Politica
21 settembre, 2017

Elezioni 2018, la carica dei micro partiti

In vista delle politiche del prossimo anno si moltiplicano le piccole formazioni. Che erodono i voti alle grandi. Ecco perché costruire una maggioranza diventa sempre più difficile

Il 29 settembre si ricomincia , con tutta la solennità che merita l’evento. Istituto Luigi Sturzo, nel cuore di Roma, tra la Camera e il Senato, nel palazzo in cui riposano le carte e sono conservati gli archivi di alcuni tra i più importanti leader democristiani, compreso Giulio Andreotti. Qui si ritroveranno Paolo Cirino Pomicino, classe 1939, e Ciriaco De Mita, che il 2 febbraio compirà 90 anni e intende festeggiar li come ha trascorso quasi tutta la sua esistenza: in campagna elettorale, a contatto con la sua gente, forse addirittura da candidato, a caccia di voti. In una formazione che dovrebbe pescare in quell’area indistinta tra quello che fu l’Udc di Pier Ferdinando Casini e l’Ncd-Ap di Angelino Alfano, in via di sbriciolamento a destra e a sinistra. E poiché partito chiama partito e corrente chiama corrente, ecco la riunione, il giorno dopo, dei cattolici democratici che militano nel Pd e nel centrosinistra riuniti attorno all’associazione Argomenti 2000 e al deputato Ernesto Preziosi.

Dopo un quarto di secolo rinasce la Dc e questa forse è la volta buona, dopo tanti tentativi falliti negli ultimi venti anni. C’è la legge proporzionale, e poi una soglia di sbarramento quasi impercettibile, del tre per cento alla Camera, se non ci sarà nessuna riforma elettorale, e in tanti sperano di superarla. Perfino Matteo Renzi parla di alleanze da fare in Parlamento dopo il voto. E allora perché mai non dovrebbe presentarsi, anzi concorrere, si usava dire nel linguaggio dei cavalieri antichi, un partito dichiaratamente democratico-cristiano, proprio ora che dopo la parentesi chiamata Seconda Repubblica quel modo di fare politica torna prepotente e vincente?

Sono le foto di gruppo che arrivano dalla Sicilia, dove le liste per le elezioni del 5 novembre si moltiplicano e un creativo come l’ex presidente della regione poi condannato per favoreggiamento alla mafia Totò Cuffaro immagina il voto disgiunto, Vittorio Sgarbi per la presidenza della regione e la formazione dell’ex rettore dell’università di Palermo Roberto Lagalla che corre per il centrodestra per i candidati all’Assemblea regionale. E la moltiplicazione dei partiti che sul piano nazionale si sta già sviluppando a destra, a sinistra, al centro, l’effetto classico del formicaio impazzito. Il risultato è stato fotografato dai primi sondaggi della ripresa autunnale, firmati da Ilvo Diamanti e da Nando Pagnoncelli. Sarebbero almeno sei i partiti a superare la soglia di sbarramento del tre per cento prevista alla Camera dall’attuale legge elettorale: M5S (primo partito virtuale), Pd, Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia, Mdp. E altri tre o quattro sono quelli compresi tra il due e il tre per cento, con l’ambizione dunque di superare il muro che divide il paradiso dell’accesso in Parlamento dall’inferno dell’esclusione: Alternativa popolare di Angelino Alfano, Sinistra italiana di Nicola Fratoianni, Campo progressista di Giuliano Pisapia, da solo, senza allearsi con Mdp.

