L’Italia abbandonata
Viaggio ad Ancona, la città operaia piegata dalla crisi che non cede al razzismo
L’Italia abbandonata
Viaggio ad Ancona, la città operaia piegata dalla crisi che non cede al razzismo
Della vecchia ricchezza è rimasto poco: il porto e il turismo non bastano più. ?Ma il capoluogo marchigiano ha i suoi anticorpi e non cade nella tentazione dell'intolleranza
Sull’asfalto resta un tappeto di garofani rosso sangue, come ultima scena di un film finito male. I sindacalisti se ne vanno con le bandiere arrotolate, l’amplificatore nel bagagliaio e il lungo cavo del microfono avvolto come una matassa. Venerdì 17 novembre sul piazzale davanti ai cantieri Palumbo in via Enrico Mattei nel porto di Ancona si sbriciola un altro pezzo di civiltà industriale. Quaranta persone hanno appena commemorato Alam Magbaul, 41 anni, immigrato dal Bangladesh dove la moglie e la loro bimba di cinque anni aspettano ora il rimpatrio della salma.
Alam è morto da quattro giorni, dopo essere caduto da dieci metri con altri quattro operai nell’azienda che costruisce yacht, per clienti che la crisi non sanno nemmeno cosa sia. Lì fuori hanno portato la loro solidarietà i segretari regionale e provinciale della Fiom, il vicesindaco, il presidente del consiglio comunale, rappresentanti del Pd, di Sel, dei Cinque Stelle e pochi altri che non c’entrano nulla con il cantiere. Ma dalla fabbrica non è uscito nessuno: nessuno dei cinquanta colleghi di Alam, italiani o stranieri, nemmeno un delegato, si è sentito libero di partecipare al lutto.
Scendendo agli inferi della scala sociale, la coesione alla base della piramide umana si è dissolta anche davanti alla pietà. Perfino unirsi a una breve cerimonia pubblica dedicata alla morte di un compagno di lavoro è ormai un gesto eversivo da evitare. Mentre in giro per l’Italia gli eversori di un tempo occupano le piazze lasciate vuote, nascondendosi dietro a sigle come Forza nuova e Casa Pound o ai tatuaggi di Terza posizione incisi sulle tempie. Luca Traini, 28 anni, di questo vuoto è il prodotto. L’ex candidato leghista, che ha tentato di uccidere a colpi di pistola sei immigrati africani scelti per il colore della pelle, è la prima recluta ad aver varcato il confine tra teoria e azione, sabato 3 febbraio a Macerata. Traini è il classico lupo solitario. Sintomo di un processo di radicalizzazione armata che, a differenza di alcuni suoi coetanei nel resto d’Europa attratti dall’integralismo islamista, da noi ha risvegliato l’estrema destra di provincia: prima che a Torino o a Milano, la sanguinosa caccia all’immigrato si è consumata nelle pacifiche Marche.
Scendendo lungo la costa, Ancona è l’ultima città adriatica ancora operaia. Ma per la sua anima un po’ anarchica e un po’ repubblicana, ha anche fama di essere l’ultima barriera progressista affacciata sulla provincia di Macerata. E sul suo retroscena nero, dove rampolli dei proprietari terrieri, piccoli industriali o imprenditori del turismo condividono da sempre con parte del popolo i simboli del fascismo: il busto di Mussolini come soprammobile, il portachiavi con il fascio littorio in tasca, le bottiglie di vino con la faccia del Duce o di Hitler in cantina. Poi li vedi d’estate, quando scendono in spiaggia a Numana, Sirolo o nelle calette del Conero. E togliendosi maglietta e bermuda, inevitabilmente esibiscono tatuaggi da Decima Mas. Per questo, assistere da ospiti alla riunione nella sede di Ancona dell’Anpi, l’Associazione nazionale partigiani d’Italia, è una sorpresa. Dopo il raid di Luca Traini e soprattutto i successivi messaggi di solidarietà, non ai sei feriti ma al mancato assassino, la risposta pacifica a quel vuoto nelle piazze dovrebbe essere unanime e immediata. Invece non va così.
All’entrata ti accoglie la frase negazionista che Silvio Berlusconi ha pronunciato da presidente del Consiglio: «Mussolini non ha mai ammazzato nessuno. Mussolini mandava la gente in vacanza al confino». Frase opportunamente incorniciata dalle fotografie di Gramsci e Matteotti. Con Alessandro Maggini, “fucilato a Ostra dai fascisti il 6 febbraio 1944” come spiega la didascalia, il tappeto di corpi dei “partigiani trucidati a piazzale Loreto, Milano 1944” e le immagini di tre oppositori appesi per la gola a un albero e a un palo della luce.
