Con i gambali da pastore e la doppietta in spalla Gavino Ledda, sul set di “Assandira” di Salvatore Mereu, appare subito per quello che deve essere in quella scena: la caricatura della “sarditudine”, una finzione costruita a uso e consumo del turista.
Ledda, che compirà 80 anni a dicembre, ha accettato la fatica di un set - «dormo qui vicino, lavoro tredici ore, mangio in mensa» - per interpretare un padre padrone alla rovescia: un uomo che si piega al volere del figlio, e che finisce per portare entrambi alla rovina.
Il Costantino di “Assandira” sembra quasi un omaggio al suo libro. Questo l’ha spinta ad accettare di interpretarlo?
«Sono passati quasi cinquant’anni dal mio libro. Certo nel bene o nel male “Padre padrone” ha lasciato una traccia - e la lascia ancora, e la lascerà - ma le cose sono cambiate. Però il libro di Angioni e il film di Mereu sono all’interno dell’orizzonte tracciato dal mio. I conflitti ci sono, ci saranno, è bene che ci siano se si deve inventare un uomo nuovo. Ma non è facile. Costantino vorrebbe salvare l’autenticità della sarditudine che per il figlio Mario e per la moglie straniera non è mai esistita e non esisterà mai. La lezione del fuoco che segna il finale della storia è lo scotto da pagare per non essersi posti il problema fin dall’inizio. E Costantino, che non voleva essere un padre padrone, finirà purtroppo per pentirsi di non essere stato più duro con suo figlio».
Giulio Angioni, romanziere e antropologo, lavorava all’università di Cagliari quando lei era ricercatore. Vi conoscevate?
«Eravamo amici. Anche per questo dico che abita all’interno della diagonale tracciata da “Padre padrone”. E anche Mereu con questo film sta cercando di inventare un padre nuovo. E Gavino Ledda è vero che ha rifiutato il padre padrone, e ancora oggi è orgoglioso di averlo fatto: però a differenza dei giovani del film non ha mai violentato la natura e non ha mai pensato ai soldi. Io mi sono ribellato a mio padre ma non ho scelto il business al posto suo, e per questo ho potuto scrivere. Chi ha la malattia del denaro non potrà mai scrivere “Padre padrone”, o “Edipo re”, o qualsiasi altra cosa. Io ho inseguito l’arte: avevo l’idea che se i soldi vengono, bene, ma prima viene l’arte. Non sono parole, l’ho dimostrato con i fatti: ho rinunciato alla carriera universitaria perché avevo capito che se io fossi diventato professore e barone universitario, voi “Padre padrone” non lo avreste mai letto, io non lo avrei mai scritto. Per scriverlo ci voleva uno spirito libero. Mario nel film vuole creare un uomo nuovo ma lui non è uomo nuovo: è un uomo sbagliato. Io invece ci sono riuscito, almeno in parte, a diventare un uomo nuovo. Non penso che tutti possano diventare come me, però questa è una strada. Mi fa piacere interpretare questo personaggio che nasce ogni giorno, perché Mereu è ?un grande, con lui si lavora così. E poi fare l’attore, interpretare ?un persona diversa da me, è un’esperienza nuova».
Il film vede il turismo come un pericolo. È d’accordo?
«Il pericolo non viene dal turismo ma da come lo si fa. Un agriturismo falso porta alla rovina, come accade in questo film, ?che finisce con un incendio. La tragedia che chiude il romanzo di Angioni è lo scotto per l’arroganza, l’Ybris, che era il titolo di un mio film. Anche lì c’era un incendio che era però un incendio artistico mentre questo è metaforico. Ai giovani questo film dice di non imitare gli americani che pensano solo al business, e ci hanno avvelenati con questo atteggiamento. Chi non è portato per l’arte può dedicarsi alla natura, trovare la sua strada per vivere bene senza imbrogliare gli altri. Non lo dico per citare il Vangelo, anche se il Vangelo è importante, ma perché questa è la mia esperienza: o lavori o rubi, altre strade non ne conosco».
Lavoro27.08.2010
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