Sono centinaia i foreign fighters ?di ritorno: occidentali che hanno combattuto per l'Isis. E che ora rischiano la forca in Siria ?e Iraq. Perché gli Stati d’origine ?non ne chiedono l’estradizione. Tra le persone in attesa dell’esecuzione ci sono anche adolescenti. E le vedove  di combattenti del Califfato

19/11/2015 Raqqa, addestramento militare dei militanti del Califfato, ISIS
Papa Francesco l’ha dichiarata inammissibile sempre. Ma la pena di morte rischia di tornare in Europa in maniera obliqua e ambigua, incentivata dalla paura che avvolge  la lotta al terrorismo . Sono i “returnees” , i foreign fighters di ritorno, a incutere un terrore tale da far sembrare accettabile il venire meno di un principio fondamentale della nostra civiltà: il rifiuto della pena capitale. Il terrorismo dell’Isis -pur sconfitto in Iraq e Siria - ci sta forse contagiando con qualcosa di orrendo che non ci appartiene?

In Francia li chiamano i “revenants”, sinonimo anche di “zombi”. Sono decine, forse centinaia. Occidentali di nascita e spesso di famiglia sono andati a combattere per l’Isis, in Siria e Iraq. Molte le donne e i bambini. Rappresentano i resti sconfitti dell’incubo terrorista, combattenti vinti. Molti fra loro costituiscono un vero dilemma per i paesi di origine. Cosa farne? I media continuano a raccontare le loro storie raccapriccianti, sepolte dalle macerie in cui è finito il “califfato”. Sono accusati di aver ucciso, torturato, violentato, di essere stati complici della grande strage. Sono sospettati di essere ancora molto pericolosi. Anche i loro figli incutono paura: cosa si può celare nelle loro piccole menti? Quanti sono ancora indottrinati dall’ideologia del terrore?

Oggi chiedono di tornare a casa. Si dicono pentiti e vogliono essere giudicati secondo le leggi europee, le stesse che ieri avevano ricusato. Le “vedove del jihad” in particolare. Ma nessuno, per ora, sembra rivolerli indietro. Il problema è che se saranno giudicati secondo il codice iracheno devono essere condannati a morte. Così anche in Siria, seppur nessuno o quasi in Europa riconosca il governo di Assad. Più complicato ancora il caso di quelli finiti nelle mani dei curdi che non sono uno Stato riconosciuto. L’unico modo per salvarli dalla pena capitale è chiederne l’estradizione, che iracheni, siriani e curdi sarebbero disponibili a concedere: ne hanno già abbastanza dei loro. Ma per ora l’Europa resiste a tale scelta. Un velo imbarazzato di silenzio cala su molte storie, a meno che le famiglie non se ne facciano carico. Ma si tratta di pochi casi: spesso nemmeno i parenti sono disposti a riprendersi i “mostri” che li hanno traditi. Su di loro pesa un terribile stigma: quello di aver accettato di far parte del peggior progetto di morte contemporaneo.

«Tiratemi fuori di qui, non importa se finisco in prigione», grida dalla sua cella “Jihadi Jack”, come si faceva chiamare il ventunenne britannico Jack Abraham Letts, nato nel 1995 a Oxford, una volta parte dell’Isis e ora in mano dei curdi. Detenuto nel carcere di Qamishli, è stato intervistato dalla Bbc e ha inviato un video alla famiglia in cui dice di essere stato torturato. Preso nel maggio 2017, era stato trattato bene in vista di una sua restituzione che non è mai avvenuta. Di conseguenza le sue condizioni sono peggiorate.

I genitori hanno scritto al “The Mail on Sunday” e iniziato una campagna per riaverlo, anche con lo sciopero della fame. Ma le autorità nicchiano, anzi: i genitori sono stati deferiti davanti al tribunale per “finanziamento al terrorismo” dopo che avevano inviato al figlio dei denari per cercare di liberarlo.

