«Mi chiamo C.B., sono la figlia della prima vittima italiana delle valvole killer dell'industria brasiliana Tri Technologies, quelle che scoppiavano nel cuore dei pazienti. Papà è stato operato nel 2002 dal più celebre cardiochirurgo dell'ospedale di Padova. Operazione riuscita, dicevano. È morto undici giorni dopo». Perdere un padre è di per sé una sofferenza immane. Ma il dolore può diventare insopportabile, se si scopre che a provocare quella morte è stata la cupidigia di un medico. E lo strazio, rischia di essere insostenibile se persino la magistratura non offre il conforto della giustizia, ma beffardamente punisce – ulteriormente – le vittime.
Quando C.B., lo scorso 25 novembre, ha preso fra le mani l'Espresso, ha letto d'un fiato l'inchiesta giornalistica Implant Files - realizzata in collaborazione con il consorzio di giornalisti investigativi Icij - che rivela la leggerezza con cui Italia, Europa, Stati Uniti e moltissimi altri paesi del mondo hanno accettato e continuano ad accettare che sotto la pelle dei cittadini vengano impiantati dispositivi medici, valvole cardiache, pacemaker, protesi d'anca, infusori di insulina che possono essere pericolosi, addirittura letali.
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In Europa, ad esempio, un farmaco viene passato ai raggi x – fra studi clinici e accurate verifiche - prima di essere immesso sul mercato, mentre un dispositivo medico deve solo ottenere una certificazione, il marchio CE, rilasciata da una società privata, scelta e pagata dallo stesso fabbricante. «Grazie. Finalmente c'è qualcuno ne parla. Aiutateci», raccontano a l'Espresso i parenti delle vittime.
Alcuni lettori si sono riconosciuti nelle storie raccontate dal nostro settimanale e ci hanno scritto, ci hanno raccontato quello che è successo a loro. Non solo. Perché nell'inerzia più totale delle autorità, è il consorzio Icij ad aver realizzato la prima banca dati globale della sicurezza dei device, accessibile dal nostro sito. Gli accessi sono stati migliaia nelle prime settimane, mentre oltre 2.200 pazienti, medici e operatori hanno inviato denunce, con nome e cognome.
L'Espresso in edicola domenica 16 dicembre darà voce a queste persone, alle loro vite rovinate, in cerca di giustizia. Come il caso di C.B., la figlia della prima vittima delle valvole killer, prodotte dalla società brasiliana: «Abbiamo chiesto l'autopsia: la valvola era difettosa, gli era esplosa nel petto, come una bomba, c'erano schegge ovunque. Poi si è scoperto che il cardiochirurgo aveva preso le tangenti dal rivenditore italiano di quelle valvole. L'imprenditore ha confessato, il chirurgo è stato arrestato, noi ci siamo costituiti parte civile con i familiari delle altre 33 vittime venete: cinque morti, tutti gli altri invalidi. Il tribunale penale di Padova ha condannato tutti e ci ha assegnato un primo risarcimento, spiegando che ci avrebbero dato molto di più in sede civile. Invece a Venezia la corte d'appello ha prosciolto tutti per prescrizione. E a quel punto l'ospedale di Padova ci ha chiesto di restituire l'unico rimborso che avevamo ottenuto in primo grado, con gli interessi e le spese processuali. Ci siamo opposti, ma i giudici civili per ora ci hanno dato torto: dopo sedici anni aspettiamo ancora la Cassazione. Tutte le perizie confermano che quelle valvole erano difettose, che hanno ucciso i pazienti o li hanno resi invalidi per sempre, ma nessuno è stato condannato. E adesso siamo noi, i familiari delle vittime, a dover risarcire l'ospedale».
L'Espresso, che ha recuperato tutte le sentenze, ha scoperto che il marchio privato CE funziona come una garanzia d'impunità. Lo scandalo delle valvole killer si apre nel 2002 a Torino, con l'arresto di due luminari della cardiochirurgia. Il caso è identico a quello dei pazienti veneti: i medici hanno intascato tangenti dallo stesso imprenditore di Padova, per impiantare le stesse valvole difettose in decine di pazienti piemontesi. Un chirurgo confessa e patteggia, l'altro nega tutto. Entrambi vengono condannati in tutti i gradi di giudizio, insieme all'imprenditore, sia per corruzione, sia per la strage di malati. I giudici di Torino spiegano (e la Cassazione conferma) che c'è almeno un profilo di colpa medica: accecati dalle tangenti, i chirurghi hanno «distorto il loro potere discrezionale di scelta» imponendo le valvole brasiliane, nonostante fossero sperimentali, anziché quelle collaudate da anni, sicure e meno costose. Perché, al contrario la corte di Venezia assolve i medici di Padova? Secondo i giudici la corruzione c'è, ma non basta a provare la colpa medica, perché il chirurgo corrotto poteva non sapere che le valvole erano difettose. Del resto, secondo la corte veneta, quei dispositivi avevano ottenuto il marchio CE e quindi si poteva presumere la sicurezza del prodotto. Fra un mese, a gennaio 2019, arriverà il verdetto finale della Cassazione civile che, magari leggendo l'inchiesta Implant Files de l'Espresso, capirà i limiti di questa certificazione privata. Nel frattempo l'Espresso continuerà a tenere alta l'attenzione su questo caso e su altre situazioni analoghe, dando voce a quanti cercano giustizia per un killer nel corpo.