La riunione convocata prima di cena è già cominciata e una portavoce invita i presenti a rinviare ogni manifestazione fino al 24 febbraio a Roma. La sala è quasi piena e molti non sono affatto d’accordo. Ma l’ordine dalla capitale è di accogliere l’appello del sindaco di Macerata, Romano Carancini, 57 anni, avvocato eletto con il Pd: «Chiedo a tutti», ha scritto Carancini sulla pagina Internet del Comune, «di farsi carico del dolore, delle ferite e dello smarrimento della mia città. Si fermino tutte le manifestazioni... Oggi io ho a cuore la mia città, la forte volontà di proteggerla verso la nostra normalità, il nostro quotidiano incedere tra bellezze e problemi... Credo che ci sia un tempo per il silenzio e un tempo per manifestare».
Il pensiero va subito alle foto all’ingresso di quei ragazzi fucilati o appesi per la gola. E a Gino Tommasi, il Comandante Annibale, partigiano medaglia d’oro al valor militare morto il 5 maggio 1945 a Mauthausen, a cui è dedicata la sezione di Ancona. Se la loro generazione avesse pensato alla normalità, al quotidiano incedere tra bellezze e problemi e al cauto bisogno di silenzio, oggi sui nostri smartphone come data apparirebbe l’Anno XCV E.F., il novantacinquesimo dell’era fascista.
La stessa ragionata cautela ha probabilmente tenuto i cinquanta colleghi di Alam Magbaul lontani dalla commemorazione per la sua morte. Ma Giuseppe Ciarrocchi, il segretario regionale della Fiom, non riempie il vuoto del piazzale davanti alla fabbrica con il silenzio: «È una vergogna...», dice ai giornali locali: «C’è una responsabilità collettiva dei lavoratori che anche di fronte a un morto e quattro feriti, non hanno il coraggio di uscire».
Se togli il coraggio della partecipazione, alla democrazia cosa rimane? La disgregazione sociale che alla base della piramide umana attraversa l’Italia la respiri entrando in un istituto professionale della provincia che si affaccia sul mare. Non nei licei, ma in una delle scuole che preparano al lavoro il nuovo proletariato. Basta assistere pochi minuti alla lezione in una prima, attraverso la porta lasciata aperta. Sei ragazzi guardano un film proiettato sulla lavagna multimediale. Il bulletto in fondo scrive messaggini su WhatsApp e all’improvviso minaccia con il semplice tono della voce il vicino perché non faccia domande al prof. Altri smanettano sotto il banco con il telefonino. Uno a sinistra forse dorme. Intanto l’insegnante si sforza a trovare un linguaggio condiviso perfino per spiegare come funziona non la Costituzione, ma il motore a scoppio.
Questi sono i ragazzi che le famiglie consegnano. Sono i professori a doversi inventare ogni giorno come trasformare in scuola di contenuti un ambiente che il continuo taglio dei finanziamenti statali riduce a scuola di contenzione: un parcheggio dove trattenere gli adolescenti fino a sedici anni, perché non vadano ad appesantire la statistica della disoccupazione. Gli anticorpi infatti esistono. Ad Ancona li incontri tra gli insegnanti dell’istituto professionale “Podesti-Calzecchi Onesti”, alla periferia Sud dove le colline meticolosamente arate si affacciano sugli ultimi insediamenti residenziali e i centri commerciali che hanno ucciso i piccoli negozi di quartiere. Già nell’atrio un bouquet di bandiere del mondo rappresenta, tra gli ottocento studenti, il venti per cento di iscritti nati all’estero o figli di immigrati. Sono gli stessi giorni in cui da Roma arriva la notizia sul giudizio di autovalutazione del liceo classico Visconti: niente stranieri, niente disabili, niente famiglie povere. La scuola esclusiva può essere un’eccellenza e magari ricevere dal ministero molti più soldi di un istituto professionale. Ma gli esclusi, come Luca Traini o gli spacciatori africani che lui voleva punire, li ritrovi poi per strada. E sono un dramma per tutti.
Vinicio Cerqueti, il dirigente dell’istituto professionale di Ancona, è orgoglioso del faticoso lavoro dei suoi docenti. Il risultato lo tocchi in terza superiore, dove la disgregazione dei ragazzi delle classi di prima è stata sostituita da un senso condiviso di comunità, almeno dentro il confine della scuola. Pino Sergio, 64 anni, il vicepreside, è consapevole del difficile percorso che lui stesso ha vissuto cominciando a insegnare nel 1979 nella sua Calabria. E professori come Roberta Furlani e Raffaele Vietri sanno bene che, come portieri in una finale dei Mondiali, tocca a loro parare i tiri con cui la vita ha già segnato i loro ragazzi. Là fuori, come è successo ad Alam Magbaul nei cantieri al porto, non avranno nessuno a proteggerli. E la scuola sarà forse la loro ultima esperienza civile.
