Il quarto mandato presidenziale di Vladimir Putin nascerà sotto il segno della Siria esattamente all’ingresso dell’ottavo anno di conflitto nel Paese. Se ci sono tanti sconfitti, lo zar del Cremlino è uno dei sicuri vincitori di quella guerra. Resta ancora da capire a quale prezzo.
Putin si infilò nella mischia, con accurato tempismo, nel 2015 quando volgevano al peggio le sorti dello storico alleato Bashar Assad, approfittando di un disimpegno statunitense disegnato da Barack Obama e perseguito, pur con diversi accenti, dal suo successore Donald Trump. L’America sulla via dell’autosufficienza energetica e nauseata dal pantano iracheno considerava ormai marginale il Medio Oriente per volgere sguardo e sforzi verso la sfida del Pacifico che considera cruciale per il futuro.
Siccome i vuoti in politica si riempiono presto, nella cronica assenza dell’Europa Mosca è stata lesta ad approfittare dell’occasione. Basta dare uno sguardo alla carta geografica per capire il perché. Il sogno di un controllo del mare caldo sta da secoli nell’immaginario russo. Rientra in quella logica anche il blitz per strappare all’Ucraina la Crimea, base di partenza più prossima verso il Mediterraneo della flotta di Putin. Va aggiunto il desiderio di tornare potenza dopo le convulsioni e la marginalità del periodo post-sovietico.
Nel caos dell’area più infiammabile del pianeta, il Cremlino aveva il vantaggio di una strategia chiara e semplice. Salvare Assad e conservare la base navale logistica di Tartus; sconfiggere lo Stato islamico, formidabile richiamo per centinaia di suoi foreign fighters soprattutto delle aree caucasiche. Fatto.
Tuttavia il Medio Oriente è cibo indigesto anche per stomaci forti e nelle guerre che lì si susseguono è assai più facile entrarci che uscirci. E le alleanze a geometria variabile si sfaldano e si ricompongono, obbligando a peripezie diplomatiche acrobatiche. Putin è il solo, oggi, da referente assoluto di ogni crisi, a poter parlare con l’Iran degli ayatollah e con l’Israele di Netanyahu, con i curdi siriani e con il sultano Erdogan, col re d’Arabia e i ribelli houti dello Yemen. Più gli altri attori importanti a partire dall’egiziano al Sisi.
Proprio perché centrale in ogni partita, non può sottrarsi a un suo impegno anche militare. E per questo si susseguono le notizie sul ritiro delle truppe e invece di un attivismo che continua in situazioni sempre sull’orlo del precipizio. E tocca a lui promuovere tregue, come nella Ghouta quando vengono meno quelle concordate a livello di un organismo ormai obsoleto come le Nazioni Unite.
L’equilibrismo pericoloso non potrà reggere a lungo, Putin IV si troverà, prima o poi, a dover scegliere tra l’ondivago Erdogan e i curdi, tra l’asse sciita e quello sunnita comunque in perenne contrasto per l’egemonia dell’area, tra Assad e Netanyahu. Perché le ragioni di ciascuno, superate le emergenze, riprenderanno le loro radici lunghe e le inimicizie torneranno tali. Lo zar dovrà risolvere rebus contro cui hanno in passato sbattuto la testa tutti coloro che si erano messi in testa l’idea meravigliosa di pacificare il Medio Oriente.