Antonio Bufalini è a Taranto da dieci mesi. È arrivato la scorsa primavera per dirigere la fabbrica che ha spaccato la città e che molti, ancora oggi, vorrebbero chiudere. Era stato qui già anni fa, giovane ingegnere, per poi spostarsi in Umbria, dove ha diretto a lungo le Acciaierie di Terni, un altro dei colossi dell’acciaio italiano. Da quando è tornato, ha contribuito con gli altri dirigenti a rispondere alle tantissime domande formulate dai possibili compratori, tese a capire se l’Ilva può avere ancora un futuro.
Fuori dagli uffici, oltre un filare di eucalipti si allarga lo stabilimento siderurgico che gli italiani hanno imparato a conoscere per via delle polemiche di questi anni. La parte più contestata è a ridosso della via Appia, vicino al muro che separa dalla città le distese dove vengono accumulati il ferro e il carbone che giungono dal porto, sorvolando la statale grazie a nastri trasportatori che corrono per 120 chilometri, fra andata e ritorno. Passi la strada e entri nel quartiere Tamburi, il più colpito dalle polveri di minerale che si sollevano quando soffia la tramontana, proprio come in questi giorni di metà marzo.
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Da quando l’Ilva è stata espropriata alla famiglia Riva e commissariata, è iniziata una serie di interventi per contenere l’inquinamento. I più visibili sono gli idranti e le autobotti che bagnano i cumuli di minerale e le strade, in modo da trattenere a terra la polvere rilasciata dai minerali. E poi ci sono le reti sui muri di confine, ormai rossastre verso il Tamburi, ancora verdi nelle altre direzioni. Tutto utile, fanno sperare i dati raccolti dalle centraline della Regione, ma tutto ancora insufficiente, se si vuole ricucire il rapporto con una città tramortita da paure e sospetti.
Sporca. Pericolosa. Un rimasuglio dell’industria del Novecento. Una ferita inguaribile in uno dei tratti più suggestivi del litorale italiano, abitato fin dai tempi della Magna Grecia. In questi anni su Taranto e sull’Ilva sono state pronunciate parole prive di speranza. Eppure, lunedì 6 marzo, due cordate internazionali hanno presentato un’offerta d’acquisto per rilevare lo stabilimento, fugando le voci che a Roma circolavano da giorni sulla possibilità che uno dei candidati si ritirasse, lasciando i commissari straordinari che gestiscono l’azienda e il governo nella scomoda situazione di trattare con un unico compratore.
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Invece no: le offerte sono state due.
La prima cordata è guidata dal gigante europeo ArcelorMittal, affiancato con una piccola quota dalla mantovana Marcegaglia e da Banca Intesa.
La seconda ha invece come partner industriale il gruppo indiano Jindal, anche se la maggioranza del capitale è suddivisa fra tre soci italiani: l’acciaieria cremonese Arvedi, l’imprenditore Leonardo Del Vecchio e una società pubblica, la Cassa depositi e prestiti. Tra investimenti promessi e quattrini messi sul piatto per rilevare l’Ilva, stando alle indiscrezioni, si parla di cifre che viaggiano attorno ai quattro miliardi di euro. Denari pesanti, che dovrebbero rassicurare chi teme la cancellazione della più grande fabbrica italiana, una delle ultime industrie del Mezzogiorno.
A dispetto di queste premesse, a Taranto basta un attimo per rendersi conto che entusiasmo se ne respira poco. I motivi sono vari. In generale si può dire che, mentre in tribunale si celebra il processo per disastro ambientale ai Riva e a una folta schiera di dirigenti e amministratori locali, nessuno si fida più delle istituzioni. Anche se a maggio ci saranno le elezioni per il sindaco, i partiti sono scomparsi e i movimenti pro chiusura dilaniati dai dissidi. Gli aspiranti candidati alla poltrona, anche se superano la decina, faticano persino a trovare persone disposte a presentarsi in lista. Ma c’è un altro fattore. Nello scontro che ha segnato gli ultimi anni dell’Ilva, si sono visti così tanti errori del governo e voltafaccia così clamorosi dei protagonisti che, oggi, ogni promessa viene soppesata con cautela.
Uno dei punti più critici riguarda la procedura di vendita gestita dai commissari straordinari Piero Gnudi, Enrico Laghi e Corrado Carrubba. Per decidere chi vincerà, a ognuna delle due proposte verrà assegnato un punteggio. Il peso più importante ce l’ha il prezzo d’acquisto, che conta per il 50 per cento del totale, mentre la restante metà è suddivisa fra piano ambientale, occupazionale e industriale (15 per cento l’uno), oltre a un 5 per cento relativo alle compensazioni pubbliche.
Ebbene, stando a indiscrezioni attendibili che nessuno in questa fase è disposto a commentare, la cordata Arcelor-Marcegaglia avrebbe offerto un prezzo d’acquisto superiore di circa 300 milioni di euro rispetto a quello di Jindal e soci, che avrebbero promesso investimenti più cospicui.
