Nelle caverne a cercare la felicità

Un archeologo prova a vivere come gli uomini della preistoria. E scopre che il mondo primitivo ha qualcosa da insegnarci

Mi sono imbattuto nella storia singolare di un professore di Archeologia del Washington College, Bill Schindler, probabilmente l’archeologo più famoso del mondo perché nel 2016 ha partecipato insieme all’antropologa Cat Bigney a un reality assai singolare “The great human race” trasmesso da National Geographic. L’obiettivo dell’esperimento era sopravvivere in condizioni estreme in luoghi lontani da insediamenti umani. Bisognava farcela da soli a trovare acqua e cibo, ad accendere il fuoco, a costruirsi un riparo sicuro. Non tutto è filato liscio, ma del resto vivere come gli uomini delle caverne non è un gioco da ragazzi.

La rivista americana The Atlantic, qualche mese fa ha dedicato a Bill Schindler un articolo che pone una domanda e dà marzullianamente al contempo la risposta: cosa porta un archeologo che insegna antropologia al Washington College a dare ai propri studenti nozioni sulle tecniche di sopravvivenza? Perché è importante non solo studiare ma addirittura sperimentare come vivevano gli uomini delle caverne? Qui viene in aiuto Lévi-Strauss secondo cui non è detto che il progresso tecnologico faccia il paio con standard di felicità più alti. Migliora la qualità della vita in alcuni suoi segmenti, ma la vita di tutti i giorni, la routine quotidiana, le nostre funzioni vitali vengono costantemente mortificate.

Bill Schindler dice due cose che mi hanno fatto riflettere. La prima parla di noi, la seconda la troverete alla fine di questo editoriale e parla del mondo in cui viviamo. Schindler dice: «Il vero valore di tutto questo non è provare a vivere come l’uomo preistorico, ma applicare ciò che impariamo dal passato ai problemi contemporanei». Sembra una frase quasi scontata e nemmeno va letta pensando a quanto si possa essere soddisfatti per essere scampati a un pericolo, guariti da un’infezione, aver trovato l’acqua o aver acceso il fuoco in una notte gelida. Questa frase ha un valore più profondo che è poi il motivo per cui leggiamo, studiamo e andiamo alla scoperta di mondi in cui quello che speriamo di trovare è la felicità. E se la felicità intesa come stato duraturo non esiste, quello che esiste e ci rende felici è la sua perenne ricerca. E quindi applicare ciò che impariamo dalla vita dell’uomo delle caverne alla vita contemporanea significa considerare la vita come una continua concatenazione di problemi da risolvere e non semplicemente da eliminare. «Non si possono scorgere e riconoscere che possibilità, sempre individuate e singole; possibilità di fronte alle quali l’uomo è incessantemente chiamato alla decisione e alla scelta», scriveva Nicola Abbagnano nel suo “Esistenzialismo positivo”. Decisione e scelta, questo insegna la vita in condizioni estreme, a collegare ogni singolo atto a quello successivo perché niente è senza significato o conseguenza.

Da studente universitario mi appassionai agli studi di Ernesto De Martino che setacciò il sud Italia e ce lo raccontò sotto una luce inedita. Tra i suoi libri più preziosi “Sud e Magia” e “La terra del rimorso”. Semplificando, De Martino spiegò come la magia e le danze rituali avevano il compito di colmare quel vuoto di razionalità che esiste tra l’infelicità e la vita. Alla malattia, al dolore, all’ignoranza, all’incapacità di comprendere il presente esistono degli antidoti. Questi antidoti sono quanto di più vicino ci sia alla ricerca della felicità, che non sempre, anzi quasi mai, viene raggiunta. Ed ecco perché Schindler insegna ai propri studenti tecniche di sopravvivenza: perché è persuaso che nel tempo in cui stavamo peggio qualcosa si possa salvare e quel qualcosa ci può aiutare a stare meglio oggi.

E mentre negli Stati Uniti al college si insegna ad accendere il fuoco con pietre e legno, mentre si costruiscono utensili per macellare animali, il presidente Trump conferma l’uscita del Paese dagli accordi di Parigi e qui veniamo alla seconda considerazione di Schindler che parla del mondo in cui vivevano i nostri antenati, che è lo stesso in cui viviamo oggi noi e che quindi soggiace alle stesse identiche regole: «In passato, quando venivano uccisi troppi animali o raccolte troppe piante le persone vedevano immediatamente l’impatto che questo spreco aveva sull’ambiente». Vedevano l’impatto e imparavano ad agire diversamente perché l’alternativa era la morte per mancanza di risorse. Su questo vale la pena riflettere.

LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Siamo tutti complici - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso