"Quel giorno siamo diventati grandi". Una generazione racconta il suo 11 settembre
Da Paolo Di Paolo a Luca Vecchi, da Andrea Delogu a Coez. L'Espresso ha chiesto ai ragazzi del 2001 di ricordare il giorno dell'attentato che ha cambiato il mondo
"Cosa facevi quel pomeriggio?". Nessuno risponde "non so, non ricordo". Le immagini dei due aerei che si schiantano sulle torri gemelle sono impresse nella memoria di tutti. Ed è difficile non avere chiaro in mente cosa si stava facendo, dove si era, con chi. L'Espresso ha chiesto a scrittori, attori, cantanti, registi, di parlare del loro 11 settembre 2001. Ne è uscito fuori il racconto di una generazione.
La curiosità, il mio antidoto contro la paura Claudio Di Biagio, 29 anni, regista Ero a casa, mi stavo preparando per andare agli allenamenti di calcio. Avevo tredici anni, più o meno. Quando ho saputo dell’attentato, la cosa non mi ha subito sconvolto. Non mi sono reso subito conto di quello che stava succedendo, credo di essere stato un po’ spaventato. Vedevo le immagini in televisione, e le sentivo lontane, quasi finte. Nei giorni successivi, piano piano, ho iniziato a capire. E oggi dico sia stato l’evento che, più che impaurirmi, mi ha portato ad avere curiosità per quello che succedeva nel mondo. Ha influenzato molto la voglia di sapere e di conoscere. Negli anni successivi non credo che mi abbia limitato, anche perché mi piace molto viaggiare. Anzi, la curiosità che è nata in quei giorni è stata un antidoto contro la paura, che non dovrebbe avere nessuno.
L'occidente e il suo rapporto con la morte non sono cambiati Luca Vecchi, 30 anni, attore e regista Frequentavo il primo liceo. Ero a casa con la mia famiglia e stavo giocando con i videogiochi. Quando ho visto le immagini, ho pensato che fossero dei filmati di repertorio appartenenti a un’altra epoca. È stato sconcertante, ci ho messo un po’ a capire esattamente cosa stesse succedendo. Mi era difficile credere che lo Stato più potente del mondo fosse stato colpito così duramente, da un giorno all’altro, senza nessun preavviso. A me personalmente, ma credo un po’ a tutti, mi ha fatto sentire vulnerabile. Crescendo, il terrorismo è stata una materia che mi ha interessato e che ho studiato all’università. Ho sempre considerato i terroristi come persone che avevano un altro rapporto con la vita e la morte. Rapporto che noi persone occidentali e secolarizzate non possiamo capire. La maggior parte di noi è lontana dall’idea della morte, alcuni la ignorano o fanno finta di ignorarla. Pensiamo tutti di essere eterni, anche in questo anni di attentati. Nessuno penserebbe mai “adesso vado in vacanza a morire”. Nessuno pensa alzandosi la mattina “questo potrebbe essere l’ultimo giorno della mia vita”. Neanche l’11 settembre ha cambiato il rapporto delle persone con questa possibilità: è una controtendenza nella nostra società individualista, che ti porta a pensare che noi vivremo per sempre.
Insieme al G8 di Genova ha fatto cambiare la storia Paolo Di Paolo, 34 anni, scrittore Associo quell’estate del 2001, in cui avevo appena compiuto 18 anni, a una sorta di confine. Perché, al di là del lato anagrafico, mi sembrava che ci fosse uno scarto significativo tra il tempo che c’era stato fin là e quello che avremmo vissuto. Già qualche mese prima c’era stata la pagina violenta e devastante del G8 di Genova, forse l’ultimo momento di aggregazione collettiva di una generazione. E poi nel precipizio di quella stessa estate, l’11 settembre. Mi sembra fossi appena rientrato a casa, erano più o meno le due del pomeriggio. Ero al computer. Non sapevo ancora cosa stesse accadendo, ma la rete era veramente in tilt, internet era lentissimo. Allora ho pensato che qualcosa non andava. Ho dato anche una botta violenta al computer. Poi mia sorella dal salotto mi dice: “sai c’è stato un incidente, un aereo è andato contro una torre”. Ho visto al telegiornale quella lunghissima edizione straordinaria, che poi si sarebbe spalmata su tutte le reti. Ricordo il secondo aereo schiantarsi, e il racconto sgomento, confuso, dei giornalisti che non sapevano neanche loro cosa stesse realmente accadendo. Quegli aerei che precipitavano sui palazzi erano un’immagine così apocalittico-hollywoodiana che, al netto della tragedia, sembrava veramente un qualcosa di esagerato, sproporzionato. Per questo neanche mi spaventava troppo. Ho cominciato ad avere paura qualche anno dopo, con l’attentato di Londra del 2005. Stavo per partire per le vacanze studio, e rinunciai. Quelle cose irrazionali che fai, stupidamente, perché poi dopo qualche giorno ci ripensi e dici “pensa che idiota, che senso ha?”.
