Industrie, immobili, fondi: nemmeno l’Iri dei tempi d’oro controllava un patrimonio così ingente. Ma subisce pressioni dalla politica sulle aziende da finanziare. E oggi, tra imprenditori in fuga e banche in crisi, non può più permettersi di sbagliare

cassa depositi
A Roma solo pochi passi separano due dei più importanti palazzi del potere. Basta uscire da uno dei portoni laterali del ministero dell’Economia e attraversare via Goito per entrare negli uffici della Cassa depositi e prestiti. Raccontano che un passaggio sotterraneo unisca i due edifici e che così, senza dare nell’occhio, sia possibile per i tecnici delle rispettive istituzioni scambiarsi informazioni, suggerimenti, valutazioni. Non c’è però bisogno di cunicoli e tunnel segreti per comprendere perché, in questi anni, il legame fra il ministero e la Cassa si sia fatto sempre più forte.

Un tempo, quando l’industria nazionale era un animale metà privato e metà pubblico, la Cassa svolgeva un ruolo importante ma, dal punto di vista degli equilibri di potere, secondario rispetto ai colossi come l’Iri o l’Eni: amministrare e investire il risparmio che gli italiani affidavano alle Poste. Da qualche anno in qua, però, finita in modo poco glorioso l’era delle privatizzazioni e estinte o quasi le famiglie che governavano le grandi imprese tricolori, la Cassa è stata chiamata a riempire i buchi che si sono aperti nel sistema e che stavano determinando la svendita di aziende ritenute strategiche. Ha assorbito pezzi crescenti d’industria, la rete dei metanodotti di Snam e quella elettrica di Terna, i cantieri navali di Fincantieri e la compagnia petrolifera Eni, il gigante in crisi delle trivellazioni Saipem e le turbine di Ansaldo Energia.


Quanto vale il forziere del Tesoro
La Cassa depositi e prestiti raccoglie e investe il risparmio postale degli italiani. È controllata dal Tesoro con l’82,5 per cento e, per il resto, dalle Fondazioni bancarie. Nel tempo ha affiancato altre fonti di finanziamento e un vasto portafoglio di partecipazioni. Vuole puntare sempre più sulle imprese a alto potenziale di crescita, anche piccole


Quei pochi passi attraverso via Goito sono diventati così un paravento per nascondere l’incapacità del capitalismo italiano di tenersi le industrie e, allo stesso tempo, mascherare una presenza dello Stato nell’economia tornata a farsi massiccia. Lo ha scritto qualche giorno fa il “Corriere della Sera”: i 357 miliardi di attivi patrimoniali detenuti dalla Cassa, e cioè i titoli, le partecipazioni, gli immobili, valgono quattro volte quelli dell’Iri all’inizio degli anni Ottanta, quando l’Istituto per la ricostruzione industriale nato in epoca fascista aveva superato il mezzo milione di dipendenti. Presentando a fine marzo il bilancio dell’anno 2016, il primo interamente sotto la loro gestione, Claudio Costamagna e Fabio Gallia - i banchieri scelti dall’ex premier Matteo Renzi per guidare la Cassa - hanno sottolineato questo aspetto: «Dobbiamo certamente fare utili per garantire un rendimento ai nostri investitori, ma dobbiamo soprattutto sostenere l’economia e aiutarla a crescere», hanno detto.

Da quando i due sono arrivati al vertice, il governo ha ufficializzato il nuovo ruolo della Cassa, quello di Istituto nazionale di promozione, sul modello francese della Caisse des Dépôts e tedesco della Kfw. Eppure, basta un esempio per comprendere i motivi con cui molti, in Italia, ne guardano ancora con perplessità l’operato.

Opinione
Perché la Cassa depositi e prestiti ricorda tanto l'Iri
21/4/2017
Anno 2005: una troppo indebitata Enel decide di cedere la rete elettrica, affidata alla partecipata Terna. A chi farla comprare, evitando che il controllo esca dalle mani pubbliche? Alla Cassa, naturalmente. Sorge un problema: anche Enel è controllata dalla Cassa, e l’Antitrust storce il naso. Soluzione: nel 2010 lo Stato si ricompra l’Enel, dando in cambio alla Cassa una partecipazione in Eni. Ma Eni vale troppo, dunque il compratore deve aggiungere qualcosa per pareggiare il prezzo. La soluzione? Vendere al Tesoro anche le Poste, o meglio, la quota del 35 per cento custodita dalla Cassa. Finita? Neanche un po’. Ottobre 2016, giorni nostri: quel 35 per cento torna indietro. Il Tesoro deve infatti rafforzare il patrimonio della Cassa, ma non ha i soldi per farlo cash. Così le gira quella stessa quota nelle Poste, che si era ripresa qualche tempo prima.

