Dall'atomica al razzismo, fino al proporzionale e ai 'Grillopardi', perché il mondo e l'Italia guardano al passato
Un
negro viene fatto alzare sull’autobus, un prete minacciato alla messa, lo stupro in fondo in fondo piace. Mentre, dall’altro capo del mondo, un drappello di generaloni con decine di stellette - righello alla mano - misurano la gittata di un missile nucleare lanciato verso il Giappone e i ricconi della Silicon Valley si comprano i terreni abbandonati per impiantarci rifugi anti-atomici. La versione globale e billionaria di quel che capitava anche a me, da bambino, quando vivevo a pochi chilometri dalla cortina di ferro e, con mamma e papà, andavo alla fiera dei mobili. Là dove i primi prototipi di computer ci facevano sgranare gli occhi, erano in vendita - ed era cosa normale - prefabbricati anti bomba H da installare nel proprio giardino di casa. Era il medioevo nucleare, gli anni del rock&roll, del KKK, del mondo diviso in due e immobile di fronte alla minaccia mondiale delle superpotenze.
Ma era un mondo che aveva scelto, nel suo profondo, di passare a un’epoca successiva: la parità dei sessi, l’uguaglianza fra gli esseri umani, il rispetto laico delle religioni e la condanna dei fanatismi (compresi quelli cristiani). E ancora: il disarmo e lo sviluppo di una tecnica nucleare ben più complessa di quella con cui gioca a fare la guerra (ahimè reale) il giovane Kim, che sembra uscito da un fumetto degli anni Cinquanta. Una tecnica che ci facesse guardare dentro quella particella così piccola e così potente, per trovarci il segreto della vita e non più quello della morte.
[[ge:rep-locali:espresso:285292402]]All’improvviso tutto questo è svanito. Torniamo indietro. Indietro tutta. E la domanda è semplice: perché torna a esistere il medioevo nucleare? Perché si sta aprendo davanti a noi il passato? Donald Trump in fondo è questo, l’America che torna ai suoi anni più bui. L’Europa della voce grossa e dei populismi è questo, il ritorno al fantasma dei nazionalismi. Le squadracce che ormai le cronache hanno imparato a incolonnare sono figlie di quel mondo che credevamo dissolto. E che invece torna. Generando in noi una doppia sensazione: la paura che possa capitarci qualcosa di peggio di quanto sia successo negli ultimi dieci anni, la crisi economica, roba che per l’Occidente era la nuova peste; ma anche un certo sollievo. Perché siamo fatti così, proprio come scriveva un uomo che - guarda caso sessant’anni fa, nel caldo mese di luglio del 1957 - moriva a Roma: Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Sì, quello del Gattopardo, per cui tutto cambia perché nulla cambi. La citazione più abusata d’Italia, il meteo perpetuo del nostro incedere politico, l’aforisma liberatorio che abbiamo usato migliaia di volte per spiegare a ognuno di noi, ma mai a tutti noi, nel senso di popolo cosciente, che in questo Paese anche il 4 dicembre del famoso referendum costituzionale perso da Matteo Renzi è, come per Foscolo fu nel profondo la ricorrenza dei morti, non una data da ricordare per una sconfitta politica, ma la metafora stessa dei tempi: un quotidiano che non muta se non guardando indietro.
[[ge:rep-locali:espresso:285292763]]Ed ecco che la distanza culturale fra Kim, la sua bomba e la nostra retrocessione nella serie B della democrazia, accompagnata da una lugubre legge elettorale figlia di errori del parlamento e di scarabocchi su un foglio della Corte costituzionale, non è poi più lunga della gittata dei suoi missili. Anche lo scenario che ci si para davanti, quel 2018 in cui prevediamo già il grande pareggio alle elezioni politiche, il caos calmo, il tutto cambi perché nulla cambi, è figlio di tempi che credevamo finiti. Tempi che, rovesciando il cannocchiale, si sposano quindi bene con la minaccia nucleare sul Giappone e sugli Usa del presidente cow boy e immigrato, platinato e miliardario un po’ imbroglione. La caratteristica che tiene insieme tutto, la bomba atomica e il razzismo in piscina, è l’elitismo sprezzante del sistema di comando delle democrazie di oggi. A parole sono imbevute di valori, nei fatti impregnate di rancori. Democrazie che, quando hanno tempo da perdere, si portano la mano destra all’orecchio (sempre che non sia stesa in un saluto romano) per ascoltare, come un pediatra con il cuore di un bimbo, il battito del Paese e copiare la rabbia che sentono, per dire di essere al passo con i tempi e di essere la cura migliore per questa nostalgia di un grande ieri - per dirla con Guccini - che abita nella speranza del piccolo domani.
