Il “padrone” Usa non c’è più. Così, in mancanza di un protettore di lunga data, il nostro Paese deve trovare nuove strategie per gestire le crisi: dagli sbarchi dei migranti alla Libia

Paolo Gentiloni con il primo ministro libico Fayez al-Sarraj
Non c’è più il deus ex machina straniero che ci toglieva dai guai quando necessario. Ora che siamo in una fase di prevalenza degli interessi nazionali intravediamo sì quali siano i nostri, però non abbiamo l’abitudine, la forza e le ricette per perseguirli. Possiamo certo dare tutte le colpe alla Francia sorellastra e non sorella (benevola con noi in effetti non è) ma così nascondiamo una strutturale debolezza quando ai guai si rimedia cominciando a dare il nome giusto alle cose.

Il disastro della nostra politica nel Mediterraneo è la cartina di tornasole esatta della nostra attitudine gregaria, tanto più grave perché più prossima. Un diplomatico di lungo corso al Palazzo di Vetro di New York racconta come l’errore fatale fu il patto “do ut des” con gli americani all’epoca della presidenza di Barack Obama: noi ci impegnavamo a prolungare la nostra presenza militare in Afghanistan, in cambio Washington ci avrebbe tolto le castagne dal fuoco nell’ingovernabile Libia del dopo-Gheddafi.

Riflesso dell’epoca in cui eravamo docilmente vassalli in cambio di protezione. Ma Obama era stato costretto obtorto collo a entrare nella mischia africana dalla spregiudicata iniziativa anglo-francese (i bombardamenti del 2011 che diedero inizio all’implosione del Paese). E, terminato il mandato, ha passato il testimone a uno che se ne infischia della Cirenaica e della Tripolitania, tantopiù dei migranti che invadono le coste del Meridione.

Ci siamo anche illusi di poter guidare una missione “sotto l’egida delle Nazioni Unite”, come ripetiamo con formula trita, sperando che il cappello, anzi l’elmetto blu, di una forza internazionale possa coprire ogni difficoltà. Ma poi ci voltiamo e nessuno segue. Anche per la nostra insipienza. Poteva toccare a Romano Prodi, nome illustre sponsorizzato anche da Ban Ki-moon, allora segretario generale Onu, ma è stato silurato (fired!) da Matteo Renzi per gelosie di partito. Stavolta avevamo qualche chances con Lamberto Zannier, il meno italiano dei diplomatici italiani, vasta esperienza in organismi internazionali (da ultimo all’Osce), tenuto in palmo di mano dal nuovo segretario generale Antonio Guterres.

Non risulta che la Farnesina abbia sostenuto adeguatamente il campione nazionale. Per quel che conta ormai una Farnesina stretta tra l’accentramento di suoi ex poteri nelle mani di Palazzo Chigi e la latitanza di un ministro, Angelino Alfano, più occupato a costruirsi la nuova cadrega con un ri-salto spettacolare nel centro-destra in vista delle elezioni che a risolvere gli annosi problemi della patria. Del suo passaggio ai vertici della diplomazia italiana resterà il video, virale su youtube, in cui, arrivato in ritardo a un vertice con la commissaria agli Affari Interi Ue Malmstroem,si giustifica con il seguente inglese: “Sorry for the delay, but the uaind... ehm”, e via un un mulinar di mani a scimmiottare un aereo sballonzolato dal vento.

Niente Zannier e avanti il libanese Ghassam Salamé, di levatura indiscussa, francese per cultura (ha avuto anche la Legion d’onore) però molto amico, per la testimonianza dell’ex ambasciatore Ino Cassini, dei nostri servizi segreti con cui ha una lunga consuetudine anche per via della nostra missione nel Paese dei Cedri che data dal 2006. Pare inverosimile, a chi ne conosce il profilo, che la sua missione a Parigi quando è stato sancito l’accordo Haftar-Sarraj fosse ignota ai nostri 007.

E ci si chiede, al nostro ministero degli Esteri, come mai non abbiano avvertito, se non il povero Angelino, almeno il presidente del consiglio Paolo Gentiloni, che si è detto a posteriori all’oscuro del vertice. Problemi nella catena di trasmissione delle informazioni? Gioco delle parti? Sta di fatto che Emmanuel Macron, se non ha risolto la guerra in Libia perché dietro la stretta di mano tra i belligeranti per ora non c’è niente, ha incassato un formidabile dividendo d’immagine a scapito di un’Italia schiaffeggiata in mondovisione. E ha proseguito sulla strada tracciata da Nicolas Sarkozy quando lanciò i suoi aerei a bombardare Gheddafi, allo scopo segreto di incamerare meriti coi futuri governanti e favorire la Total nella perenne contesa con l’Eni.

Il risultato sono i profughi che invadono l’Italia mentre gli altri, facendosi beffe della solidarietà europea, sigillano i confini. Chi (l’est Europa) col pretesto dell’identità nazionale. Chi, la stessa Francia, per l’anodina distinzione tra richiedenti asilo e migranti economici. Ferdinando Nelli Feroci, presidente dell’Istituto Affari internazionali, già ambasciatore di prestigio, punta il dito contro la «debolezza complessiva del nostro sistema-Paese».

Ai nostri politici riconosce un’attenuante: «Rispetto al passato oggi c’è un concorso di circostanze che rende tutto più difficile». Invita a non aspettarsi grandi aiuti da un’Europa dove «anche i Paesi più illuminati non si possono permettere aperture in fatto di redistribuzione dei flussi di migranti». Nell’immediato «tocca far da soli, non c’è altra chance». E l’ipotesi atterrisce. Nel medio termine, «non ci resta che cercare di condividere un’iniziativa europea, tirandoci dietro altri partner. Un’azione soltanto italiana non avrebbe alcun senso». Sarebbe giusto, se esistesse l’Europa.