Per gli amanti dei bilanci, potrebbe essere curioso notare che tra andata e ritorno qualcuno non ha fatto un grande affare. Nel 2010, quando era lo Stato a comprare, il 35 per cento delle Poste era stato valutato 3,2 miliardi. Lo scorso autunno, quando la partecipazione è tornata indietro, il valore era sceso a 2,9 miliardi, il dieci per cento in meno. Ma il problema è un altro: c’è una strategia dietro operazioni in apparenza quasi fortuite? Oppure ai governi interessa solo attingere alle risorse della Cassa per risolvere problemi contingenti, senza mollare la presa su aziende che significano posti di lavoro, poltrone, influenza politica?

A vedere l’ultimo decennio, più che quest’ultimo periodo, il sospetto viene. Attraverso una serie di iniziative la Cassa ha allargato a dismisura i propri interventi, acquistando quote di capitale in imprese medio-piccole, concedendo prestiti o garantendo quelli effettuati dalle banche. Ha finanziato fondi gestiti da altri, come F2i o il Fondo italiano d’investimento, che hanno acquistato quote nelle attività più varie, dagli aeroporti alle case di riposo, dalle marmellate alle produzioni per il cinema. Infine, quando Popolare Vicenza e Veneto Banca erano a un passo dal fallimento, è entrata nel Fondo Atlante, nato per cercare di salvarle: un tentativo necessario per scongiurare le conseguenze di un default ma che, alla fine, non ha evitato l’intervento diretto dello Stato.

Ecco la critica più calzante: in una gamma così ampia di obiettivi e di manovre “last minute”, è difficile trovare una logica. Giuseppe Berta, uno dei più noti storici dell’industria italiana, lo spiega con un esempio: «Ha presente quel gioco in cui bisogna unire i punti per ricostruire la figura? Ecco, a dispetto dell’enfasi attribuita alle mosse della Cassa, personalmente fatico a capire che disegno possa venire fuori unendo i punti. Perché nessuno si è preoccupato di definire la strategia e gli interventi necessari per rafforzare davvero l’economia italiana».

Inchiesta
Addio al lavoro: l’industria non c’è più
19/10/2016
In questi anni, la Cassa ha generato profitti interessanti per i suoi azionisti, il Tesoro e le fondazioni bancarie. Al di là dei meccanismi con cui viene remunerata la raccolta del risparmio postale, uno dei segreti di questo buon andamento è nelle partecipazioni che controlla. C’è la rete elettrica nazionale (Terna), quella del gas (Snam), la rete dei pagamenti del sistema bancario (Sia, partecipata al 49,5 per cento), ora sono tornate le Poste e sta investendo nella fibra ottica attraverso Open Fiber, la società costituita con Enel a cui la Cassa ha girato Metroweb. Gran parte di queste attività è rappresentata da infrastrutture che operano in monopolio, e che hanno garantito forti rendimenti.

Può essere questa la strategia non dichiarata della Cassa, la gestione di infrastrutture a vario titolo strategiche, come un tempo erano le Autostrade e le ferrovie? Per Berta, che ha recentemente pubblicato il saggio “Che fine ha fatto il capitalismo italiano?” (il Mulino), non può bastare. Anzi, agli occhi dell’economista, quello della Cassa non può nemmeno essere definito “capitalismo di Stato”, come invece era l’Iri dei tempi migliori: «La storia ci insegna che l’Iri ha funzionato bene, negli anni Trenta o negli anni Cinquanta e Sessanta, quando ha operato come un meccanismo in grado di aumentare l’efficienza, la coesione e la dinamica dell’economia italiana», spiega Berta.

L’esempio è la siderurgia dell’Iri, che con il suo acciaio diede enorme impulso all’industria dell’auto, agli elettrodomestici, alla meccanica, costruendo il sistema economico degli anni del boom. «Se guardo i fatti», continua l’economista, «osservo che in Italia sono quasi del tutto scomparse le grandi imprese, mentre rispetto a un tempo è cresciuto il numero di quelle di medie dimensioni. Come possiamo creare le condizioni per aiutarle a rafforzarsi sempre più, in modo che facciano da traino all’intero sistema? È questa, a mio giudizio, una delle domande che potremmo porci prima di decidere di che genere di intervento pubblico ha bisogno l’Italia».
Claudio Costamagna

Il nuovo vertice della Cassa, Costamagna e Gallia, hanno dato diversi segnali di voler profilare meglio l’operato dell’istituzione che si sono trovati a guidare. Anche per loro ci sono state emergenze a cui non hanno potuto o voluto dire no, come Atlante o come Saipem, l’azienda di impianti per il settore petrolifero in cui sono entrati in un periodo di profonda crisi per evitare che venisse venduta. Ora ci stanno perdendo parecchio ma, come hanno spiegato, se l’Eni non avesse ceduto il controllo di Saipem non avrebbe potuto distribuire i dividendi che ha dato. Così la Cassa, che di Eni è azionista, con una mano ci ha perso, con l’altra guadagnato. Anche sull’Ilva di Taranto la società controllata dal Tesoro ha organizzato una cordata e fatto un’offerta, dicendosi pronta a investire in un’ottica di lungo periodo, se riuscirà a prevalere sugli altri pretendenti, guidati dal gruppo ArcelorMittal. Per il momento, invece, è riuscita a respingere le richieste di aiuto per Alitalia arrivate dalle banche più esposte, restie a finanziare ancora la compagnia.

