata, per il presidente Moon Jae In, che infatti non è piaciuta alla delegazione Usa, come non è piaciuto il “consiglio”, da parte sudcoreana, di evitare la visita di Trump alla Dmz, la zona demilitarizzata al 38mo parallelo. Una inutile - anche se di enorme impatto mediatico - provocazione in un momento in cui la retorica degli insulti sembra aver di nuovo lasciato spazio alla trattativa.

«Hanno perso un sacco di tempo con il negoziato a sei», spiega l’ex presidente del Consiglio Lamberto Dini, incontrato casualmente a Tokyo, che nel lontano 2000 fu il primo leader europeo a riallacciare le relazioni diplomatiche con Pyongyang , «e ora tutto è più difficile. Ma la diplomazia sotto traccia si sta muovendo. La guerra non conviene più a nessuno, anche se minacciarla può fare arricchire qualche speculatore». Che la guerra, anche di bassa intensità, sia lontana, addirittura impossibile (a meno di un incidente, e questo, con il numero di missili che volano in aria e gli ordigni nucleari scarrozzati in giro per il Pacifico dalla flotta Usa, è forse il vero, unico pericolo) lo pensano un po’ tutti, sia in Corea che in Giappone. A parte, ovviamente le autorità ufficiali, i politici, i militari. E un po’ anche i media, che spesso soffiano sul fuoco per aumentare l’audience.

«Seguiremo i nostri alleati Usa qualsiasi decisione prendano», ha solennemente dichiarato Abe nel corso della conferenza stampa congiunta, mentre veniva più volte interrotto, e umiliato, da Trump. «Siete bravi voi giapponesi, un grande popolo, laborioso, avete delle città magnifiche...ma....certo non come le nostre. No? Perché noi siamo i primi, sempre. Voi secondi». Non si era visto, né sentito, nulla del genere dai tempi di Mc Arthur.

Abe dunque non esclude che il Giappone - nonostante l’esplicito divieto previsto dall’attuale Costituzione - possa entrare in guerra. Ma non succederà. Basta parlare con la gente, gli studenti, i commercianti, i dipendenti pubblici per capire che le priorità, qui, sono altre. E tutto sommato molto simili alle nostre. «Invece di aumentare il bilancio della difesa o cercare di modificare la Costituzione», spiega Hiroshi Hisamatsu, medico, «il nostro governo dovrebbe pensare a come difendere il sistema pensionistico e la sanità pubblica, che rischia di crollare».
epa06328457 Japan's Prime Minister Shinzo Abe speaks during a press conference on the sidelines of the 31st Association of Southeast Asian Nations (ASEAN) Summit and Related Meetings in Manila, Philippines, 14 November 2017. The Philippines is hosting the 31st Association of Southeast Asian Nations (ASEAN) Summit and Related Meetings from 10 to 14 November. EPA/MARK R. CRISTINO

«Vorrei tanto che Abe mantenesse le sue promesse, tipo quella di aumentare gli asili nido, garantire il rispetto della legge nel settore dei permessi e delle aspettative per maternità», dice Kazuko Okada, giovane manager, «io ho dovuto dimettermi da un’azienda che mi piaceva per mettermi in proprio. Non mi riconoscevano il diritto al part-time, peraltro sancito dalla legge».

Per non parlare dell’istruzione, vero incubo di tutte le famiglie. Un incubo condiviso da giapponesi e coreani. Con il sistema pubblico sempre più chiuso e selettivo e i costi altissimi delle scuole private, risparmiare per garantire un’istruzione adeguata ai figli è diventato ormai più importante che acquistare una casa. Un incubo per tutti, genitori e figli, testimoniato dall’impennata nel numero di suicidi che si registra a primavera, quando vengono resi noti i risultati degli esami di ammissione. Molti non reggono la pressione.

«Tra noi questo non succede. Non ricordo un singolo caso di sucidio, da quando insegno qui, e sono oltre trent’anni... noi educhiamo i nostri ragazzi all’orgoglio nazionale, ma anche alla gioia della vita...». Yu Sop Kim è uno zainichi, un coreano che vive (e spesso è anche nato) in Giappone. Insegna storia e letteratura in una delle tante scuole coreane in Giappone. Tutte rigorosamente filo-Pyongyang. Sono scuole finanziate dalla Chongryon, l’associazione dei coreani fedeli al regime del Nord e in parte anche dal governo giapponese, secondo vecchi accordi che risalgono all’immediato dopoguerra, quando centinaia di migliaia di coreani, costretti a venire in Giappone durante l’occupazione della penisola da parte dell’Esercito Imperiale, o venuti di loro volontà in cerca di fortuna, si ritrovarono improvvisamente apolidi.

Il trattato di San Francisco si scordò di loro e il Giappone revocò la cittadinanza che gli aveva imposto, lasciandoli di fronte a un tragico dilemma. Tornare in Corea - che nel frattempo era stata divisa in due - o restare in Giappone, ma da apolidi. Molti tornarono al Nord, salvo poi pentirsene, altri, circa 600 mila, restarono. Ma vivere senza documenti in un paese come il Giappone era dura. Molti entrarono, fino a scalarle, nelle varie cosche mafiose, altri cercarono di mimetizzarsi, cambiando nome, cosa che in Giappone è realtivamente facile. Sino a quando il Nord ebbe un’idea geniale: concedere cittadinanza e passaporto a tutti coloro che ne facessero richiesta, senza imporgli di tornare in “patria”. La maggior parte degli zainichi aderì con entusiasmo e il regime del Nord conquistò così migliaia di fedeli sostenitori.

Entrare in una scuola coreana, in Giappone, fa impressione. Sembra di essere in Corea del Nord. Ritratti della dinastia Kim ovunque, ragazze in uniforme/abito tradizionale, ordine e pulizia impeccabili. «Chi entra nel nostro percorso sa che ne uscirà felice e appagato. E che troverà subito lavoro - spiega il professor Yu - e poi c’è il premio di fine anno per i maturandi: una gita scolastica al Nord, la nostra amata patria». Una patria che questi ragazzi adorano e rispettano. Senza mai averci messo piede. Ma voi avete paura dei missili? Della guerra che potrebbe scoppiare? No, risponde sicuro Yu Sop Kim, mentre i suoi studenti annuiscono convinti: «Il Nord non attacherebbe mai il sud, e nemmeno il Giappone, visto che ci sono così tanti coreani. Un’altra guerra non ci sarà. Grazie alla deterrenza nucleare, siamo riusciti a far ragionare gli Stati Uniti. Ora sì, che la pace è più vicina».