L'ex premier ritorna segretario dei democratici con percentuali oltre le previsioni. Ma non scioglie i nodi di domani: legge elettorale, alleanze, durata del governo Gentiloni

Stravince Matteo Renzi. Nel mezzo di un anno straordinario e di votazioni senza precedenti - la Brexit, l'elezione di Donald Trump, il referendum costituzionale, il primo turno delle presidenziali francesi di una settimana fa che ha cancellato il tradizionale bipolarismo tra la gauche socialista e la destra repubblicana-gollista - questa giornata di primarie del Pd, senza traumi, contestazioni, o quasi, senza polemiche, senza sorprese, assomigliano a una tranquilla giornata di democrazia.

Una giornata di normalità, con un risultato molto importante per il leader in cerca di rivincita dopo la sconfitta del 4 dicembre ma non travolgente come in altri momenti, in cui una base elettorale di militanti e elettori sceglie il suo leader. Lui, Matteo Renzi. Ancora tu (ma non dovevamo vederci più?). «Di futuro ne merito un altro di nuovo», ha scritto il leader a seggi appena chiusi citando Ligabue. Di nuovo. Again, già. Con l'obiettivo di make great again, trumpianamente, il suo partito, il Pd, e soprattutto se stesso.

Tre anni e mezzo fa, l'8 dicembre 2013, le primarie che elessero Renzi furono una rivoluzione. Il compimento di una spettacolare conquista del potere. Nel 1994 Berlusconi aveva fondato un partito e lo aveva condotto alla vittoria elettorale in sessanta giorni, ma neppure lui era riuscito nell'impresa di Renzi, la scalata dall'interno di un corpo ostile, l'Opa sulla vecchia Ditta post-comunista. «Non finisce la sinistra stasera, finisce un gruppo dirigente della sinistra», esultò il vincitore, trascinato dai voti delle regioni rosse e dei quartieri che erano stati le roccaforti del vecchio partito comunista.
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Le primarie di tre anni fa erano state un voto destabilizzante contro la stabilità, per il nuovo. Infatti l'equilibrio politico fondato sul governo di Enrico Letta benedetto dal Quirinale durò pochissimo. «Queste primarie avevano un carattere referendario. Se per caso c'è qualcuno che pensava a un ritorno della proporzionale e brindava, se c'è qualcuno che pensava di stabilizzare le larghe intese, i burocrati dello Stato, i professionisti dell'inciucio, beh, vi è andata male!». Così parlava Matteo Renzi l'8 dicembre 2013, appena eletto segretario del Pd da un milione e ottocentomila votanti. Un uragano venuto a scompigliare la politica italiana, dopo una campagna lunga un anno: dalle primarie perdute contro Pier Luigi Bersani per la premiership del centrosinistra al trionfo, in mezzo la non-vittoria di Bersani alle elezioni, i 101 franchi tiratori contro la candidatura di Romano Prodi al Quirinale, la drammatica riconferma di Giorgio Napolitano, le larghe intese con Berlusconi abbracciato al governo di Enrico Letta...

L'elezione di Renzi sembrava allora la fine della palude. Fu un voto di cambiamento, di speranza, una pagina di storia che si voltava. «Gli italiani sono migliori della loro classe dirigente», disse il Rottamatore. Quello di stasera è un voto di stabilità. Una richiesta di rassicurazione, in un mondo impazzito e in un'Italia che in questi anni non è cambiata (abbastanza) e non è migliorata (non abbastanza). È un voto di argine verso quello che potrebbe arrivare, che un pezzo di società teme, la vittoria del Movimento 5 Stelle alle prossime elezioni o almeno il primato, l'affidarsi a Renzi come una diga, una barriera verso un nuovo che non piace.

Renzi tre anni fa era il nuovo, oggi è il di nuovo: il rieccolo, la replica, il remake. Ieri era la conquista, oggi la conferma, come dimostra il podietto montato nella sede del partito, in mezzo al balcone di largo del Nazareno, la sede dove nel 2013 a malapena aveva messo piede.

Oggi, invece, Renzi è il padrone assoluto del partito. Senza la minoranza di Bersani e D'Alema. E con i capicorrente che hanno giocato la partita per condizionarlo che devono rivedere i loro piani. Il Pd, oggi più che mai, è il PdR, interamente renzizzato. Ma la sua nuova partita comincia ora, perché dei futuri progetti si sa poco o nulla.

La legge elettorale: il Pd renziano si batterà per un sistema maggioritario o per la proporzionale? Le alleanze: Renzi userà questa forza per ricucire, ricostruire una coalizione di centrosinistra, come richiede Giuliano Pisapia, o per andare da solo e costruire dopo il voto un'alleanza con chi ci sta? Il programma elettorale: un progetto di Paese che vada oltre la pura riaffermazione personale? E che fine farà il governo di Paolo Gentiloni, leale con Renzi al punto di averlo sostenuto esplicitamente, ma ora stretto nel ruolo scomodo del governo amico, pura emanazione del partito e del suo leader?

Nelle parole pronunciate a vittoria incassata Renzi non scioglie nessun nodo. La coalizione? «Si farà con i cittadini, non con presunti partiti che non rappresentano neppure se stessi». La data del voto? «Non sappiamo quando finirà la legislatura», e appare l'ammissione che la scadenza del 2018 è tutt'altro che certa. Solo l'avversario è certo, il Movimento 5 Stelle, «l'alternativa al populismo è il popolo». Ma è la fotografia di uno stallo che il risultato del 30 aprile non sblocca, nell'impossibilità di una doppia restaurazione. La restaurazione del sistema dei partiti modello Prima Repubblica: quei partiti non esistono più, oggi la proporzionale condurrebbe l'Italia al disastro, a una campagna di tutti contro tutti, come dimostra la contesa tra Salvini e Di Maio sulla pelle dei migranti. E la restaurazione del potere personale di Renzi, modello pre-referendum.

La sconfitta del 4 dicembre è la grande assente di una serata di festeggiamenti tra renziani di nuovo e di vecchio conio. Nelle ore della vittoria si rivede l'affollamento di notabili, ministri, sottosegretari (a partire dalla di nuovo loquace Maria Elena Boschi) sotto il palco del vincitore, quello che era mancato nell'amarissima serata della sconfitta referendaria. Il podietto montato in fretta e furia al Nazareno quasi crolla sotto il peso di Morani e Moretti, di Gennaro Migliore, degli aspiranti candidati. Eppure affidarsi al leader serve per dominare il Pd ma non basta più, forse, per vincere le elezioni vere. «Serve un nuovo inizio», invoca il segretario rieletto. E in questo scarto c'è l'insolita prudenza di Renzi, il dubbio del vincitore, lo avrebbe chiamato Pietro Ingrao.

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