La cordata guidata dal tycoon Lakshmi Mittal, azionista principale e numero uno del gruppo Arcelor, anche lui originario dell’India ma trapiantato da anni a Londra, partirebbe dunque in vantaggio, visto il peso della componente prezzo. Quanto questo vantaggio sia ampio, dipende però da altri fattori, pure coperti da riservatezza, e cioè gli investimenti che verranno realizzati, gli esuberi previsti, i rapporti tra il compratore e l’amministrazione straordinaria, che durerà almeno fino al 2019 e potrebbe farsi carico di una parte dei dipendenti, almeno per un certo periodo di tempo. È qui che l’intreccio si fa più complesso. Su alcuni di questi aspetti, infatti, Arcelor era partita con posizioni accolte da molti dubbi, soprattutto dai sindacati.
Nel 2014, infatti, aveva avuto alcuni abboccamenti per rilevare l’Ilva senza poi presentare un’offerta, nonostante l’allora ministro delle Attività produttive, Federica Guidi, si fosse sbilanciata definendo le trattative «in stadio avanzato». Quando poi, due anni dopo, la gara aveva iniziato a surriscaldarsi, i suoi dirigenti si erano presentati in Senato prefigurando l’obiettivo di tornare a una produzione di acciaio da altoforno di sei milioni di tonnellate annue: una cifra che poteva sembrare elevata, se si considera che nel 2015 l’Ilva si era fermata a 4,7 milioni, ma che è poca cosa rispetto ai nove milioni che l’azienda faceva con i Riva e si distanzia di pochissimo dai 5,8 milioni che i commissari sono stati in grado di fare da soli nel 2016.
Altro punto critico: l’annuncio di voler operare solo con gli altoforni numero 1,2 e 4, più piccoli, senza riaccendere il numero 5, che oggi è spento ma che resta il più grande d’Europa, capace di produrre 11 mila tonnellate di ghisa al giorno. Insomma, per un lungo periodo di tempo si è diffuso il timore che la vera strategia di Arcelor fosse quella di rilevare l’Ilva senza l’ambizione di rilanciarla davvero, ma con l’obiettivo di impossessarsi del mercato di un concorrente e affossarlo lentamente, al fine di favorire i propri stabilimenti nel Nord Europa. E ancora, altro punto debole: a Taranto la presenza di Marcegaglia nella cordata con Mittal non a tutti è sembrata di buon auspicio.
È vero che il gruppo guidato da Emma e dal fratello Antonio Marcegaglia è da sempre un grande cliente dell’Ilva, ma nell’ultimo anno l’azienda mantovana ha ritardato il pagamento dei prodotti che si fa lavorare a Taranto, accumulando un debito con l’Ilva che, stando a indiscrezioni, avrebbe raggiunto i 150 milioni di euro. Dal quartier generale della Marcegaglia parlano di «un ritardo del tutto contingente che rientrerà entro la fine del mese» e smentiscono che queste difficoltà siano legate alla rinegoziazione dei debiti con le banche, che il gruppo ha ottenuto due anni fa e che vede proprio Banca Intesa fra i suoi grandi creditori. Sta di fatto, però, che presentarsi in queste condizioni come possibile compratore e come il soggetto che dovrà investire risorse importanti per riportare l’Ilva in auge, a Taranto non è stato ben accolto da tutti.
Agli errori iniziali la cordata Arcelor-Marcegaglia ha rimediato solo dopo un pesante doppio colpo. Il primo è arrivato il 16 febbraio, quando a Taranto il segretario nazionale della Cgil, Susanna Camusso, ha esplicitato in maniera pubblica la «sensazione» del suo sindacato, ovvero che Arcelor voglia semplicemente «ridimensionare» l’Ilva. Il secondo è giunto il giorno successivo, quando sul Sole 24 Ore è stata pubblicata un’intervista in cui il rivale di Arcelor, l’imprenditore indiano Sajjan Jindal, rivelava le intenzioni della sua cordata: continuare a produrre a carbone 6 milioni di tonnellate d’acciaio grazie al ripristino dell’altoforno 5, ma aggiungendone altri 4-6 milioni con altre tecnologie - come i forni elettrici e l’utilizzo del cosiddetto preridotto - meno nocive per l’ambiente (vedi pagina 59). Tutto questo, grazie a investimenti per «diversi miliardi».
I retroscena di come le tecnologie di Jindal hanno fatto irruzione nella vicenda Ilva li vedremo fra poco. Prima però è bene sottolineare un punto: a Taranto tutti ripetono la regola che per produrre un milione di tonnellate di acciaio servono mille addetti, per cui la proposta della cordata a quattro guidata da Jindal agli occhi di molti avrebbe un pregio: una volta realizzata, potrebbe riassorbire per intero i dipendenti attuali, senza le migliaia di esuberi che molti temono. Arcelor ha reagito il 6 marzo, giorno della presentazione delle offerte, diffondendo un comunicato in cui per la prima volta ha annunciato di voler anch’essa rimettere in funzione l’Altoforno 5 e di aumentare la produzione a carbone da 6 a 8 milioni di tonnellate «sul più lungo termine».
