Al maxiprocesso si è ascoltata la filastrocca imparata a memoria: tutto ridotto a un incontro al bar tra vecchi amici. Da una parte si autoesalta dall’altra si sminuisce. Le sue condotte si riducono a piccoli fatti da punire con un’ammenda. Alla fine lo spettacolo appare un’occasione persa per dirci come realmente stanno le cose. Dal caveau ai giorni nostri
«Il mio esame sarà limitato, non voglio che le cose che dico possano essere usate per accusare nessuno». Il fascista e contento Carminati l’ha messo in chiaro. Il processo è lui, ma non ci racconterà tutta la verità. Da vero boss.
Ha cominciato snocciolando i dettagli della sua condotta per la quale è oggi a processo, dall’Ama in cui «non ho avuto mai interesse» al campo nomadi «la cosa più legale che ho fatto», passando per l’affare filobus di Breda Menarini «di cui non me ne frega nulla». Fino a Finmeccanica.
Salvatore Buzzi quindici giorni fa in udienza ha ricordato che il ‘nero’ «temeva di essere intercettato per i suoi rapporti con Finmeccanica... Voi parlate di 'Mafia Capitale' - si è sfogato - ma dimenticate che l'appalto più grosso a Roma e in Italia è quello della metro C, con Finmeccanica, Gruppo Caltagirone e Toti, è lì che si concentra tutto. Lui portava i soldi ai politici per conto di Finmeccanica, non so a chi ma temeva che, essendo intercettato, potessi essere intercettato anche io».
Quella Finmeccanica con l’inchiesta degli appalti Enav in cui era finito coinvolto “l’amico” Marco Iannilli. Il commercialista che gli ha affittato la casa a Sacrofano trasformata in quartier generale e con cui ammette di essersi fatto da paciere in una discussione con Gennaro Mokbel. Questioni di vecchi amici.
Finmeccanica, «una delle tante leggende», esordisce l’avvocata Ippolita Naso. E Carminati contento risponde: «Siamo alla leggenda metropolitana. Vorrei vedere io che porto i soldi a qualcuno. Buzzi sbaglia: io metto i soldi in tasca».
Smentisce insomma «il caro amico Buzzi», eppure ringrazia il “compagno” perché «mi ha dato una grandissima opportunità di lavoro». E precisa: «se fosse stato vero con tutta la mia amicizia per Buzzi non l’avrei detto».
Gira i fogli Carminati. Snocciola intercettazioni, informative, testimonianze. Le carte dell’inchiesta e del processo. Ci sono anche i suoi rapporti con l’amico Riccardo Mancini, ex ad dell’Ente Eur. Lui quello che «chissà se ja fa’ a tenersi il cecio», l’ha sempre sostenuto. Mica come Alemanno. L’allora sindaco di Roma «l’ha scaricato e si è pure costituito parte civile. Quando uno dei suoi uomini va in difficoltà lo accanna’, come si dice a Roma», rivela alla presidente. E prende le distanze. Carminati i suoi uomini non li abbandona mai. Neanche ora che parla e ci racconta un pezzo della sua presunta verità.
Ecco allora che premette subito di non voler spendere parole su Lorenzo Alibrandi: «perché mi lega un rapporto personale. Io sono la sua famiglia e lui è la mia famiglia. Parlare dei Piccoli Passi (onlus gestita da Alibrandi ndr) è la cosa che più mi pesa in questo processo. C’è la sofferenza in quel posto, quindi mai avrei permesso incontri strani». La presidente lo interrompe. C’è da capire quali siano questi incontri strani. E lui sospira: «presidente non è che le venga a dire che sono una mammoletta».
L’ha detto tre volte “mammoletta”, nonostante sia diventato «una macchietta. Tutti mi prendevano per il culo». La colpa? Ma dei giornalisti, di quelli che «creano una finta leggenda per vendere libri» e l’hanno definito re di Roma o samurai. «Una cosa ridicola», insomma. La sua avvocata legge le intercettazioni e lui la interrompe: «Se il samurai è Carminati, il colonnello sarà Macilenti». Macilenti che all’epoca comandava i Ros e investigava su di lui. «Magari fossi io il samurai. Nel libro ‘Suburra’ il colonnello Macilenti mi investe. Devo stare attento quando attraverso la strada», mentre la katana «serve a sfilettare i tonni. Me l’hanno regalata per prendermi in giro, me l’ha regalata Lorenzo Cola», spiega Carminati. Lorenzo Cola, il super consulente che gestiva i grandi affari del gruppo Finmeccanica nel periodo Guarguaglini.
Non sarà il samurai, ma rimane “il pirata”. Se lo dice da solo: «Io sono pirata e anche Buzzi alla fine è pirata come me». Buzzi e gli altri non vanno abbandonati. La presidente Ianniello lo interrompe: «c’era un’intercettazione in cui Gennaro Mokbel parlava con la moglie di un certo pirata». E lui eccolo a smentire: «Ma io a quell’epoca non frequentavo Mokbel, non ero io. Pirata è il mio soprannome potrebbe essere un’altra persona».
Oggi si è ascoltata la filastrocca imparata a memoria: tutto ridotto a un incontro al bar tra vecchi amici e frasi dette davanti a un caffè. Da una parte si autoesalta dall’altra si sminuisce. Le sue condotte si riducono a piccoli fatti da punire con un’ammenda. Però a volte l’ego non si frena e allora sostiene con forza che «se io dico che una cosa non si deve fare non si fa».
E allora sorge spontanea la domanda di quali siano “i tre comandamenti” di Carminati, che dieci forse sono troppi. Domani la filastrocca finirà perché dovrà rispondere ai quesiti dei pubblici ministeri e delle parti civili, anche se la sua avvocata ha subito premesso che in alcuni casi non risponderà perché essendo sottoposto al regime di 41 bis non ha potuto costruire una linea difensiva accurata.
Se così fosse il suo lungo intervento perderebbe di valore e rimarrebbe solo un teatrino. Buono per recitare una parte, quella in cui “il pirata” rimane l’attore principale della “compagnia” di mafia Capitale. Un teatrino dove in verità ne esce una figura un po’ ammaccata e l’ombra del protagonista che fu, solo perché trascinato a sostenere una linea difensiva tutta orientata a far cadere le imputazioni, soprattutto quella di associazione di tipo mafioso. Alla fine lo spettacolo appare un’occasione persa per dirci come realmente stanno le cose. Dal caveau ai giorni nostri.