Quel giorno sono diventato scrittore Andrej Longo, 58 anni, scrittore Più o meno alle tre ero in Sardegna, lavoravo in una pizzeria, e quel pomeriggio stavo accompagnando mia moglie che partiva. Ebbi la notizia per telefono. A lei non dissi niente perché non volevo preoccuparla, doveva viaggiare. Non si capiva bene cosa era accaduto, mi dicevano “c’è la guerra”. Quindi ho preferito non dirle troppo. Poi ho visto un po’ di immagini in televisione. La sera, mentre lavoravo in pizzeria, è nata l’idea di scrivere un libro. Con me lavoravano persone di tutti i tipi, stranieri, persone che avevano problemi. Alcuni dicevano “hanno fatto bene”. Sulla mia vita ha inciso relativamente, non è che chi sa che cosa ha cambiato in quel momento. Però sono riuscito a pubblicare il mio primo libro: erano le prime storie che avevano un senso, un perché, un significato, uno spessore. L’irrompere di questa realtà forse mi ha portato a scrivere in una certa maniera. Non so poi dire, così su due piedi, cosa è cambiato nella mia vita: sono cose profonde. Forse c’è stata un’attenzione maggiore al mondo che mi circondava.
Noi, generazione assuefatta al terrore Coez, 34 anni, cantante Ero in un parco alla Balduina, con un po’ di amici. Non avevo neanche il cellulare al tempo. Mi ricordo che arrivò questo ragazzo, un mezzo matto, che si avvicinò dicendo: “si è spaccato il mondo in quattro”. Io lì per lì non ho realizzato quello che era successo. Fino a che non ho guardato la televisione a casa la sera. Mi sono sentito spaesato. Poi ci siamo cresciuti tutti con le immagini di attentati e terrore, quasi tutti i giorni. Non voglio essere cinico, ma mi sento parte di una generazione assuefatta. Anche il “risultato” del terrorista, il clima di tensione, non l’ho percepito poi più di tanto. Penso che ti ci devi trovare in mezzo per capire veramente quello che significa.
Credevo che mia sorella avesse rotto il televisore Emanuela Fanelli, 31 anni, attrice L’11 settembre ero in cucina a fare i compiti, stavo facendo le versioni che mi erano rimaste indietro nell’estate. Mia sorella più piccola era in salone a vedere la Melevisione ed è venuta a chiamarmi perché era stata interrotta e al suo posto c’erano palazzi che andavano a fuoco. Pensavo che mia sorella aveva spinto qualcosa di strano sul televisore. Sono andata di là a vedere cosa stesse succedendo e ho visto le torri gemelle. Ma non mi sono resa conto subito con la gravità di quelle immagini. All’inizio sembrava un incidente. Ma poi quando ho visto il secondo aereo schiantarsi, sono rimasta stupita. Non credevo fosse un attacco terroristico, ma ero spaventata da quel che vedevo. Vedere che era stato colpito il paese più importante del mondo, quello in cui uno pensa di voler andare, mi ha fatto sentire vulnerabile. Da quel giorno sono stata molto preoccupata per mia madre che prendeva la metro tutti i giorni. Poi mi ricordo un periodo di paura, in cui si parlava di guerra e povertà, ma in paesi distanti da me. Anche adesso quando sono sui mezzi, su un aereo, il pensiero ce l’ho. Anche perché negli ultimi anni gli attentati sono aumentati. Ma poi, forse per proteggerti, fai finta che non sia successo niente.