Dopo la morte di Sally Jones, meglio conosciuta come “la vedova bianca dell’Isis” e il dibattito che ne è seguito, le autorità britanniche hanno fatto capire che la cosa migliore per il Regno Unito è che tutti gli ex foreign fighters britannici siano giudicati in loco, rischiando dunque la pena capitale. I servizi inglesi calcolano circa 850 foreign fighters inglesi, di cui 150 uccisi e 400 rientrati. Londra ha fatto ufficialmente un’eccezione per due membri britannici della cellula “beatles”, l’orrido quartetto che decapitava gli ostaggi capeggiata dal tristemente famoso “Jihadi John”. Entrambi sono sotto richiesta di estradizione degli Usa e pare che per loro non sarà richiesta nessuna garanzia sulla non applicazione della pena di morte. L’opposizione laburista ha criticato la decisione come «abbandono segreto e unilaterale dell’opposizione alla pena capitale». Anche in Germania c’è stata polemica dopo la cattura di Linda Wenzel, 16 anni, arrestata dagli iracheni. In questo caso le autorità tedesche - considerata anche l’età della ragazza - sono riuscite ad evitarle la pena capitale, senza però chiederne la riconsegna.

Molti paesi europei seguono una linea di condotta simile: nessuno vuole più questi figli di nessuno. Soltanto in Danimarca è stato creato un programma di reintegrazione ufficiale (“Abbraccia un jihadista”), ma i numeri sono piccoli e il compito - forse - più facile.

In Francia (circa 2.000 foreign fighters) la controversia fa molto discutere. Nel dicembre 2017 il quotidiano “Le Monde” ha aperto un dibattito pubblico sui “revenants” ancora in corso. I casi francesi sono numerosi. Colpisce la sorte di alcune donne come Mélina Boughedir di 28 anni, presa a Mosul con i suoi 4 figli piccoli. Ora è in carcere a Baghdad e il tribunale iracheno l’ha condannata all’ergastolo dopo averle inizialmente inflitto una condanna più mite. Mélina era giunta in Iraq con il marito Maximilien e 3 figli; il quarto lo hanno avuto in loco. A suo dire, il marito faceva il cuciniere dell’Isis ed è stato ucciso nella battaglia per la liberazione di Mosul. La situazione di Mélina è stata definita un “rompicapo” dai diplomatici francesi: le autorità di Parigi non hanno richiesto il suo rientro anche se lei ha dichiarato di non aver avuto alcun ruolo nell’Isis. Secondo i suoi avvocati, la mancata richiesta di estradizione ha influenzato i giudici iracheni.

L’unica cosa che Mélina ha ottenuto è il rimpatrio dei suoi tre figli nati in Francia. Il più piccolo, venuto alla luce sotto il Califfato, rimane con lei in prigione. C’è poi il caso di Margot Dubreuil, 27 anni, detenuta dai curdi siriani con 3 bambini dopo essere stata arrestata a Raqqa. Si è a conoscenza anche di una ventottenne con 3 bambini che aveva seguito il marito tunisino, poi ucciso. Anche lei è in mano curda. Secondo i media francesi sarebbero più di una decina i foreign fighters francesi o le loro mogli catturati dalle forze anti-Isis, senza contare i bambini. Ci sono numerosi minori senza genitori. Inoltre gli analisti calcolano circa 700 adulti di origine europea, ex combattenti o loro famigliari, con oltre 500 bambini ancora nascosti nella regione, mescolati alla popolazione civile oppure in clandestinità. Alcuni sono fuggiti nei paesi limitrofi. Una francese accusata di terrorismo è finita nel carcere di Bengasi, mentre il marito con i due figli si sarebbe eclissato in Libia. L’opinione pubblica francese è in maggioranza contraria ai rimpatri di ex-Isis ma il presidente Emmanuel Macron ha chiesto prudenza e invitato ad analizzare le situazioni caso per caso.

Di sicuro le autorità giudiziarie irachene sono attente a non creare imbarazzo: l’anno scorso lo stesso giorno hanno condannato una diciassettenne tedesca a 6 anni per appartenenza all’Isis, mentre con la stessa accusa una turca è stata condannata a morte, un’azera e altre 10 donne mediorientali alla detenzione a vita. Si intuisce quanto l’influenza dei governi abbia il suo peso. A febbraio 2018 in Iraq si contavano detenute per terrorismo 509 donne straniere, di cui 300 turche, con 813 bambini. Il 21 gennaio una tedesca, la cui identità non è stata rivelata, è stata condannata a morte per impiccagione, creando un forte disagio in Europa. Nel dicembre precedente uno svedese era già finito sulla forca. Dopo un inizio prudente, l’Iraq ha accelerato le sentenze capitali e le esecuzioni: nel maggio di quest’anno 40 donne (vedove o attiviste Isis) sono state condannate a morte. Per gli uomini è andata peggio: più di 300 condanne alla pena capitale. Sul totale 80 sono stati già uccisi. Quanti fra loro avrebbero potuto avvalersi di una giustizia diversa? Non lo sappiamo perché tutto è avvolto dal più stretto riserbo e i processi sono brevissimi.