In fondo Kim ci piace. Anche se è vietato dirlo. Ci piace anche Trump. Perché ci aiuta. Perché quando passeggi per Parigi, come mi è capitato di fare qualche giorno fa, ti senti di nuovo quell’Europa colta e seria, che in fondo dice di non avere paura. Se poi guardi meglio è spocchiosa come le sue bandiere issate un po’ ovunque e come quel suo presidente Macron che, dopo soli cento giorni, perde dieci punti. All’Occidente, per stare unito, servono i cow boy e i folli dittatori con la valigetta atomica come un tempo serviva il juke box. La valigetta di Kim ogni tanto funziona ogni tanto fa cilecca, ma restituisce al nostro mondo il senso di una ritrovata centralità. Anche per dimenticare un po’ quella guerriglia di strada fra poveri che contiene in sé il nuovo terrorismo, quella che si combatte con le fioriere nei centri storici e non con le portaerei negli oceani.
La prova generale di questo ritorno al passato (e alle vecchie ideologie come antidoto a un mondo che non sappiamo più decifrare) si terrà anche in Italia. E saranno le elezioni siciliane. Il sabato del villaggio, la vigilia di festa della politica che torna antica. E che muta pelle guardando indietro. A dimostrazione che la restaurazione è in corso c’è la mutazione genetica del partito di lotta per eccellenza, il Movimento 5 stelle. Giano bifronte. Da una parte è antisistema e - a sentire i partiti tradizionali - non potrà mai governare, come fu per i comunisti negli anni del nucleare vero; dall’altro lato è forse oggi l’unico partito a vocazione popolare rimasto, con tanto di voglia di potere, lobby, capibastone, promesse al popolo impoverito dando come sempre la colpa di tutto al sistema. Tanto che in Sicilia le arancine con la gente in strada si sostituiscono a quel vecchio arnese che ai tempi di Casaleggio, ormai lontani, era il mitico Blog di Grillo, il Commodore 64 di una nuova era che si spegne a colpi di realpolitik.
Così, come in un esperimento di laboratorio, L’Espresso prova a raccontare le elezioni politiche del 2018 immergendosi dentro questa Sicilia. Per comprendere come la natura profonda della nostra politica torni alle origini. E le origini non sono né lo spreco né l’imbroglio, quelli sono venuti con il tempo, con l’abitudine al voto, con la complicità di un intero Paese che per una sommatoria di interessi era convinto che andasse bene così.
Non è questo. È che la politica, non essendo capace di progettare il futuro, se la cava convincendo tutti che sarebbe meglio tornare indietro, proprio come scriveva Tomasi di Lampedusa: «La facoltà di ingannare se stesso, questo è il requisito essenziale per chi voglia guidare gli altri». E alla vigilia delle regionali della Sicilia, come una nemesi, la profezia si avvera. Grillo muta forma e sostanza, si fa partito. E con lui tutto il sistema si rovescia, come nel Gattopardo fa Don Fabrizio Corbera, principe di Salina, duca di Querceta, marchese di Donnafugata.
er questo serve oggi coniare un neologismo: “I Grillopardi”. Non sono solo i grillini, siamo tutti noi. Noi e pure Kim. Nel senso che il nostro crederci diversi, postmoderni, invincibili ha reso diversa tutta la politica, riportandola al prima e constatando che semplicemente le parti in commedia si sono invertite. America e Russia devono difenderci dalla bomba di un pazzo, come in un film di James Bond. Il Movimento 5 stelle deve governare il Paese con i voti di chi ha paura del futuro e noi, imberbi ma filosofi, vecchi ma bambini, non abbiamo di meglio da fare che imitare loro, anziché sviluppare un anticorpo replichiamo il virus. Ormai è la cosiddetta democrazia che grida alla casta, senza rendersi conto che «il popolo vuole lavatrici», come direbbe il dottor Stranamore sulla sua sedia a rotelle. Il nazista folle che immaginava l’era post atomica. Lavatrici oggi significa lavoro, significa Europa, significa equità, significa uguaglianza nei diritti. Il popolo chiede questo e questo, se fossimo un Paese normale e se Tomasi di Lampedusa fosse stato solo un visionario, oggi sarebbe lo slogan dei democratici. Mentre assistiamo a una strana mistica che professa l’abolizione continua e infinita dei cosiddetti privilegi, come compensazione alla presa d’atto che non siamo stati in grado di fornire soluzioni ai cittadini. Sembra quasi che i partiti promettano al popolo di promettere: siccome non possiamo darvi ciò che volete, togliamo qualcosa anche a noi.