Il dato più importante e nuovo, però, non è l’elenco dei partiti in aumento, tutti attratti dal miraggio di superare la soglia di sbarramento, ma il consenso per le liste maggiori che si va assottigliando di mese in mese. Il Pd era al 30 per cento un anno fa, prima della sconfitta al referendum costituzionale del 4 dicembre e della scissione di Pier Luigi Bersani, è sceso al 28 per cento a maggio, ora supera di poco il 26. M5S si appresta a scegliere Luigi Di Maio come candidato premier, fino a pochi mesi fa sarebbe stato un passaggio che i poteri politici e economici avrebbero seguito con attenzione spasmodica, provando a capire se i post-grillini avevano davvero le carte in regola per Palazzo Chigi. Ora la nomina di Di Maio è stata assorbita con uno sbadiglio, si parla di un partito che oscilla tra il 28 e il 26 per cento, in discesa, comunque lontano dalla prospettiva di governare da solo. Numeri che rivelano come, dopo una legislatura di scontri furibondi su ogni aspetto dello scibile e del vivere umano, dal maltempo ai vaccini, i due principali partiti italiani siano tornati più o meno alle percentuali di cinque anni fa, il punto di partenza. Insieme Pd e M5S arrivano a stento a rappresentare la metà dell’elettorato. Alle loro spalle la situazione non cambia: c’è il derby nel centrodestra tra Forza Italia e la Lega di Matteo Salvini, ma a quote modeste. I due partiti mettono insieme tra un quarto e un terzo dell’elettorato, soltanto uniti a Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni superano il 30 per cento e si avvicinano al 35. In ogni caso, molto lontani dal premio di maggioranza che tocca a chi supera il 40 per cento del voto di lista per la Camera nell’attuale legge elettorale.

Aiuto, mi si sono ristretti i partiti. I grandi sono diventati piccoli. I medio-grandi sono scesi a medio-piccoli. E i piccoli sono decisamente troppi. Ad ammetterlo è il testimone più inaspettato, il segretario del Pd Renzi: «Il nostro zoccolo duro è tra il 20 e il 25 per cento. Partiamo da lì», analizza l’ex premier studiando i sondaggi. Si può crescere, certo, ma sono le percentuali che aveva il Pd di Bersani e che il sindaco rottamatore Renzi all’epoca considerava misere. La metà, in ogni caso, dell’ormai mitologico 40 per cento conquistato alle elezioni europee del 2014.

È la fotografia di uno stallo dell’elettorato che spiazza sia i fautori del maggioritario - quelli che la notte delle elezioni bisogna sapere chi ha vinto al primo exit poll - sia i pasdaran della Grande coalizione, quelli che tifano per un nuovo patto del Nazareno, l’accordone tra Pd e Forza Italia, tra Renzi e Berlusconi, in nome delle riforme, da fare in Parlamento, lontano dagli elettori. Il caos italiano mette fuori gioco sia gli anglosassoni, che sognavano di trasformare Montecitorio in Westminster (è quasi avvenuto il contrario: il Parlamento inglese rischia di somigliare a quello italiano), sia i presidenzialisti alla francese o all’americana, sia gli innamorati del modello tedesco e delle grandi coalizioni della Germania di Angela Merkel.

Il sistema maggioritario, infatti, non esiste più, il bipolarismo è stato cancellato dall’avvento del terzo incomodo, il movimento di Beppe Grillo e di Davide Casaleggio che impedisce la sfida a due centrosinistra-centrodestra, e non ritornerà senza una legge che premi il primo classificato o riduca a due nel ballottaggio i contendenti come succede nella Francia del sistema elettorale a doppio turno, e come prevedeva l’Italicum bocciato dalla Consulta (e non dal voto degli italiani, come ripetono gli ultrà renziani). Anche in Francia, nel primo turno delle elezioni presidenziali, il voto si era diviso: Emmanuel Macron aveva raccolto il 24 per cento, Marine Le Pen il 21. Ma fa parte del gioco, le alleanze si fanno nelle urne nel secondo turno e sono gli elettori a dare le carte e a confluire sui due candidati che sono rimasti nella partita. Il sistema presidenziale, cui si allude da almeno dieci anni con l’introduzione delle primarie per la scelta del candidato-premier, o con l’inserimento del nome del leader nel simbolo elettorale, non esiste in Italia e non ci sarà nelle prossime elezioni: fasullo il problema del candidato premier, in un sistema proporzionale Renzi, Di Maio, Salvini o il nome prescelto da Berlusconi per guidare Forza Italia al posto suo, Antonio Tajani o Paolo Del Debbio o Mara Carfagna, possono essere al massimo capilista, volti mediatici da spedire nei talk, ma non possono aspirare a una legittimazione diretta dell’elettorato. Non lo prevede la Costituzione, che assegna il potere di designare il presidente del Consiglio al presidente della Repubblica, e neppure la logica numerica e politica dell’attuale legge elettorale.

