Cresciuto a Londra, lo scrittore anglo egiziano sta per pubblicare in Italia il suo romanzo La città vince sempre , sul lascito oscuro e sanguinoso delle primavere arabe. E dice: "I giovani sono impegnati in una battaglia globale per il loro futuro"

"Non mi definirei esattamente uno scrittore africano, visto che mio padre è inglese e sono cresciuto a Londra". Ma forse proprio per questo è lui, Omar Hamilton, la voce giusta per raccontare ai lettori occidentali la tragica versione egiziana delle “primavere arabe”. Con il suo curriculum a metà strada tra l’Africa mediterranea e l’Europa, Hamilton ricorda Hisham Matar: con “Il ritorno” (Einaudi), presentato anche al Festivaletteratura di Mantova, il bravissimo scrittore anglo-libico ha raccontato le tragedie che hanno accompagnato e seguito la fine di Gheddafi. Se Matar è il più affermato tra gli scrittori del Nordafrica che attirano sempre più spesso l’attenzione delle cronache letterarie di tutto il mondo, Hamilton, giornalista, regista e youtuber pluripremiato, è il debuttante più atteso dell’anno. Il suo romanzo “La città vince sempre”, storia d’amore e guerriglia di due giovani attivisti tra la primavera del 2011 e l’affermarsi del regime di Al Sisi, pubblicato in agosto in Gran Bretagna tra ottime recensioni, uscirà in Italia per Guanda il 28 settembre nella traduzione di Mariella Milan.

Lei non si sente uno scrittore africano, ma l’Occidente sembra aver bisogno di scrittori cresciuti tra due culture per conoscere il Nordafrica. Del resto se il suo libro fosse stato scritto in arabo non avrebbe avuto la stessa eco in Gran Bretagna...
«Io in realtà mi considero uno scrittore egiziano, però è solo una delle definizioni che accetterei. E il mio libro è sicuramente un libro egiziano. È stato scritto in inglese ma è già stato tradotto e sarà disponibile molto presto anche in arabo. Se fossi stato capace di scriverlo in arabo, lo avrei fatto».
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«Questa è l’Africa, mio caro, un disastro assoluto, non credi?». Come risponderebbe a questa frase presa dal suo libro? E in generale crede che l’interesse per l’Africa sia cresciuto di recente nei paesi occidentali?
«I consumatori culturali dei “paesi occidentali” sono così diversi che è difficile unirli in un’unica categoria. Ma c’è una unità di posizioni politiche e da questo punto di vista no, non credo che oggi ci sia più interesse di prima. Io credo che l’Occidente - come esso stesso si definisce - sia sempre stato interessato all’Africa: fin dai giorni del commercio degli schiavi o delle miniere di diamanti del Sudafrica. E poi c’è il cotone dell’Egitto, il fosfato del Marocco, il petrolio della Nigeria. L’incredibile inganno è stato creare un’amnesia ciclica nella narrazione, un’amnesia rafforzata dai media che, anno dopo anno, ripresentano solo e sempre le stesse storie, senza chiedersi davvero perché queste storie si ripetono. In questo modo “l’Africa” è sempre rappresentata come inconoscibile, oscura, misteriosa, irrecuperabile: un continente dalle potenzialità sprecate - così come è inteso nella frase sarcastica che lei cita dal mio libro. Mentre in realtà essa è stata sistematicamente saccheggiata dall’Occidente e continua a essere soggiogata anche ai nostri giorni attraverso l’estrazione di materie prime, il pagamento di interessi infiniti e i prestiti paralizzanti, la vendita di armi e il saccheggio ecologico».

Quando ha deciso di scrivere “La città vince sempre”?
«Ho iniziato nell’estate del 2014, circa un anno dopo il colpo di Stato militare che ha deposto Mohamed Morsi. Per mesi mi ero sforzato di lavorare sul tema, ma ero riuscito a scrivere solo brani, frasi, paragrafi che dovevano andare a costruire un film. Durante gli anni della rivoluzione io lavoravo come regista e, insieme al collettivo Mosireen di cui facevo parte, avevo raccolto centinaia di ore di filmati. Il mio progetto era di costruire un film su quei materiali, ma quando ho cominciato a lavorare alla sceneggiatura le mie parole sono diventate un testo in prosa».