Questo genera un effetto imprevisto e difficile da arginare. Ci si rifugia nelle ideologie, o in quel che ne resta. A sinistra ci si divide in mille partiti, nel nome delle virgole. A destra cade la pregiudiziale antifascista, che credevamo eterna dal 28 aprile 1945. E, come un riflesso spontaneo, la cronaca ricomincia a digerire tutto, dal saluto romano allo stupro di gruppo. Fino all’assurdo: i ribelli nati dalle ceneri della casta, quelli che gridavano contro gli abusi e le ruberie, oggi difendono abusi, privilegi, assenteismo, evasione. Perché tanto sono colpa del Palazzo, il popolo è assolto, è diverso, è lontano, continui pure a fare ciò che vuole. Giulio Andreotti non avrebbe saputo farlo meglio. Tirare a campare, come nel Comune di Roma, è meglio che tirare le cuoia.
I l risultato? Possiamo preconizzare, a dieci anni dal Vaffa Day, il fungo nucleare della politica nostrana che sembrò abbattere e ridurre in macerie la logorrea aziendalista della Seconda repubblica, che l’ex comico Beppe Grillo da Genova abbia a tutti gli effetti ottenuto il risultato: ha contaminato i partiti. Ora il duello si fa con le sue regole. Da destra a sinistra. Il programma prevede che tutto cambi perché nulla cambi, teorizza l’eterno cambiamento promesso, ma che non comincia mai. E costringe i partiti tradizionali a farsi antipolitica a loro volta, denunciando gli abusi degli altri, in un sistema di condanna di massa, di invidia sociale portata dentro le istituzioni, che molto somiglia proprio allo spionaggio sovietico dell’era atomica: io guardo te e tu guardi me.
Assistiamo così a uno spettacolo di pupazzi. Dove i candidati non contano, contano solo i capi e le loro ambizioni di comandare nel mondo che torna indietro. La devianza politica (l’idea di Grillo di demolire lo status quo per riedificare un sistema di governo che ridesse al popolo almeno la sensazione di esistere) è diventata accademia (con i grillini che si scusano se lo Stato dopo mezzo secolo finalmente vuole abbattere le case abusive). E la sinistra fa anche peggio: confonde gli abusi edilizi fatti per profitto distruggendo il territorio, con le vecchie costruzioni degli anni Settanta che avrebbero bisogno di essere sistemate. Così tutti siamo uguali. Il Grillopardo, appunto, il luogo interiore dove chi governa non deve proporre nulla di nuovo, deve convincere il popolo a non temere la rivoluzione. Perché tanto non si farà. Deve convincere il popolo a cogliere la forza restauratrice che il “non fare” contiene. La Sicilia dimostrerà che non serve sconfiggere il populismo con politiche chiare, come fanno in Germania, perché il populismo muta da solo scambiando le parti con il suo nemico, i partiti, in un duello fra pupi e pupari. Chi grida al lupo diventa il lupo, chi predica il francescanesimo apre il convento, aumenta il numero di frati, vende le indulgenze. È una sorta di metamorfosi collettiva questo nuovo gattopardismo. Ci insegna a proseguire sulla stessa strada di sempre con parole d’ordine nuove, sperando che il futuro torni a somigliare al passato. Quel passato dove il popolo chiedeva e il Palazzo concedeva. Quel passato dove c’era un signore in America con una valigetta in mano che, quando nel mondo qualcosa non andava, minacciava di premere il bottone rosso. E fare boom.
I dottor Stranamore. L’atomica. Il razzismo. La politica italiana: dove l’onda della protesta è diventata una risacca di caccia al potere. Perché nulla cambi
Twitter @Tommasocerno