Più il mondo diventa finto, più il posto più finto del mondo ne diventa il centro.

E il centro del mondo di oggi è Las Vegas.

Per questo motivo qualche mese fa ho deciso di approfittare di una delle infinite e inutili offerte che riempiono come spazzature virtuali di un mondo virtuale le nostre email.

Tra parentesi. Non so se avete notato lo strano meccanismo che fa sì che il rapporto con le offerte pubblicitarie che arrivano via email sta diventando giorno dopo giorno più morboso. Io l’ho notato. In molti mi hanno confermato di averlo notato: le email spazzatura occupano il terzo grado gerarchico nel mondo della corrispondenza elettronica. Al primo posto ci sono quelle sensate e gradite, che ci fa piacere ricevere, e che sono prossime alle lettere cartacee, o alle cartoline, di un tempo ormai lontano (oggi per posta cartacea arrivano soltanto pubblicità, bollette da pagare e rogne giudiziarie). Al secondo ci sono lettere sensate ma non particolarmente gradite, oppure inutili e incomprensibili se non decisamente sgradite. Al terzo ci sono infine le email delle offerte pubblicitarie. A parte quelle più creative, che finiscono purtroppo direttamente nello spam (luogo che consiglio a tutti di frequentare perché vera corte dei miracoli di un immaginario della truffa a tratti di una comicità irresistibile, a tratti più melanconicamente incline a farci riflettere sulla vacuità delle umane cose) nella casella principale arrivano le promozioni più, come dire, ortodosse, e che di solito non guardiamo. Ecco, il senso di quanto volevo esprimere nella parentesi è che la gerarchia tra i tre ordini di lettere che ho descritto sopra è piuttosto rigido. Prima leggiamo le lettere che intuiamo, dal mittente o dall’oggetto, come gradite e utili, poi siamo in qualche modo obbligati a leggere le seconde e infine ci restano le pubblicità. Nei giorni in cui capita che non arrivino le prime (facile) e neanche le seconde (meno facile) leggiamo le pubblicità. E se non riceviamo neanche pubblicità (difficilissimo e causa di ansia di abbandono e senso di solitudine) andiamo a controllare lo spam.

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Chiusa la lunga parentesi generata da quella che Lacan definisce la catena dei significanti, e che conduce l’umanità ma anche i redattori degli articoli più prestigiosi a menar per l’aia il cane del linguaggio, torno ad uopo all’oggetto dell’articolo e dell’email che mi ha portato prima a Las Vegas e poi qui, a questo punto del racconto, nel quale stavo raccontando che, trovata una pubblicità di un volo andata e ritorno per Las Vegas, ho deciso di partire per quella che era e rimane la città più finta del mondo.

A Las Vegas c’ero già stato una ventina di anni fa, quando c’erano ancora dei grossi pezzettoni di realtà nel mondo, prima che Orwell vedesse superata ogni sua più estrema profezia, prima che perdessimo completamente la via (notate la rima, sapientemente ricercata, tra “profezia” e “via”) della ragione, sostituendola con la sua rappresentazione fantasmagorica e frattalica.
Ma torniamo (con la mente) a Las Vegas.

Stavo ingranando il racconto del mio ultimo viaggio a Las Vegas, vent’anni dopo, avevo già inserito nella narrazione, la prima volta che ci andai. Del primo viaggio ricordo innanzitutto l’aspetto di oasi nel deserto che dall’aereo si osserva mentre ci arrivi, un’oasi che sembra una sorta di Disney per adulti attorno al quale sono accampate migliaia di casette di anziani che scelgono di trascorre gli ultimi anni di vita in qualcosa di molto prossimo, nella forma, a Paperopoli: villette tutte uguali, graziose e ben curate, con un tocco di surreale che trasforma in cartone animato il paesaggio. Al centro, ovviamente, Las Vegas. Il confronto con Paperopoli può essere mantenuto in quanto al centro della città inventata da Walt Disney ci sta un deposito di soldi, che è quello celeberrimo di Zio Paperone, e Las Vegas, che sta al centro del sogno di Las Vegas, ci sta la città stessa che è in realtà un deposito di soldi. A Las Vegas si va a spendere.

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Ma io, che di mestiere faccio “l’intellettuale alternativo e fuori dal sistema”, ci vado per riflettere e sviluppare considerazioni sulla degenerazione del mondo contemporaneo ma anche, per non apparire come intellettuale troppo radicalmente fuori dal sistema (che mi farebbe completamente fuori e dunque non potrei più pubblicare né libri né articoli su giornali prestigiosi attraverso i quali potermi poi mantenere) per apprezzarne le suggestioni.
E di Las Vegas la cosa più suggestiva è sempre stata è rimane la strip, o Las Vegas Boulevard. Tutta la città in un colpo d’occhio. Lo sguardo che si perde nella processione di edifici costruiti per racchiudere come una matrioska del tardo sogno americano e dunque globale, ogni sogno possibile.

Da vero flâneur, emulo tardivo di un Baudelaire o di un Benjamin abbondantemente fuori luogo ma anche, in sintonia con Marc Augé (riorientato quindi dalla consapevolezza di trovarmi in un non luogo) passeggiare per la strip, ossia la strada che attraversa l’impero del divertimento, ammirando tutto quello che, specialmente la sera, quando la vita si fa più intensa, si accende di quanto rimane, oggi, di un senso della trasgressione, che nell’era in cui la trasgressione è un imperativo è ben flebile cosa, che subito si fa nostalgia.
Trasgressione ormai museificata.