I grandicoalizionisti, i sostenitori del Nazareno-bis tra Renzi e Berlusconi, sono invece smentiti nei desideri di una nuova alleanza Pd-Forza Italia dall’aritmetica: la sommatoria di una coalizione Renzi-Berlusconi si ferma nel migliore dei casi al 42 per cento. Se un simile partito si presentasse alle urne, per ipotesi di scuola, prenderebbe a malapena il premio di maggioranza. Ma poiché nella realtà questa alleanza elettorale non esiste, bisogna rassegnarsi all’evidenza che senza fatti nuovi i due partiti insieme controlleranno solo un pezzo minoritario di Parlamento. Per arrivare alla maggioranza dovranno trovare nuovi compagni di strada, cioè fare le alleanze che sono odiate da Renzi almeno quanto da M5S. Per ora la grande coalizione di cui si parla non è grande e non è neppure coalizione. È piccola, piccolissima.
È l’effetto della difficoltà dei partiti principali, ma anche della proliferazione dei micro-partiti che erodono il consenso alle forze più grandi. La nascita al centro di un partito neo-democristiano, con o senza Alfano, minaccia di togliere qualche altro voto prezioso a Forza Italia e perfino al Pd. La marcia su Roma minacciata da Forza Nuova per l’anniversario dell’avvento del fascismo, o le azioni di Casa Pound, sono il segnale che la campagna elettorale è cominciata anche per le forze di estrema destra: vanno anche loro a caccia del tre per cento, strappano consensi a Giorgia Meloni, ma potrebbero anche pescare nell’elettorato più arrabbiato e radicale del Movimento 5 Stelle.

A sinistra, infine, tutti a parole giurano di voler sostenere Giuliano Pisapia, ma a indicare la strategia ci pensa Massimo D’Alema: scontro voto su voto, casa su casa, per portare voti da Pd e Mdp, utili per eliminare Renzi. Anche l’ex sindaco di Milano è ormai rassegnato a questo esito: «Con la proporzionale il nostro ruolo è quello di sfidanti del Pd. Siamo antagonisti con Renzi», ripete Pisapia davanti alle platee delle feste del Pd. Qualche sera fa si è confrontato con Graziano Delrio alla festa di Reggio Emilia, un duello felpato tra due personaggi simili (due ex sindaci, medico il ministro, avvocato il leader di Campo progressista, amici di Romano Prodi, sobri e solo in apparenza dimessi). È stata «una fumata grigia», ha scritto la “Gazzetta di Reggio”, la tonalità preferita dai due, che però potrebbe tornare utile nello scenario post-elettorale, quando «sarà la coalizione a decidere chi è il premier», ha detto Pisapia e «Renzi sceglierà per il bene del Paese», si è smarcato Delrio, ammettendo che la questione di chi sarà il nome per Palazzo Chigi dopo il voto c’è e non è affatto scontato che la scelta sia quella del segretario del Pd. Anche perché un presidente del Consiglio c’è, Paolo Gentiloni, e altri nomi potrebbero aggiungersi, da Marco Minniti allo stesso Delrio.

Di certo il maggioritario è morto e anche la grande coalizione non sta molto bene. E chi vorrà fare un governo nella prossima legislatura, con la benedizione del Quirinale, dovrà armarsi di pazienza e di microscopio. Incollare i pezzetti, come un collage, incastrare i tasselli, come un mosaico. Nella nuova stagione dei micro-partiti le maggioranze si faranno così. E chi pensava di essere autosufficiente, termine che in politichese allude alla pretesa di onnipotenza, di comandare da soli, è destinato ad accelerare la frantumazione. La complessità di una politica composta di piccoli partiti e forse anche di piccole idee, piccoli leader. Il caos.

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