Francesco gode di un grande consenso  tra la gente. Ma la sua gestione della Chiesa  è accentrata e personale. Quasi solitaria

Popolarità e solitudine sono le due facce dell’attuale pontificato, solo in apparenza contraddittorie. Un’ennesima prova della popolarità di papa Francesco è stata una decina di giorni fa la sua visita all’università di Roma Tre, nel tripudio di studenti e insegnanti, spettacolare rivincita sulla messa al bando che nel 2008 impedì a Benedetto XVI di entrare e parlare nell’altra università di Roma, la più nobile e antica, quella della Sapienza, perché colpevole di voler introdurre a forza Dio e la fede nel tempio inviolabile della dea ragione. A Roma Tre Francesco ha parlato eccome, interrotto da decine di applausi. Ha parlato di dialogo e di multiculture, di migrazioni e di disoccupazione giovanile, con quello che secondo lui ne deriva («dicono che le vere statistiche dei suicidi giovanili non sono pubblicate; si pubblica qualcosa, ma le vere statistiche no»).

Ma in 45 minuti di discorso neppure una volta ha pronunciato le parole Dio, Gesù, Chiesa, fede, cristianesimo. È la medesima neutralità che Francesco adotta quando enuncia ai «movimenti popolari» la sua visione politica altermondialista e no global. Perché è nel popolo - «una categoria mistica», lo definisce - che egli vede la genesi del riscatto.

Ed è al popolo, cristiano o no, che il papa si appella quando denuncia le malefatte dei mercati mondiali, dell’economia che uccide, dei poteri anonimi che si nutrono di guerre, come anche delle antiquate, sclerotiche, senza misericordia istituzioni ecclesiastiche.

Ma la sua, appunto, è la popolarità di un papa che si isola dalle istituzioni per poterle meglio contestare, a furor di popolo. In Vaticano ha preso alloggio a Casa Santa Marta, che è un albergo, proprio per astrarsi il più possibile da quella curia che non ha mai amato e che ha pochissima voglia di riformare organicamente. I suoi collaboratori più stretti preferisce sceglierseli da sé. E uno l’ha preso dall’università cattolica di Buenos Aires: Víctor Manuel Fernández, il suo teologo prediletto. Un altro dalla “Civiltà Cattolica”: il confratello gesuita Antonio Spadaro. Per non dire dei monsignori Konrad Krajewski, Fabián Pedacchio Leaniz, Battista Ricca, Marcelo Sánchez Sorondo. Ciascuno però impegnato solo in uno spicchio della mole di attività del papa e nessuno in grado di conoscerne l’insieme. Jorge Mario Bergoglio ha sempre tenuto una propria agenda personale che solo lui compila e consulta.

Quando funziona, la curia non ostacola i papi, li aiuta. Ne tempera i poteri assoluti con un “check and balance” analogo a quello delle moderne democrazie. La Congregazione per la dottrina della fede, in particolare, dovrebbe garantire che siano inappuntabili tutti gli atti di magistero, previamente controllati parola per parola. Era quello che avveniva tra Giovanni Paolo II e l’allora prefetto della congregazione Joseph Ratzinger.

Ma con Francesco questo equilibrio è saltato. Il papa attuale accantona sempre più spesso i discorsi scritti e preferisce improvvisare. E quando ha da scrivere un’enciclica o un’esortazione fa anche qui di testa sua, con l’aiuto dei suoi ghostwriter Fernández e Spadaro, montando a suo piacimento i materiali che gli sono messi a disposizione. Poi invia, come di routine, la bozza del documento alla congregazione per la dottrina della fede e questa gliela rimanda con decine o magari centinaia di annotazioni.

Ma lui sistematicamente le ignora. È avvenuto così per “Evangelii gaudium”, il documento programmatico del pontificato, e per “Amoris laetitia”, l’esortazione su matrimonio e divorzio che sta dividendo la Chiesa per le opposte interpretazioni a cui dà adito. Si è poi scoperto che interi paragrafi di “Amoris laetitia” erano copiati da articoli di dieci e vent’anni fa di Fernández. Al quale Francesco non ha minimamente revocato la fiducia. Anzi. È proprio Fernández il più feroce critico del cardinale Gerhard L. Müller, l’ormai inutile prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, al quale imputa l’inaudita pretesa di voler «controllare» la teologia del papa.