A Pisa il blackout. Tutti pensavamo al peggio, poi... Massimiliano “Ufo” Schiavelli, 45 anni, musicista Ricordo molto bene quel giorno. Ero sul Lungarno, a Pisa. Vado dal mio tabaccaio di fiducia a comprare le sigarette, e di solito era molto affollato, ma nessuno badava alla fila. Tutti in ordine sparso, tutti a parlare di altro. Poi torno a casa, e vedo la televisione accesa. Dico: “Mamma, che c’è?” “Ma niente, è cascato un aereo su un palazzo a New York”. Così esco, e vado a Piazza delle Vettovaglie, dove ci sono sempre molti studenti. Entro in un bar, e continuava la diretta in televisione. Tutti presi a guardarlo, e vedo il momento del secondo impatto. Scende un silenzio di tomba in tutto il bar e in tutta la piazza. Coincidenza vuole che di lì a dieci secondi va via la luce nella piazza. E ci fu una sensazione bizzarra, irreale. Nessuno aveva il coraggio di dire quello che pensava, ma negli occhi della gente si vedevano i brutti pensieri che gli passavano per la testa. Sembrava che tutti pensassero: “Ecco ci siamo”. Ci preparavamo al peggio del peggio. Anche perché noi, vicino Pisa, abbiamo un’importante base militare americana. Quindi ognuno si faceva i suoi conti mentali, senza il coraggio di dirlo agli altri, perché era troppo grossa come idea. Poi puoi immaginare il gran sollievo quando è tornata la luce nella piazza. Da quel giorno viviamo in un mondo in psicosi: l’11 settembre ha fatto capire a persone culturalmente, ideologicamente, o anche psicologicamente tutto, che si può ricorrere all’omicidio indiscriminato.
Quel giorno sono diventata grande Andrea Delogu, 35 anni, conduttrice televisiva Ce l’ho chiaro in mente come se fosse ieri. È incredibile, è una cosa che chiedo spessissimo quando incontro altre persone: è un momento che è rimasto impresso a tutti. Ero su un treno tra una stazione e l’altra, stavo tornando a Rimini da Milano, e avevo uno dei primi cellulari. Mi ricordo che mi avvisò mio cugino, chiamandomi: “Ma stai sentendo quello che succede?”. Fu shockante, è come se in quel momento il mondo si fosse preso una pausa. Quando arrivai in stazione a Rimini, andai a casa e vidi la televisione. Quelle immagini mi hanno fatto sentire debole e vulnerabile, perché vedi un posto conosciuto e visitato da molta gente colpito così, in America poi, il Paese più potente al mondo. In quel momento ti rendi conto che niente è come pensavi fosse. Che può succedere qualsiasi cosa, e cominci a sentirti vulnerabile. Nei giorni successivi mi sono sentita uscita da quel mondo dorato, dei piccoli problemi che hai a diciannove anni, crescere, vivere, studiare. Quel momento lì mi ha fatto cambiare, mi ha fatto capire che nel mondo c’erano tanti problemi. Poi per tanto tempo ci ho pensato molto. Vivevo con l’ansia. Ma poi, piano piano, ti ci abitui.
La sceneggiatura del terrore Alessandro Mari, 37 anni, scrittore e traduttore Andavo all'università, eravamo in piena sessione di settembre. In quel momento mi trovavo in un supermercato con la mia fidanzata. Giravamo per le corsie, felici come possono esserlo due ragazzi che fanno la spesa insieme, mentre i genitori sono fuori città. Fu mia madre a telefonarmi. Mi disse: “guarda che un aereo ha colpito le Twin Towers”. Io le risposi di cambiare canale, ero sicuro che si fosse confusa con un film. Era un'informazione irricevibile, qualcosa al di fuori dalla nostra immaginazione. Non eravamo ancora abituati a un racconto televisivo come quello. Tornai a casa di corsa, abbandonando la spesa nel carrello e trascorsi ore e ore davanti al televisore. Tutti ripetevano quel refrain terribile: “sembra un film”. Quella frase mi terrorizzava e non capivo perché. Poi, uno o due giorni dopo, un articolo di Alessandro Baricco, credo su Repubblica, mi aiutò a capire: quell'attentato mi faceva paura perché potevo leggerci una sceneggiatura scritta, una pianificazione narrativa che aveva funzionato minuto per minuto. Non era mai accaduto prima.