Il suo libro è stato letto come una pietra tombale sulle “primavere arabe”, almeno per quanto riguarda l’Egitto. È così?
«No: non credo che le rivoluzioni arabe abbiano un inizio definito, e nemmeno una fine chiara. Sono processi storici ancora in corso, che non possiamo giudicare. Nel 2011 il mondo è cambiato in un modo che noi non possiamo ancora comprendere: le primavere arabe sono state una parte centrale di quel cambiamento e la repressione feroce che è seguita è un segno chiarissimo che la lotta è ancora in corso».

Lei definisce il Cairo una «città del jazz», e in effetti ricorda New York: ma c’è davvero una somiglianza tra le due?
«Sono contento che dia questa impressione: sì, io vedo un po’ di New York nel cuore del Cairo».

E ci sono altre somiglianze che colpiscono tra l’Egitto e i paesi occidentali: la mancanza di futuro per i giovani, la violenza sulle donne, la classe media che lotta per la vita quotidiana. Problemi simili possono portare a una soluzione comune?
«Sì: il tema comune in tutto il mondo di oggi è il predominio di una ideologia di liberalismo estremo dei mercati che sta creando ovunque lo stesso schema di ineguaglianze sociali. E non ci sarà una soluzione che non sia una soluzione comune, internazionale. Credo che anche questo sia diventato chiaro a molte persone, specialmente ai giovani, nel 2011: che non può esserci una soluzione nazionale, che siamo tutti impegnati in una battaglia globale per il nostro futuro e, naturalmente, per la salvaguardia dell’ambiente».

Podcast, Twitter e Facebook sono molto importanti nel suo libro e sono stati fondamentali per le primavere arabe. Ma lei mostra anche i loro limiti quando dall’altra parte ci sono armi, torture, furia religiosa. Forse quindi i social stanno solo «portando false speranze» alla gente, come la protagonista del suo libro viene accusata di fare?
«No, credo di no. Sono strumenti, e come ogni strumento devi essere in grado di usarlo in modo intelligente. Internet può dare ai civili un incredibile vantaggio tattico ma può anche rendere la sorveglianza molto più semplice di un tempo. Può scuotere un sistema politico grazie a mezzi di comunicazione decentralizzati ma può anche diffondere panico e odio. È uno strumento incredibilmente potente che sta iniziando solo ora a mostrare i suoi effetti su di noi, sulle nostre società: ma è qui per restare e dobbiamo imparare a usarlo nel migliore dei modi».

Leggere le sue pagine su giovani rapiti, torturati, uccisi, gettati nella spazzatura e definiti «vittime di incidenti stradali» sarà particolarmente doloroso per i lettori italiani, che penseranno a Giulio Regeni. Il suo libro è molto efficace nel raccontare la storia dei “martiri” delle primavere arabe e il dolore delle loro famiglie: ma si può costruire qualcosa su questa empatia?
«Proprio il caso di Giulio Regeni dimostra che è così. È evidente che c’è una grande corrente di empatia tra la gente dei due paesi, che ha portato gli italiani a capire i pericoli che gli egiziani devono affrontare per tenere testa al loro governo. Gli Stati sono un’altra cosa: c’è un enorme commercio tra Egitto e Italia - l’Italia in effetti è il principale partner commerciale dell’Egitto. Avevo scritto in passato che i governi, se lasciati a se stessi, avrebbero ceduto. E in effetti poche settimane fa l’Italia ha deciso di rimandare un ambasciatore in Egitto. Ma la famiglia Regeni - che ha avuto un comportamento eccezionale nell’affrontare questa situazione terribile - non si è data per vinta, e nessun altro dovrebbe farlo. L’empatia da sola è soltanto carità, e come tale non può cambiare le cause di un’ingiustizia. Però può certamente avere un ruolo fondamentale e galvanizzante per produrre un cambiamento politico».