Al di là di questi casi, l’azione del nuovo vertice è stata articolata in diversi punti. La Cassa ha partecipato all’elaborazione dei progetti per attrarre in Italia i finanziamenti del piano Juncker. Ha dato il via ad alcuni fondi che dovrebbero investire in imprese innovative dal punto di vista tecnologico e dall’alto potenziale di crescita. Ha finanziato alcune aziende che faticavano a trovare credito presso il sempre più imbalsamato sistema bancario, ma che hanno presentato progetti di espansione. L’ultimo esempio è un prestito da 60 milioni del gruppo cooperativo del latte Granarolo, interamente sottoscritto dalla Cassa e utilizzato per lo sviluppo estero, in Nord America e Asia. Infine ha riorganizzato due dei settori più controversi, l’immobiliare e le partecipazioni.

Da tempo il gruppo tenta di valorizzare l’enorme patrimonio di edifici inutilizzati che gli sono stati affibbiati, accumulando più delusioni che altro. Ora, nel bilancio che sarà approvato in maggio dall’assemblea, dovrebbero emergere ingenti svalutazioni, mentre per verificare la riorganizzazione funzionerà occorrerà tempo. Sul fronte delle partecipazioni, invece, i nuovi assetti sono definiti. È nata una società ad hoc dove sono confluite le più discusse, per le quali si sta cercando un compratore. I casi sono noti. C’è la modenese Inalca, che produce e distribuisce carne, nella quale la Cassa nel 2014 investì 150 milioni, dei quali un terzo fu utilizzato non per finanziare la società, ma per rilevarne le azioni dei proprietari, la famiglia Cremonini; c’è la pavese Valvitalia, che produce componenti, in cui la Cassa entrò espressamente per aiutare il titolare, Salvatore Ruggeri, a non essere acquisito, un destino che riguarda chissà quante imprese in Italia; e c’è, ancora, l’indebitata catena inglese di alberghi di lusso Rocco Forte, dove il gruppo pubblico ha investito a inizio 2015 quasi 82 milioni per una quota di minoranza (il 23 per cento), senza che da allora né la Cassa né l’erede del celebre Charles Forte riuscissero a concretizzare una delle tante possibili acquisizioni di nuovi alberghi in Italia.

Quanto la riorganizzazione dell’intera Cassa produrrà effetti concreti, si comincerà a vedere in parte nel bilancio che sarà svelato in maggio, in parte si potrà giudicare nel tempo. Va detto, però, che il sostegno che la Cassa intende ora dare alle imprese più determinate a crescere, anche se piccole, nell’Italia del collasso bancario non può che essere benvenuta. Ricorda Franco Amatori, che insegna storia economica alla Bocconi e ha curato il secondo volume della “Storia dell’Iri”, dedicato al “miracolo economico” (Laterza), che proprio questo era uno degli obiettivi dell’istituto nato nel 1933: «Già in origine il fondatore Alberto Beneduce e uno dei suoi più fidati collaboratori, Donato Menichella, coltivavano il progetto di finanziare le piccole e medie imprese, che riconoscevano come parte fondamentale del tessuto industriale».
Fabio Gallia


Il problema è come individuare gli imprenditori che lo meritano ma, dice Amatori, è un rischio da correre: «Come fare? Bisogna scegliere persone perbene e capaci, per questo la politica deve starne fuori». La lezione di allora, a giudizio dell’economista, vale ancora: la rovina dell’Iri fu quando le holding, dove le decisioni della politica pesavano di più, presero il sopravvento sulle società industriali che controllavano. Si perse l’obiettivo di fare profitti, mirando al consenso. E allora, la Cassa, che possiede le quote in Eni e Poste ma lascia al governo la scelta dei manager e la governance? «Una cosa pessima. Il governo deve indicare il percorso da seguire, ma poi stare fuori dalle aziende». Il passato, come sempre, insegna. Perché l’Iri e l’industria pubblica, dopo aver esercitato un ruolo fondamentale, finirono travolti dalle perdite. Un monito fondamentale, per evitare che il nuovo capitalismo di Stato ripeta gli errori di un tempo.