Opinione
Perché abbiamo dimenticato Renato Guttuso, uomo simbolo dell'arte comunista
Ebbe fama, soldi, donne, potere. Ma su di lui è silenzio assoluto. Ieri un suo quadro costava il doppio di un Morandi, oggi vale dieci volte di meno. Ecco le ragioni per cui il suo nome è ormai avvolto nel buio
Il 19 gennaio del 1987 i funerali di Renato Guttuso bloccarono Roma. Un’immensa folla con bandiere rosse accompagnava la salma che dal Senato, dove era allestita la camera ardente, si spostava sulla piazza del Pantheon per la cerimonia laica. A destra e a sinistra del feretro camminano i due presidenti delle Camere: Nilde Jotti e Amintore Fanfani, mentre sul palco, pronti per l’orazione funebre, aspettano Alberto Moravia, Alessandro Natta e Carlo Bo. Intorno giornalisti, attori, fotografi e cameramen e tutti i più potenti politici da Andreotti a Craxi. Conclusi i discorsi e gli applausi, la folla imbandierata in un trionfo catto-comunista si sposta verso Santa Maria Sopra Minerva dove il Guttuso da poco redento è commemorato con Santa Messa officiata dal cardinal Angelini. Non basta: da lì parte un terzo epico funerale per trasportare i resti del compagno artista in volo fino in Sicilia, dove altri cortei di compagni in lacrime seguono la bara dall’aeroporto di Palermo a Bagheria, suo paese natale. Nella chiesa gialla lo piangono Macaluso e Tortorella, Leoluca Orlando (già allora sindaco), l’intero stato maggiore del Pci siciliano, intellettuali e artisti arrivano da Palermo o da Catania, il poeta Buttitta lo ricorda in dialetto, mentre ogni angolo della cittadina si copre di fiori e immagini dei suoi autoritratti. Era morto il pittore del popolo.
Il 23 dicembre 1989 sulla “Repubblica” a firma di Luisa Laureati Briganti appare un articolo dal titolo “L’eclisse Guttuso” che inizia così: «Perché ci siamo dimenticati di Guttuso? Come mai è pressoché scomparso dalle mostre e dal mercato?». Sic transit gloria mundi. A meno di ventiquattro mesi da una macchina funeraria paragonabile a quella di una rock star o di Lady D, una sorta di “damnatio memoriae” colpisce il più potente e famoso pittore d’Italia.
Eppure Guttuso fu davvero potente. Senatore della Repubblica dal 1976 al 1979; amico dei più importanti intellettuali dell’epoca da Pasolini a Moravia, dei più grandi artisti da Picasso a De Chirico, di raffinati musicisti da Petrassi a Nono. E in più: editorialista dell’Unità, del Corriere della Sera e di Repubblica come pittore ma anche critico, polemista, teorico, analista politico. Infine: uomo colto dall’indubbio fascino, gran conversatore, seduttore e persino cantante dotato di bellissima voce con cui da buon comunista intonava canti anarchici e ballate di guerra. «Aveva riempito da anni con le sue foto, le sue interviste, le sue dichiarazioni, le sue apparizioni televisive, i suoi scritti, i suoi dipinti, i suoi disegni, i suoi manifesti, il suo erotismo, le pagine dei giornali, delle riviste, le copertine dei libri», scrive la Laureati. Poi, in pochi mesi, arriva il buio. Un buio che si addensa sempre più, tanto da rendere i suoi dipinti marginali per il mercato e le sue parole perse nel passato.
Nel 2017, a trent’anni dalla morte, il silenzio è assoluto. A parte una piccola sala alla Galleria Nazionale di Roma dal titolo “Guttuso, un uomo innamorato” e la mostra allestita nel dicembre 2016 negli spazi di Villa Zito a Palermo, nessuna istituzione, nessun museo, nessun convegno o giornata di studi, nessuna voce dalla sinistra o dagli eredi del vecchio Pci ha ricordato l’uomo simbolo dell’arte comunista.
