È la regione più libera del mondo. ?E con le migliori tutele sociali. Ma per conservarla così bisogna combattere. L'invito ad agire dello scrittore e giornalista francese
“Intima convinzione. Come sono diventato europeo” ?è il nuovo libro del giornalista e scrittore francese Bernard Guetta, esperto di geopolitica (in libreria dal 20 aprile, 176 pagine, 16 euro, Add Editore, traduzione di Anna Bissanti). L’Espresso ne anticipa qui la prefazione per l’edizione italiana.
Non è solo Trump. Non è solo la Brexit. In pochi anni l’Europa e gli Stati Uniti, tutto il mondo occidentale, hanno vissuto una regressione storica. A suo tempo la paventavo. La vedevo delinearsi all’orizzonte nella rinascita dei nazionalismi, nella disaffezione verso l’Unione, nel crescente rifiuto dell’idea stessa di unità delle nostre nazioni.
La temevo a tal punto da scrivere queste pagine in modo quasi febbrile, come chi lancia un allarme o grida “al fuoco”. Ma non avrei mai immaginato che l’incendio potesse propagarsi così in fretta. Non dipende solo dal fatto che un demagogo americano, incarnazione della volgarità, sia riuscito a conquistare la Casa Bianca accusando i messicani di essere “stupratori”, promettendo agli Stati Uniti di difenderli con un muro ed esternando la sua ammirazione per Vladimir Putin, un altro che non si fa tanti scrupoli. Non dipende solo dal fatto che Donald Trump sia passato ormai all’azione, chiudendo le porte dell’America a rifugiati e musulmani, con un voltafaccia repentino alla lotta contro il riscaldamento globale, mettendo in discussione i diritti delle donne, proprio mentre la Gran Bretagna ha deciso di rompere ogni legame con l’Unione. Non dipende neppure dallo stato in cui è ridotta l’unità delle democrazie occidentali, né dal fatto che l’Europa si ritrovi amputata di un Paese a lei tanto necessario, quello che nel XVII secolo le aveva spianato la strada verso la democrazia prima di salvarla dal nazismo nel XX.
No.
La situazione è molto più grave perché nel volgere di pochissimi anni tutti quei vecchi fatali preconcetti che il dopoguerra credeva di aver seppellito per sempre - razza, frontiere, identità religiose, paura dell’altro e ripiegamento su di sé - sono tornati e stanno prendendo il sopravvento. A cominciare dagli Stati Uniti, in pratica non c’è Paese occidentale nel quale l’estrema destra non stia rinascendo dalle sue stesse ceneri e reinventando il nazionalsocialismo, quel misto di nazionalismo e di collera sociale che aveva dato vita al fascismo italiano per poi prosperare rigoglioso in Germania e distruggere l’Europa.
L’inconcepibile è diventato realtà e le ragioni di tale fenomeno sono tanto chiare quanto profonde. Europei e americani, una percentuale sempre più ampia di occidentali, hanno paura di tutto. Hanno paura dei musulmani, considerati senza distinzioni potenziali sgozzatori che la prudenza imporrebbe di respingere in blocco. Hanno paura dei rifugiati africani e mediorientali, quando in verità quegli uomini, quelle donne e quei bambini scappano dal jihadismo, dalle dittature e dalle carestie, aspirano ai nostri valori, anelano alla democrazia e sono nostri alleati contro la barbarie.
Gli occidentali hanno paura di perdere le loro tutele sociali e lo stile di vita acquisito. Si sentono minacciati dalla concorrenza di Paesi i cui bassi salari non sono gravati da oneri, perché permessi e assenze per malattia non sono contemplati e restano esclusiva dei più ricchi. Gli occidentali hanno paura dell’ascesa dei Paesi emergenti, di vedersi sottrarre posti di lavoro, di dover chiudere le fabbriche, di veder sfumare perfino il ricordo della supremazia mondiale conseguita dalla civiltà europea a partire dal Rinascimento, quasi cinquecento anni fa.