Ero in Svezia, mi sembrava di vivere in un film Diodato, 36 anni, cantante Una delle cose che mi colpisce è che tutti si ricordano dove erano in quel momento lì. Io ero in Svezia, ospite di alcuni parenti svedesi. Parlavano un misto di inglese, svedese e tarantino. Eravamo in macchina, ascoltavamo la radio, e c’era questa voce, tesissima, senza musica sotto. Una voce nel silenzio. Loro ascoltavano, e parlavano in svedese. Io non capivo niente. Poi mi dissero: “è cascato un aereo sulle torri gemelle”. Ma ancora non si capiva bene quello che era successo, se fosse un incidente o meno: alla radio non si sbilanciavano più di tanto. A un certo punto ci siamo fermati davanti a un negozio con dei televisori fuori: tutti facevano vedere immagini di New York. Lì ho visto il secondo aereo cadere. Mi sembrava di vivere una scena di un film. Anche le immagini in televisione sembravano scene di un film americano. Siamo rimasti lì davanti a lungo, non so dire quanto. Poi siamo risaliti in macchina. C’era ancora la voce tesa alla radio. E i miei parenti commentavano tra di loro, in svedese. Piano piano ho cominciato a capire qualcosa. Ma sempre tramite i loro racconti, metà in inglese, metà in tarantino. Qualche giorno dopo sono tornato a Roma. In aereo. Era praticamente vuoto, non c’erano neanche venti persone. Era una sensazione molto molto particolare. Anche l’aeroporto era praticamente vuoto. Da quel giorno è cominciato un periodo di terrore. A Roma prendevo il tram e appena vedevo una persona che corrispondeva all’immaginario del terrorista avevo un po’ paura. È stato un periodo veramente buio, è cambiato il mondo, è cominciata una nuova guerra che ha iniziato a toccare anche noi occidentali. Ma una guerra che ho sempre vissuto attraverso la televisione.
Seguire la storia, quando non esistevano gli smartphone Serena Marchi, 36 anni, giornalista e scrittrice Avevo appena compiuto vent'anni. Studiavo all'università di Verona e lavoravo nell'ufficio stampa di una grande azienda. In quel momento ero nel mezzo di una riunione di lavoro molto accesa. All'improvviso il mio capo ricevette una chiamata da Repubblica: ricordo ancora il suo volto pallido quando ci disse che due aerei avevano colpito le Torri Gemelle. Pensavamo che fosse uno scherzo, un modo per sdrammatizzare, ma la sua espressione era troppo seria. Uscii subito per andare all'università. All'epoca non c'erano gli smartphone e il mio capo mi prestò una radiolina a pile. Andai in giro per la città per il resto della giornata con la radio attaccata all'orecchio. Una scena anni Cinquanta, era un altro mondo.
L'orrore con gli occhi di una bambina Francesca Manfredi, 29 anni, scrittrice Quel giorno ero a casa mia a Reggio Emilia, avevo 12 o 13 anni. Ricordo ancora quelle immagini, sembravano effetti speciali. Ho ancora viva dentro di me la sensazione di qualcosa di assurdo, di incredibile. Quando, pochi minuti dopo che avevamo acceso il televisore, il secondo aereo colpì una delle torri fu chiaro che non si trattava di un incidente. Mia madre iniziò a gridare alla terza guerra mondiale! Eravamo molto preoccupati, capivo che qualcosa di grande stava accadendo, ma allo stesso tempo non riuscivo ancora a comprendere la portata storica di quell'avvenimento. Di sicuro qualcosa era cambiato per sempre. Pochi giorni dopo cominciò la scuola e le prime lezioni furono monopolizzate dall'attentato. I professori cercarono di spiegarci cosa era accaduto, ritardammo addirittura la correzione dei compiti delle vacanze, tutto passò in secondo piano.
Prima cosa: telefonare alla fidanzata Emmanuele Bianco, 34 anni, scrittore e aiuto regista La mia reazione immediata fu di chiamare – ovviamente col telefono fisso - la mia fidanzata in Calabria per parlare dell'attentato. Per quanto riguarda la reazione dei miei genitori mi ricordo soltanto mia madre che ripeteva in continuazione “povera gente, povera gente”. Nei giorni successivi ne abbiamo parlato soprattutto tra amici, eravamo colpiti ma non riuscivamo bene a capire la portata storica di quell'evento.