Indeboliti dai contratti di lavoro a tempo, intimoriti dalla prospettiva di una lunga disoccupazione, influenzati dall’ideologia sulla sicurezza: se davanti agli istituti professionali o ai licei marchigiani, e non solo qui, discuti con gli studenti del raid di Luca Traini, scopri che ancora minorenni sono già ossessionati dalla paranoia della legittima difesa. Più i maschi delle femmine. E così il ferimento a caso di sei immigrati, tra cui una donna, diventa un errore giustificabile dopo l’omicidio di Pamela Mastropietro, la ragazza di 18 anni assassinata in provincia di Macerata da una banda di spacciatori africani.
«Fuori gli stranieri, l’Italia agli italiani», hanno scritto su un muro al Piano, il quartiere popolare di Ancona vicino alla stazione dove gli unici negozi che sopravvivono sono quelli etnici, a parte le vetrine con le insegne tricolori della Cisl. Potrebbe essere un programma politico: ma come si fa? Calcolando la differenza tra nati e morti dal 2002 a oggi le Marche hanno perso 46.550 abitanti, più di quanti ne abbia Macerata, con un saldo negativo ininterrotto da quindici anni. Un marchigiano su quattro ha più di 65 anni. E anche calcolando l’arrivo di immigrati italiani e stranieri, la popolazione è diminuita di duemila persone nel 2014, settemila nel 2015, cinquemilaseicento nel 2016. L’estrema mobilità riaffiora sui citofoni. Al numero 4 di via Giordano Bruno c’è una differenza tra i cognomi italiani, esposti con la classica targhetta di plastica, e la rapida stratificazione di quelli stranieri: cancellati, riscritti a biro, aggiornati e riappiccicati con adesivi, post-it o bigliettini tenuti con lo scotch. La società liquida, teorizzata dal filosofo Zygmunt Bauman, è già evaporata nella società gassosa.
Munieh, 32 anni, da undici ad Ancona, fa una passeggiata al porto la sera prima di andare a lavorare. Prende millecento euro come lavapiatti in un ristorante, ne spende 350 per l’affitto. La moglie è in Bangladesh, ancora non hanno figli. «Dicono che rubiamo il lavoro agli italiani. Ma non vedo italiani presentarsi quando cercano lavapiatti», sorride, «e nemmeno proporsi a Fincantieri per i lavori pericolosi. Così come non vedo immigrati lavorare in banca o in posta».
Fincantieri, con le nuove commesse per le navi, è il modello che meglio spiega l’Italia: trecento operai specializzati assunti e duemila ingaggiati con subappalti a termine e paga globale. Significa niente ferie, niente malattia e la totale elusione dei contributi, perché parte delle ore lavorate figura come finto rimborso spese di vitto, alloggio e trasferte, a vantaggio delle imprese. Di questi operai, il settanta per cento è straniero. Soprattutto bengalesi, spesso arruolati da caporali che li attendono fuori dai cancelli a inizio turno. Tutto alla luce del sole.
Nemmeno la fama marchigiana delle vacanze a misura di famiglia esisterebbe. Superato il fiume Musone, Porto Recanati è il primo comune maceratese: paese di dodicimila residenti d’inverno, gonfiato in pochi anni da una fallimentare esplosione edilizia senza acquirenti, da fine giugno a metà agosto diventa una città del turismo che ha bisogno di manovalanza. Non a caso si concentra qui uno dei record nazionali di immigrazione: il 22 per cento degli abitanti ha origine straniera.
Duemilasettecento persone, millesettecento delle quali vivono in un ghetto verticale di sedici piani: l’Hotel House. Non è un albergo, ma un gigantesco condominio in multiproprietà e trentadue nazionalità, dove l’alta rotazione dei residenti e la precarietà degli stipendi ha fatto fallire ogni forma di amministrazione. Due milioni di debiti comuni, ascensori fermi, rifiuti che nessuno ritira, l’acqua che arriva a malapena all’ottavo piano e l’autobotte della Protezione civile parcheggiata davanti. Moustafa, 31 anni, bengalese anche lui, sale con due secchi pesanti fino al nono piano. E ogni mese paga alla banca proprietaria di casa 250 euro di affitto. Da giù chiamano Sherif, un bambino. Deve andare agli allenamenti. Abita in alto e senza corrente i citofoni non funzionano. Lo aspettano in cortile cinque piccoli calciatori. Lui è il sesto, ma non sente.
Questo viaggio nelle periferie italiane si conclude qui, davanti all’Hotel House e a Luciano Baleani, 58 anni. È il presidente della squadra che da Villa Musone, vicino a Loreto, viene a prendere Sherif e gli altri per farli giocare con i pochi bambini del suo paese. Luciano fa due conti: «Su cento persone, italiane o straniere, c’è un cinque per cento criminale ovunque. Allora mi chiedo: è possibile che si voglia pensare solo a quel cinque e non all’altro novantacinque per cento che deve per forza vivere insieme?».
(5 - Fine. I precedenti reportage di ?Fabrizio Gatti sulle periferie italiane ?sono stati dedicati a Torino, ?a Brescia, a Ferrara e alla Brianza)