Così con le cifre sull'occupazione è possibile fare qualsiasi propaganda
I dati di chi ha un lavoro fanno litigare ogni mese i partiti che si attaccano a uno zero virgola o a una revisione. Ma la ripresa resta ancora oggi debole. Parla l'economista Enrico Giovannini
Ormai da diversi mesi i dati statistici sul lavoro mettono a dura prova la propaganda dei politici. Marzo: l’occupazione è stabile rispetto a febbraio ma il tasso di disoccupazione risale all’11,7 per cento, un decimo di punto più di febbraio. Renato Brunetta, Forza Italia: «L’Istat certifica il fallimento delle politiche del governo». Aprile: gli occupati aumentano di 94 mila unità. Giuliano Poletti, ministro del Lavoro: «I dati sono la prova migliore dell’efficacia delle politiche del governo». Maggio: gli occupati purtroppo ridiscendono, 51 mila in meno, e torna a crescere anche il tasso di disoccupazione (all’11,3 per cento). Matteo Salvini, Lega Nord, stenta a trattenersi: «Gentiloni e Renzi a casa, subito!». Giugno: aumenta il numero di chi ha un lavoro, e scende pure la disoccupazione, compresa quello giovanile (comunque al 35,4 per cento). Poletti torna a respirare: «Dati incoraggianti».
Se una sequenza così altalenante vi sembra difficile da spiegare, sappiate che non è tutto. Alle stime provvisorie dei dati mensili provenienti dalla cosiddetta “Indagine sulle forze lavoro” dell’Istat seguono poi le revisioni, i riepiloghi trimestrali e i dati dell’Inps sul numero dei contratti. Una pioggia statistica, in cui i commentatori prêt-à-porter sguazzano, perché esiste sempre una cifra apparentemente utile per sostenere qualunque tesi.
Enrico Giovannini, economista con un forte curriculum lavorativo e di studi all’estero, presidente dell’Istat dal 2009 al 2013, ministro del Lavoro nel governo di Enrico Letta, non si scompone di fronte a questi alti e bassi. Osserva che, purtroppo, si tratta di oscillazioni normali quando la ripresa della produzione e dell’occupazione è ancora modesta e, inoltre, riguarda solo una parte del sistema economico e del Paese. Spiega: «Le forze politiche tendono a concentrarsi di mese in mese su uno spostamento di uno zero virgola qualcosa, senza vedere che - ancora oggi - stiamo toccando con mano una tendenza che si era vista fin dallo scoppiare della prima crisi, quella del 2008».
Giovannini si riferisce al fatto che, dopo la tempesta finanziaria seguita al fallimento di Lehman Brothers, le imprese manifatturiere più legate alle esportazioni si sono riprese in fretta, tornando a crescere in termini abbastanza rapidi anche in termini occupazionali. «Íl rapporto sulla competitività che l’Istat elabora ogni anno ha fotografato questo fenomeno fin dall’inizio, assieme al dramma di quelle imprese che operavano sul mercato interno. Alcune di queste, dopo un po’ di tempo, sono riuscite a riorganizzarsi, seguendo le orme delle migliori e puntando sull’export. Le altre, invece, si sono inabissate», spiega l’economista, ricordando anche che il peso specifico della manifattura sul totale dell’economia italiana è pari soltanto al 18 per cento circa. Se si aggiunge che non tutti i settori industriali corrono, si capisce come la crescita complessiva sia così modesta. C’è poi un altro aspetto del problema: il numero di occupati è vicino al livello pre-crisi di 23 milioni di persone, a fronte di 2,8 milioni di persone disoccupate, un numero più che doppio del minimo di 1,3 milioni segnato nell’aprile 2007.
A spiegare l’apparente divergenza fra questi due dati, dice Giovannini, concorrono altri fattori. C’è la crescita della popolazione generale e c’è l’allungamento dell’età per andare in pensione, che ostacola i giovani pronti a entrare nel mondo del lavoro. Pesa anche il crollo degli investimenti in costruzioni, che ha bruciato più di mezzo milione di posti in un settore cruciale per assorbire persone meno qualificate, che non trovano spazio in altri settori. E poi c’è la cautela delle imprese, che messe di fronte a un futuro incerto procedono con grande prudenza, come mostra l’immediato “sboom” delle assunzioni a tempo indeterminato, una volta ridotti gli incentivi che avevano contribuito a far crescere il numero dei contratti stabili.