Gli occidentali, in sintesi, hanno paura di un declassamento sociale e internazionale e, mentre gli americani si ritirano dal Vecchio Continente per impegnare le loro forze nel contenimento della Cina, gli europei credono di potersi sentire più sicuri al riparo degli antichi confini. Per paura del presente, insomma, fuggono nel passato. Di elezione in elezione, sono sempre più numerosi quanti rifiutano di vedere che, voltando le spalle all’unità delle nazioni, corriamo incontro al declino; che la salvezza sta nel mettere in comune industrie e difesa, e non nel principio del «ciascun per sé» che finirebbe con lo scagliarci gli uni contro gli altri, come un tempo, mentre il caos in Medio Oriente e le nostalgie imperialiste della Russia minacciano tutti, senza eccezioni.
Questa paura è così grande da farci confondere l’essenziale e il superfluo, l’indispensabile aspirazione all’unità europea e le sue difficoltà temporanee, quelle che spingono a vilipendere l’Unione anziché a difenderla. Si tratta di difficoltà enormi. E molteplici. L’Unione ha dovuto allargarsi a tappe forzate perché il comunismo ha fallito e l’Europa centrale se ne è sbarazzata dall’oggi al domani.
La libertà ha trionfato ma, rispetto a ieri, per noi adesso è ancora meno facile parlare e agire all’unisono. Le istituzioni europee sono diventate incomprensibili, proprio mentre le politiche comuni determinano e plasmano le nostre vite, perché l’Europa unita è in mezzo al guado, a metà strada tra mercato comune e unione politica. Non sappiamo più a chi rivolgerci per chiedere conto delle politiche portate avanti nel nome dell’Europa, perché non esiste ancora una democrazia paneuropea e a decidere tutto sono, sempre i dirigenti nazionali, in contrattazioni continue e oscure. “Bruxelles” è diventata il capro espiatorio degli europei perché oggi, a cominciare dalle politiche di austerità, l’Unione si identifica con le politiche dettate da dirigenti nazionali eletti da noi nei nostri Paesi e non dalle sue istituzioni comuni.
“Democrazia”, “libertà”, “sovranità” sono diventate così richiami di adunata dei battaglioni eurofobi. È logico. Lo era già quattro anni fa, quando descrivevo “lo stato dell’Unione”, e lo è oggi, a maggior ragione, perché da allora niente è cambiato. L’unica novità è che l’opposizione nei confronti dell’Unione si è acutizzata e i britannici hanno deciso di uscirne. La cecità è pandemica. Nella loro collera gli euro-allergici non si rendono conto - questo è il vero dramma - che gli Stati del passato non potranno esercitare la loro influenza in concorrenza con Stati-continente che si profilano sempre più vicini e che saranno decisivi per questo secolo, soprattutto davanti al denaro che non conosce più né leggi né confini e adesso può farsi beffe delle potenze nazionali, quelle medie e quelle grandi come Francia, Germania, Italia o Gran Bretagna.
Se vogliamo conservare la nostra sovranità, non dobbiamo guardare al passato. Se vogliamo restare abbastanza forti da scegliere il nostro destino, dobbiamo dotarci di un potere pubblico continentale, di uno strumento comune della nostra, volontà comune senza il quale non esisterebbe più una sovranità popolare da difendere perché, in virtù di un semplice rapporto, di forze, in futuro sarebbero altri a dettarci le nostre politiche. Non è di divisione che abbiamo bisogno in Europa. Abbiamo bisogno semmai di un’Unione sempre più stretta, sempre più politica, ma da tempo le classi dirigenti nazionali non osano promuoverla nel timore di non trovare più maggioranze disposte a rieleggerle. L’idea che si afferma e che dilaga, la grande illusione del momento, è rinunciare all’unità, questa spelacchiata, e rognosa unità dalla quale deriverebbe ogni male. Tutto questo ci conduce alla rovina, a un suicidio collettivo. Stiamo andando in quella direzione non più al passo, bensì al trotto, presto addirittura al galoppo, in una cavalcata folle che sarebbe meglio fermare subito, prima del baratro.
Non è impossibile. La vertigine provocata dalla Brexit e il panico in cui i britannici stessi sono caduti all’indomani del loro referendum mostrano che non tutto è perduto. Ma a tre condizioni. La prima è non impuntarsi a reinventare l’Unione se i suoi cittadini non avranno trovato le motivazioni per ricominciare ad amarla. A tal fine basterebbe sostituire alle politiche di austerità politiche di investimento nel futuro, rimettere a posto i conti pubblici con un rilancio selettivo e non a ritocchi incontrollati di bilancio che frenano le attività, riducono le entrate fiscali e aumentano i deficit invece di diminuirli. Bisogna farla finita con questo liberalismo da ideologi. Bisogna tornare al buonsenso, ridurre la disoccupazione con un processo condiviso di reindustrializzazione e, così facendo, dimostrare l’utilità dell’Unione.
Soltanto dopo, e non prima, si potrà passare alla fase successiva: la rifondazione istituzionale dell’Unione, stabilendo un’unione politica al cuore di una zona di libero scambio, sostenendo un potere europeo nel quale confluisca quello degli Stati membri che vorranno andare più avanti, più rapidamente, costituendo così una sorta di avanguardia. La prefigurazione del continente del futuro. Questo processo sta raccogliendo consensi e potrebbe imporsi in tempi brevi. E il colossale paradosso è che proprio l’elezione di Trump gli ha dato una spinta considerevole con la messa in discussione della continuità dell’Alleanza Atlantica, con il plauso alla “magnifica Brexit”, con l’auspicio che l’Unione si disgreghi perché - a buon motivo - la considera in concorrenza economica e commerciale con gli Stati Uniti.
Di fronte allo scatto rabbioso del nuovo presidente americano che vuole lo smantellamento dell’Europa, l’Unione prende coscienza di essere una forza alla quale basterebbe colmare le inevitabili debolezze della sua costruzione per diventare la più invidiabile delle potenze. Osteggiandola, Trump di fatto valorizza l’Unione, la esalta e la richiama all’azione. Tuttavia, finché le destre e le sinistre moderate non si saranno avvicinate quanto basta da riuscire a infonderle nuovo slancio, a dotarla di una difesa comune e a consolidarne la moneta nell’armonizzazione delle sue politiche fiscali e sociali, l’Unione resterà solo un progetto in attesa di attuazione, lettera morta. Questa è la seconda condizione per la ripresa. La terza è che noi cittadini europei riprendiamo in mano il nostro destino.
Non siamo impreparati. Abbiamo una stampa libera e pluralista, librerie, biblioteche. Dal punto di vista intellettuale siamo ben attrezzati per comprendere la portata dei cambiamenti in corso nei cinque continenti e, se davvero vogliamo cambiare i nostri partiti, i nostri Paesi e l’Europa, se davvero vogliamo “un’altra Europa”, le nostre libertà ci offrono tutti gli strumenti giusti per farlo, invece di lasciare carta bianca a ciarlatani che ci trascinano al declino, interessarci alla politica, esserne protagonisti, rammentare che il benessere e le tutele sociali di cui godiamo, e che abbiamo ottime ragioni di voler mantenere, sono frutto di decenni di lotte politiche e sociali. Dobbiamo renderci conto che l’unità europea non si farà senza ingaggiare battaglie lunghe e dall’esito incerto che esigono una mobilitazione generale. Se non vogliamo rinunciare a ciò che siamo - la regione più libera e più sicura, la meno sventurata e la meglio difesa al mondo - non possiamo aspettare che tutto ci venga servito su un vassoio d’argento: mantenimento delle nostre conquiste sociali, rilancio delle nostre economie, difesa della nostra influenza internazionale.
Sì, dovremo combattere contro gli avversari e i pericoli esterni, contro le illusioni nazionaliste e il rapido sfilacciarsi della nostra unità, contro l’abbandono di questa ambizione comune senza la quale ci troveremmo in poco tempo a rimpiangere la grandezza del nostro passato, nel rammarico insopportabile e doloroso di non averla saputa difendere.