Se tale è la situazione in Iraq, ancor più ambigua è la sorte di chi è in mano ai curdi siriani: sotto quale giurisdizione ricadono? La stessa categoria degli arrestati è dubbia: civili? civili in armi? Il paradosso è che non esiste in Siria uno “stato di guerra” legalmente dichiarato, di conseguenza regna il caos: quale autorità giuridica può venir accreditata come legale? In gennaio scorso su Bfm tv il portavoce del governo francese ha dichiarato che «i francesi in mano dei curdi di Siria potrebbero essere giudicati laggiù se le istituzioni giudiziarie saranno capaci di assicurare un processo equo». Damasco ha protestato subito: il Rojava non è uno Stato riconosciuto. Il riferimento era alla situazione di Emilie König, una bretone di 33 anni, pioniera del jihad e famosa reclutatrice, figlia di un gendarme di Morbilhan, nata nel 1984 e convertita all’islam salafita a 17 anni. Emilie era famosa prima ancora della sua partenza: aveva già adottato il velo integrale, facendone la sua battaglia con continue manifestazioni, interventi in tv e così via. Fuggita in Siria a fine 2012, si fa notare in video mentre spara e si addestra. Dal 2015 è iscritta nella lista nera dei terroristi. La sua sanguinaria avventura termina a inizio 2017: catturata durante la battaglia di al-Chaddadeh a nord est della Siria, oggi è detenuta dai curdi siriani assieme ad un’altra decina di donne francesi. Vanamente gli avvocati hanno chiesto che sia giudicata in Francia. Le autorità francesi restano caute anche perché Emilie non si è mai arresa ma è stata catturata con le armi in pugno. I fatti sono complicati dai processi intentati in Francia contro le “madri del Jihad”, come chiamano le donne che hanno raggiunto o visitato i figli durante la guerra con l’Isis. Alcune dicono di averlo fatto per tentare di recuperare i propri congiunti, altre di voler stare al fianco dei figli “fino alla loro morte”. Famiglie distrutte dal fanatismo, terribili danni collaterali del jihadismo.

Per il Belgio, su circa 500 partiti per il jihad, i casi processuali sono circa una trentina, il più famoso dei quali quello di Tariq Jadaoun, condannato all’impiccagione in Iraq. Anche Jadaoun è stato protagonista di numerosi video di propaganda Isis e ha cercato inutilmente di convincere le autorità belghe del suo cambiamento. In attesa dell’appello, Amnesty Belgio ha iniziato una campagna per la commutazione della pena. I foreign fighters tedeschi sarebbero circa mille, di cui 145 uccisi in combattimento e 200 già rientrati. Degli altri non si sa nulla salvo alcuni casi noti. Le autorità di Berlino hanno fatto sapere a Baghdad di essere contrarie alla pena di morte ma diverse condanne sono già avvenute. La Svezia ha registrato 300 partenze e 150 rientri, ma resta silenziosa sul numero degli imprigionati. Le autorità hanno protestato con l’Iraq per l’esecuzione di un loro cittadino ma restano indecise sul farne rientrare altri. Anche in Italia il dibattito su cosa fare degli ex combattenti e delle loro famiglie ha trovato spazio sui media. L’unica soluzione per gli ex combattenti europei è quella di sfuggire alla cattura e rientrare da soli in patria, utilizzando canali illegali.

Certo il dilemma è grande soprattutto se è la paura a dettare le reazioni. In generale - lo dimostrano vari sondaggi - circa l’80 per cento degli europei ha paura dei “returnees” e non vorrebbe averci niente a che fare. Chi è partito è ormai considerato un’ombra. D’altra parte le Ong dei diritti umani sono unanimemente concordi nel richiedere i rimpatri: se si transige sui valori - è il loro discorso - si dà ragione ai terroristi.
Ai diplomatici europei sul posto non resta che fare di tutto per evitare le condanne a morte, ma ciò si rivelerà sempre più complicato, in particolare quando inizieranno i processi in Siria.

Così silenziosamente, la pena di morte se non per l’Europa, torna almeno per gli europei.