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Che riguardi qualsivoglia dei due aspetti sui cui si regge(va) l’impero delle illusioni perdute (sesso e gioco d’azzardo) Las Vegas ne è oggi la permanenza del ricordo e lo stesso tempo la sua residuale vitalità.
Per chi non si arrende di fronte al fatto che tutto è cambiato per sempre o semplicemente non se n’è accorto o, caso ancora più complesso ma estremante comune, se n’è accorto ma non vuole convincerne, Las Vegas è il luogo più bello di un mondo che sarebbe voluto essere egemone e forse lo è stato.

Las Vegas è una specie di sintesi commerciale delle icone pop dell’architettura e dell’immaginario che questa trasforma in luoghi da frequentare, da “assaggiare” (e non da vivere) nelle sue forme differenti, a zig zag nel tempo e nello spazio, tra il lago di Como e le Piramidi, tra l’iperbole dell’ultramoderno dell’Aria Sky Hotel e The Venetian, con il suo finto Canal grande e la sua perfetta venezianità di plastica, con continue apparizioni di “mondo” (metto “mondo tra virgolette seguendo l’insegnamento di Noam Chomsky, che nel suo libro “Chi sono i veri padroni del mondo” distingue appropriatamente tra “mondo” – quello di chi ne plasma la forma secondo il proprio profitto – e mondo reale – senza virgolette, immediato).

Torniamo alla mia passeggiata per Las Vegas lungo the strip. Il flusso delle auto è già colore. Auto di ogni tipo ma specialmente di ostentato lusso. Con decine di limousine con i vetri oscurati che sfrecciano non per vedere ma per essere viste senza che si sappia cosa succede dentro, lasciando che chi le guarda da fuori possa immaginare che dentro accada quello che chi sta dentro immagina si immagini fuori, in un infinito gioco di specchi d’ostentazione e di emulazione.

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Non trovate tutto questo commovente?
Ecco, camminare e abbandonarsi al flusso di questa sorta d’inventario di storia secondo Andy Warhol, a calco del pensiero dell’americano medio, con cascami di ogni cultura che nel corso dei secoli si sia mostrata magnificente.
Un antico modo di sognare, ormai.
Già vent’anni fa non era così.
Las Vegas (noi usiamo la stessa tautologia per Sanremo tutt’oggi) era Las Vegas.
Oggi appare, o almeno mi appare, come una specie di circo che declina verso quello che del circo Federico Fellini ha saputo cogliere, una permanenza eccellente di una tradizione che sta sfumando.
Come in Viale del tramonto (o addirittura in Che fine ha fatto Baby Jane?) Las Vegas continua a volgersi al proprio glorioso (o infame, per chi è moralista) passato con maniacale perizia nell’arte della riproposizione.

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Magica aberra zione di un classico che nasce come imitazione del classico popolare ad ogni latitudine e longitudine (oltre che, ma questo oltre che fondante è infinitamente secondario), luogo di riciclaggio di soldi sporchi, attività fantasmatica perché si sa, i soldi non sono mai sporchi e i sogni acquistati restano sogni anche se il negozio in cui li hai acquistati non è propriamente seguace della regola francescana o dei dettami della Chiesa ortodossa.

Las Vegas è l’avventura prefabbricata e perfettamente gestita. Le “ballerine” (che ballerine non sono affatto, e ci mancherebbe) si ordinano direttamente in camera chiamando legali e sfavillanti agenzie.

Mi piace sfogliare i dépliant pubblicitari - distributori automatici sono piazzati ogni quindici metri sulla strada principale - che illustrano, come in un coloratissimo fumetto, le gioie del sesso allegro (retaggio della Parigi degli anni Dieci senza l’aura irripetibile di una Pigalle che a Parigi non esiste più e qua permane come museo, appunto, di uno dei tanti paradisi perduti del moderno).

Las Vegas è il più grande museo del mondo, dicevamo, l’ultimo impero in pillole fondato sull’accumulazione. L’impero coloratissimo dei soldi, l’anima candida di Wall Street.

In quanto impero dei soldi, regna la quantità. E se soldi ne hai tanti, di ballerine ne puoi invitare sei, dodici, ventiquattro, basta pagare. Il brivido della trasgressione segue le regole della contabilità. Si paga in contanti ed è tutto falso e regolare. A Las Vegas si paga anche per rovinarsi, e rovinarsi è una forma estrema di godimento, forse la più alta, quella in cui stiamo incappando tutti, volenti o nolenti, senza bisogno di prendere l’aereo per il Nevada. Questo è il potere immenso dei casinò, di locali come il Paris (con la sua bella, più bella dell’originale Torre Eiffel al centro) o il Caesar con i suoi cinque edifici ispirati all’antica Roma e dove si può entrare da miliardari e uscire da poveri assoluti, nel lusso che abbaglia di un sogno finito. Non è la nostra misera rovina quotidiana con i Gratta e vinci.

Stiamo parlando di Las Vegas.

La città che amo.