All’origine di tanta profonda rimozione furono le troppe polemiche ereditarie; gli strali della contessa Marta Marzotto sua storica amante che lanciava maledizioni e querele; la sospetta conversione dell’ultim’ora che permise alla Chiesa di riappropriarsi del talentuoso figliol prodigo; l’adozione di Fabio Carapezza, figlio del suo migliore amico, che venne nominato erede e i processi che un appello dopo l’altro riempirono i giornali finendo per riconoscere a Carapezza il legittimo diritto all’eredità e alla cura degli archivi.
Ma anche la morte di Picasso fu travolta da beghe ereditarie eppure l’opera non ne soffrì più che tanto. Nel caso di Guttuso invece a crollare insieme alla fama furono anche le quotazioni. Finché il maestro fu in vita un suo quadro di medie dimensioni valeva almeno come due tele di Giorgio Morandi. Le opere venivano vendute con la pittura ancora fresca sul cavalletto, le sue macchine pittoriche che immortalavano lotte di braccianti, comizi, garibaldini ed eroiche pagine di storia patria erano la calda e mediterranea risposta al realismo socialista, la sua grafica infine che immortalava limoni, fichi d’india, girasoli peperoni e morbidi nudi femminili era appesa nelle case italiane come l’immagine più diffusa e veritiera dell’italica bellezza. Oggi il record d’asta di Guttuso ottenuto da Farsetti nel 2012 tocca appena i 240 mila euro per dei “Fichi d’India” del 1962. Mentre quello di Morandi è una “Natura morta” del 1939 battuta da Christie’s a Londra nel 2015 per 2 milioni e 546 mila sterline.
Da cosa dipende questo crollo delle sue quotazioni? Da una parte pesa la scarsa presenza di opere in importanti collezioni internazionali, e se si esclude un dipinto del 1948 al Moma (“I mangiatori di cocomeri”) altre opere in Germania (come il grande quadro sul Sessantotto), la maggior parte dei Guttuso è conservata nei musei e nelle case degli italiani. Ma la più seria causa del suo mal fu probabilmente se stesso. Artista d’altri tempi convinto di potersi servire del mercato senza aver nessun obbligo in cambio, Guttuso non ha mai avuto dei potenti galleristi, non ha costruito un magazzino, non ha predisposto in vita la possibilità di redigere un catalogo generale.
Vendeva lui stesso i quadri a casa sua e il prezzo cambiava a seconda dell’acquirente o delle circostanze. Quando Giovanni Minoli in un “Mixer” del 1984 gli chiede se era davvero un «comunista ricco» e «quanto costano i suoi quadri», il maestro risponde: «So a quanto li vendo io, ma non so quanto costano». Risposta intollerabile alle orecchie di un mercato dell’arte che in quegli anni già aveva dettato le sue ferree regole, ancorando le quotazioni a un sistema dove musei gallerie e collezionismo non ammettevano i capricci del genio.
«Ma soprattutto», spiega Fabio Carapezza, «non dimentichiamo che Guttuso era un comunista, bollato come “activist” e rifiutato dagli Stati Uniti come persona e come opera». Un isolamento che in un mercato dominato dal potere anglo-americano di certo lo ha punito.
Eppure il maestro del realismo italiano non era il perfetto intellettuale organico in senso gramsciano. Nonostante avesse sempre mantenuto ferma la sua fede politica e solida una pittura ancorata ai temi sociali, riusciva a essere tanto amico dell’Unione Sovietica che di Andreotti o del cardinal Angelini. E nell’arte, era capace di ispirarsi a Guernica ma allo stesso tempo apprezzare Pollock e amare sinceramente la Pop Art tanto da esserne ricambiato.
