L’imputato numero uno racconta la sua versione dei fatti, in collegamento con l'aula di Rebibbia dal carcere di Parma in cui è recluso. "Il mondo di sotto funziona meglio del mondo di sopra". E il suo difensore apostrofa i giornalisti: "Cialtroni servili"

“Io sono sempre stato sottoposto a un controllo delle forze dell’ordine. Ho perso il conto. Erano pedinamenti visibilissimi. Io c’ho esperienza di queste cose”. L’imputato numero uno nel processo mafia Capitale inizia a raccontare la sua versione dei fatti. E chiarisce subito: “Io sono un vecchio fascista degli anni ’70 e sono contentissimo di essere quello che sono”.

 Niente diffusione delle riprese per i giornalisti. Per vedere Massimo Carminati parlare per la prima volta in un processo bisogna entrare nell’aula bunker del carcere di Rebibbia. E’ collegato dal carcere di Parma dove è rinchiuso al 41bis.

Jeans, scarpe da ginnastica, maglione nero, se ne sta seduto e consulta in continuazione i fogli sul tavolo. Nel frattempo, prima ancora dell’avvio dell’udienza, sospesa già all’inizio per problemi di collegamento audio, il suo difensore, Giosué Naso, apostrofa una giornalista: “siete una categoria di cialtroni servili”.
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Carminati lo ripete spesso: lui si è sempre accorto che lo seguivano. Lo pedinavano e lui, uno che non ha paura, ha fermato anche i Carabinieri per chiedergli: “Che volete da me”. Peggio, l’hanno seguito persino a Londra. Fin troppo spavaldo nelle sue prime dichiarazioni. Peccato che ormai ogni investigazione, ogni pedinamento sia negli atti del processo e lui sia da quasi due anni al 41bis.

E poi si fa tecnico quando parla, ammettendone l’uso, del jammer: “non serve per le microspie, non sono cretino”, spiega. E ancora: “Se poi le microspie sono delle forze dell’ordine è proprio inutile creare difese. Serviva per inibire l’uso telefonini, nel caso ci fosse stata una persona infedele nell’ambito della cooperativa”. Un manuale all’uso dei disturbatori di frequenza.

Più che dire una verità, anche se di parte, Carminati racconta se stesso. Epopea autocelebrativa di uno che ha fatto tutto alla luce del sole. Ci dice che “se ti spariscono dal pedinamento vuol dire che hai microspie in macchina. Se non vedi teleobiettivi allora hanno messo le telecamere. Tu ti abitui al fatto di essere circondato e te ne freghi. Lo sapevo che al benzinaio stavano lì”. Non riesce a trattenersi dal rappresentarsi un uomo senza paura: “si figuri se avevo paura di un qualunque arresto, certo se li vedevo ci andavo addosso, tentavo di capire”. Uno che sa di un’inchiesta a suo carico e non ha paura: “Leggo 4 giornali al giorno, basta che leggi i giornali e sai tutto”. E va con un vecchio adagio. Ritorna all’articolo dell’Espresso ‘I re di Roma’, l’inchiesta che ha svelato la mafia nella Capitale. “Parlava di traffico di stupefacenti. Prima del dottor Abbate cento persone avevano fatto quell’articolo, ma dal traffico stupefacenti io sono sempre distante e mi sono arrabbiato”.

Il romanzo della vita di un criminale che usa sofisticati strumenti per proteggersi, che ha sempre saputo di essere sotto inchiesta, che odia la droga ma non parla del trafficante romano Roberto Grilli. Insomma uno che frequentava tutte brave persone. Tutti amici cari. Lo sono Fabrizio Testa definito “un fratello” (Testa intanto se ne sta seduto alla gabbia 3, gambe incrociate. Impassibile. ndr) e lo è Riccardo Mancini “un mio caro amico. Dicono che l’avrei minacciato, ma se minaccio Mancini quello mi mena”. 

Si scusa poi con i poliziotti di Ponte Milvio con cui ogni tanto parlava e chiama in causa il ministro Marco Minniti, già sottosegretario con delega ai servizi, e il colonnello del Ros Massimiliano Macilenti per allontanare il sospetto di aver avuto informazioni dai servizi segreti. Del resto se si sono offesi loro, si offende anche lui al solo pensiero di essere considerato dei servizi. Come se ciò lo allontanasse da dover giustificare davanti alla Corte le sue condotte. “Decidetevi o sono un genio del male o sono un cretino”, incalza.

Ricorda di aver incontrato Salvatore Buzzi a metà settembre 2011. A presentarglielo è Mancini a cui aveva chiesto lavoro. Buzzi va da sé è: “persona di spessore altissimo, una persona superiore”. Gli vuole bene [[ge:espresso:inchieste:1.286269:article:https://espresso.repubblica.it/inchieste/2016/10/20/news/il-ricatto-di-massimo-carminati-ecco-la-lista-dei-derubati-nel-furto-al-caveau-del-1999-1.286269]]Carminati anche se “ha fatto una scelta che non posso condividere tagliarsi i ponti con il passato”. E iniziano gli affari: “sono molto bravo con i soldi, riuscivo a strappare i prezzi migliori”. Ma per guadagnare qualcosa non lo può fare ufficialmente: “Ho fatto di tutto per sottrarre i soldi, per non pagare la parte civile per il furto al caveau. Se fossi stato in regola sarebbero serviti vent’anni per pagarlo”.

Il problema semmai è il mondo di sopra: “il fatto che non pagano avviene solo nel mondo di sopra  nel mondo di sotto se fai una cosa la pagano”. Il mondo di sopra che non paga è il comune di Roma e la prova che lui non conosce l’ex sindaco Gianni Alemanno e il suo braccio destro Antonio Lucarelli e che: “se li avessi conosciuti gli sarei andato a buttare giù la porta”.

Il comune l’ha truffato. “Avevano fatto fare i lavori sapendo che non li potevano pagare. Questi sono tutti truffatori, sono tutti sòla. Anche il sindaco dopo di lui è sòla”.

Il suo invece è un mondo diverso. Lui orgogliosamente fascista e orgogliosamente del mondo di sotto. Quello degli onesti perché “non abbiamo dieci comandamenti. Ne abbiamo, Presidente, ma li rispettiamo più di quelli che stanno sopra”.

Le regole dei boss. E boss si sente Carminati perché “se non ci fossi stato io questo processo sarebbe stato una cosa ridicola, questo processo l’ho fatto io”.

Buzzi intanto dal carcere di Tolmezzo se ne sta in piedi, ascolta e ride felicissimo.