Ma è chiaro che la sortita di Jindal aveva ormai trovato orecchie sensibili. Per avere una riprova, basta entrare nel palazzo di Taranto dove hanno sede tutti e tre i sindacati metalmeccanici storici, affacciato su una piazza rinfrescata da palme e ficus a pochi isolati dallo storico ponte girevole che unisce il quartiere umbertino al centro storico. Al terzo piano ha sede la Uilm, che in un’azienda fortemente sindacalizzata com’è l’Ilva raccoglie da sola tanti iscritti quanti ne hanno le altre sigle. Sotto una grande foto del “Quarto stato” di Pellizza da Volpedo, il segretario Antonio Talò, dipendente dal reparto acciaieria, entrato fin dal 1972 «nel recinto», come dicono qui, parla chiaro: «Gli 1,2 miliardi di euro d’investimenti in tecnologie promessi da Arcelor non bastano per ripristinare l’altoforno 5, rifare gli impianti dove il minerale di carbone viene trasformato in coke, rimettere in funzione il tubificio e completare gli altri interventi necessari». Se però, in virtù del prezzo offerto, vincesse proprio Arcelor? «Chiederemmo tempi molto stretti e modalità precise per l’attuazione degli annunci», dice Talò.
Se il gruppo di Lakshmi Mittal punta tutto sugli altoforni a carbone, l’idea di una tecnologia diversa, più pulita, era venuta inizialmente al primo commissario straordinario dell’Ilva espropriata, Enrico Bondi. Il risanatore di Parmalat aveva elaborato un piano che prevedeva la sostituzione di una parte degli altoforni a carbone con impianti a preridotto, un semilavorato del ferro che può essere trasformato in acciaio nei forni elettrici, molto meno inquinanti. Bondi, però, era finito nel mirino di Antonio Gozzi, il presidente di Federacciai, che aveva più volte attaccato il suo piano e trovato ascolto nel governo di Matteo Renzi. Sostituito Bondi con Piero Gnudi, Renzi aveva prima immaginato di cedere l’Ilva, poi affidato alla regia di Andrea Guerra un piano di rilancio.
Erano arrivati altri due commissari, Laghi e Carrubba, e soprattutto era stata chiamata a Taranto una squadra di manager, che avrebbe dovuto riportare l’Ilva in alto con il tesoretto sequestrato ai Riva. Quando si è capito che quei soldi per rientrare nelle disponibilità del gruppo ci avrebbero messo molto più tempo del previsto, i tre commissari si sono ritrovati nei guai. Nel frattempo, però, il presidente della Commissione Industria del Senato, Massimo Mucchetti, aveva iniziato a ospitare a Palazzo Madama una nuova serie di contatti fra Bondi, alcuni esponenti dell’azienda e una serie di tecnici esperti di preridotto, una tecnologia che vede due gruppi italiani (la friulana Danieli e la Tenova della famiglia Rocca) tra i primissimi produttori al mondo.
È stato così preparato il terreno per il ritorno in scena di Jindal, che nel 2014 aveva già visitato le acciaierie di Taranto e Piombino e che il preridotto lo utilizza con successo in India. L’occasione si è presentata quando la Cassa depositi e prestiti si è ritrovata a dover sostituire la turca Erdomir nella cordata che stava preparando. E qui il gruppo indiano ha stupito tutti, forte dell’interesse a investire in un mercato com’è quello europeo, dove non ha altri stabilimenti da difendere. Secondo alcune elaborazioni effettuate, produrre bramme d’acciaio a Taranto, che ha una logistica invidiabile grazie alla vicinanza del porto, ha infatti costi equiparabili a quelli indiani. Così il progetto è stato messo nero su bianco, inserendo alcune innovazioni molto promettenti sui sistemi per catturare le polveri sottili che sono la dannazione del quartiere Tamburi e del centro storico, costruito con un’isola che per storia e architettura potrebbe rivaleggiare con l’Ortigia di Siracusa, se non fosse che il Comune non riesce a promuovere la ristrutturazione degli immobili di sua proprietà, che sono 1.600 su un totale di cinquemila e che cadono a pezzi, vuoti e disabitati.
Siccome non tutte le ciambelle riescono con il buco, però, anche la seconda cordata ha commesso degli errori. Non è riuscita, ad esempio, a coinvolgere Banca Intesa, che ha prestato ai commissari straordinari i quattrini necessari per tirare avanti in questi mesi e che si era fatta avanti anche con Jindal & soci. Un’altra voce che circola, poi, è che la Cassa depositi e prestiti abbia deciso di ridurre la propria disponibilità a investire nella cordata. Un’ipotesi che difficilmente troverà conferme ma che, forse, ha una spiegazione logica: quando è arrivato Jindal, la cordata invece di aumentare le risorse da destinare all’operazione, ha ripartito fra quattro componenti gli investimenti necessari, diminuendo la quota che ciascuno doveva metterci. Così facendo, però, Mittal si è ritrovato un bel vantaggio: la possibilità di offrire di più.