Racconta Carapezza: «Andy Warhol negli anni Settanta arrivò a Roma in tempi della campagna elettorale e di euforia per l’atteso “sorpasso” sulla Dc. La città era sommersa di manifesti con quella vistosa “Falce e Martello” che Guttuso disegnò nel ’53 per il partito. Era la prima volta che Warhol vedeva quel logo, ossessivamente ripetuto, e lo fece suo. Ma per correttezza una delle prime versioni la regalò proprio a Guttuso». E se Warhol gli rendeva omaggio, altri giovani artisti contavano su di lui come maestro, amico e potente protettore. Guttuso pagava l’affitto a Tano Festa sotto sfratto; dipingeva un bellissimo ritratto di Mario Schifano; convinceva la Soprintendenza a dare i permessi a uno stralunato Christo che nel 1972 voleva impacchettare le Mura Aureliane.
Emanuele Macaluso ricorda che quando Togliatti di fronte a una mostra di astrattisti comunisti lì chiamò «scarabocchiari» e diffidò i compagni pittori a lasciarsi tentare dal “non figurativo”, fu Guttuso a difendere i suoi storici nemici in nome della libertà di pensiero. «E prendere la penna contro Togliatti era cosa che poteva fare solo lui», dice Macaluso. «Ma allora il dibattito fra comunisti e la battaglia critica erano veri e vivaci. La politica si appoggiava alla cultura perché la domanda era come collocarsi nella società, non solo come andare al governo. Esistevano giornali, riviste, centri culturali. Le case del popolo erano animate da discussioni sull’arte e sul mondo. Poi dopo il 1989, con la caduta del muro, la parola d’ordine diventa “non siamo più”, “non dobbiamo essere più” quel che eravamo stati. Insieme al muro caddero molte altre cose e si cominciarono a mettere da parte uomini come Guttuso ma anche come Concetto Marchesi, straordinario costituzionalista e latinista ormai dimenticato. E si ridimensionò financo Moravia».
Ma Guttuso ne fu una vittima particolare, perché come ben spiega lo storico dell’arte Piergiovanni Castagnoli «non fu poi così amato, neanche all’interno del Pci. Polemico e rissoso, capace di rompere i rapporti con amici storici come con Sciascia e Vittorini, era da molti vissuto con fastidio e timore. Per molti poi, fuori dal partito, la sua pittura rappresentava l’immagine del potere e della retorica. Io stesso scrissi per il Mulino un saggio critico sprezzante e durissimo contro “I funerali di Togliatti”, il suo quadro simbolo. Un furioso “J’accuse” giovanile di cui ora mi pento». Tanto da fare un professionale “mea culpa”, quando in qualità di curatore alla Gam di Torino taglierà il nastro di una mostra (dal 7 febbraio al 3 giugno 2018) che «nella ricorrenza della Rivoluzione d’Ottobre vuole riconsiderare il rapporto fra politica e cultura attraverso l’esperienza pittorica di Guttuso e le sue opere civili dagli anni Trenta al “Funerale di Togliatti” del 1972».
Quel trionfale racconto senza tempo dove da Marx ad Angela Davis, da Sartre a Pasolini convivono tutti i volti e gli ideali della sinistra, agli occhi di Castagnoli oggi non è più «una pura prestazione professionale in obbedienza al partito ma un dipinto dove vedo partecipazione affettiva, un pathos non dimostrabile in una formula, una regia sapiente, delle figure emblematiche - a partire da Lenin - che tornano come un’ossessione inserite in una tecnica libera capace di abbracciare il collage e il disegno a matita, in una sapiente costruzione dello spazio che si lascia guardare a lungo. Insomma sì, ho cambiato idea: è davvero un buon quadro».
Così, nonostante il disprezzo del mercato e l’indifferenza che ha circondato Guttuso negli ultimi anni, Torino potrebbe confermare quel che già si intuiva nel 2012 quando la mostra per il centenario della nascita al Complesso del Vittoriano di Roma curata da Enrico Crispolti e Fabio Carapezza Guttuso fu visitata da 100 mila persone convincendo gli organizzatori a prorogarla per quasi un mese. E se ancora esiste un popolo, orfano di una sinistra epica e visionaria, che non ha dimenticato il suo pittore, forse la Storia, tra corsi e ricorsi, l’ultima pagina su Guttuso la deve ancora scrivere.