Qui si affronta una delle questioni più calde, dal punto di vista politico: l’abolizione – o quanto meno il depotenziamento – delle garanzie dell’articolo 18, che proteggevano dal licenziamento i dipendenti delle aziende con più di 15 addetti.
Ecco il punto: l’addio all’articolo 18, ha cambiato la struttura produttiva delle imprese italiane, facendo loro superare quella soglia dimensionale che un tempo era ritenuta invalicabile da molti imprenditori? Giovannini - fondatore dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (Asvis), un’associazione che si batte per diffondere gli obiettivi di crescita sostenibile formulati dalle Nazioni Unite per combattere gli attuali squilibri, conosciuti come Agenda 2030 - dice che per il momento le certezze sono poche. «Guardando la distribuzione delle aziende pre-riforma per numero di dipendenti, si vedeva un addensamento anomalo di imprese poco prima della soglia dei 15 dipendenti. Si trattava però di circa 20-30 mila imprese: non tantissime, in un Paese dove complessivamente se ne contano circa 4 milioni», analizza Giovannini. «Ecco: per quegli imprenditori che si fermavano poco sotto i 15 dipendenti, è probabile che la vita sia cambiata parecchio e l’Inps, nel suo ultimo rapporto, ha dato le prime evidenze di questo fenomeno».
Ne ha parlato anche il presidente dell’istituto previdenziale, Tito Boeri, citando un dato: dalle 8 mila imprese con più di 15 mila dipendenti che si contavano alla fine del 2014, dopo la riforma del contratto di lavoro il numero è salito a 12 mila. In un’intervista al quotidiano Sole 24 Ore, l’economista che guida l’Inps non ha avuto dubbi a collegare i due fenomeni, osservando che l’altro fattore in gioco in quella fase - la temporanea riduzione dei contributi previdenziali a carico delle imprese - era prevista sia per le aziende sotto “quota 15”, sia per quelle che stavano sopra. Giovannini, però, su questo punto rimane molto cauto: «Tutto sommato, ritengo che siano altri i fattori che contribuiscono a frenare la crescita dimensionale delle imprese, come ad esempio il desiderio di tanti imprenditori di mantenere il controllo dell’azienda familiare. Per cambiare le cose, dunque, serve molto di più».
Che fare, allora, per ridare slancio al lavoro? E magari, oltrepassare con decisione quella barriera di 23 milioni di occupati che, in Italia, abbiamo passato solo di poco nel 2008? Giovannini indica tre strade. La prima è cercare di accelerare il tasso di crescita dell’economia e, così, convincere gli imprenditori a mettere da parte la prudenza di oggi, facendo loro percepire un’Italia che si è rimessa davvero in moto.
La seconda è rilanciare il settore delle costruzioni, non cementificando in maniera selvaggia ma riqualificando edifici e città, un’attività che crea posti di lavoro a più alto valore aggiunto. Il ragionamento è legato al tipo di interventi che una riqualificazione richiede, rispetto a una semplice gettata di cemento armato: «Riqualificare significa coinvolgere maggiormente gli artigiani, oppure gli esperti di efficienza energetica, un’esigenza oggi imprescindibile: tutte professioni qualificate che, in generale, durante questi anni di crisi hanno sofferto meno».
La terza strada per rilanciare l’occupazione è, infine, favorire l’affermazione di nuovi imprenditori, più giovani, maggiormente abituati a lavorare con le nuove tecnologie, che possano dare una scossa al nostro mondo produttivo, portandolo nel futuro. «Mi dicono spesso che in Italia le start-up non mancano», racconta l’economista, «ma il problema non è lo “start”, quanto piuttosto passare alla fase di “up”, aiutandole a crescere. Ecco, qui possiamo fare molto di più».