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Attualità
marzo, 2018

Le parole da dimenticare di questa campagna elettorale

Flat tax, Spelacchio, er Moviola. Un’orrida favella che tiene insieme italiano, inglese, dialetti. Mai i politici hanno parlato peggio

Tutti dicono tutto e il contrario di tutto, nessuno crede più a nessuno, più semplice di così si muore. Ed ecco che in questa campagna la parola elettorale, appunto, è morta.

Sarebbe anche carino risparmiarsi toni apocalittici, ma l’esito appare così evidente che sul decesso ci si può concedere al massimo qualche variazione formale: si è spenta, è crepata, si è estinta, è spirata, consummatum est , se n’è andata all’altro mondo, come diceva Andreotti, un luogo misterioso dal quale non dice più nulla che corrisponda alla realtà e nel gran fracasso si è fatta puro fiato, vanvera, vaniloquio.

Doveva accadere, prima o poi. Ma quando Berlusconi, firmando davanti a Vespa, cambia nome al “Contratto” e lo chiama “impegno”; quando Di Maio, impelagato nelle miserie contabili, proclama: «È arrivato il momento di pensare in grande»; quando Renzi, reduce di Consip, augura «buon complotto a tutti«; quando Meloni preannuncia «il più grande piano a sostegno della natalità mai visto in Italia» e di Salvini esiste ormai un generatore automatico di post («Perché allora non ospita a casa sua qualche immigrato???»), beh, dagli e dagli la regressione espressiva ha spintonato alle spalle l’ordinaria doppiezza e ha buttato il Logos in un punto terminale oltre il quale si coglie l’ombra nera dello sproloquio, del vaneggiamento, dell’insensatezza.
L’immediata proliferazione delle promesse (“faremo”, “daremo”, “garantisco”, “non vedo l’ora”) è molto più grave, in prospettiva, di qualsiasi astensionismo. Stupisce che ci sia ancora qualche volonteroso che s’è messo a calcolare l’impossibilità degli impegni assunti da questo o quel leader. La graziosa novità è che lo sanno benissimo anche loro, non si aspettano più di essere creduti; e tanto meno se lo aspettano, tanto più le sparano sempre più grosse in un cortocircuito di compulsiva logorrea, al tempo stesso consapevole e delirante.

Di nuovo si chiede venia per il tono quasi oracolare, ma è da anni che la faccenda dell’inautenticità stava prendendo questa piega. Il risultato è che rivolgendosi allo stesso pubblico, il marketing della parola s’è come accartocciato su se stesso e adesso, per strappare “un attimino” di attenzione, parlano tutti allo stesso modo, senza mezze misure. Ondeggiando fra il troppo e il niente, tra l’enfasi altisonante, le «purghe staliniane» di Maroni, «l’amore e la passione» di Boschi per il Tirolo, l’«esercizio di purificazione collettiva» di Di Battista, l’auto celebrazione di Mastella come Rolling stones, e la piatta volgarità dei “poltronari”, delle querele, delle miserie.

L’omologazione ha messo in fuga la gradualità, la complessità, i distinguo, i residui delle culture politiche. Tutti indistintamente procedono per superlativi; tutti intimano di “chiedere scusa”; tutti come pappagalli denunciano le altrui “fakenews”; tutti si accusano di aver “copiato” i programmi elettorali, che nessuno giustamente legge, salvo scoprire che la fonte comune, come per gli studenti somari, è Wikipedia.

La mancanza di fantasia non grida più nemmeno vendetta, sostituita com’è da una specie di flebile e rassegnata eco di espressioni già sentite che ricicciano fuori contesto. Dopo la trovatona delle “mele marce” (neanche fossero i carabinieri del caso Marrazzo), e dopo il pronto rimpallo renziano del “mariuolo”, poi ritirato per intercessione del fiero alleato post-craxiano, Di Maio ha avuto un colpo di genio sfoderando il ritornello della canzone vincitrice di Sanremo: «Non ci avete fatto niente» - ah, però!

Il paesaggio vocale è desolato di sterpi, spini, detriti e spunzoni semantici di cui non resterà nemmeno il ricordo. Risuonano inedite e pericolose scemenze tipo la “razza bianca” del leghista Fontana e innocui riciclaggi travestiti da sciocchezzuole per cui il simbolo scelto dal cartello della Lorenzin, lungi dal somigliare alla margherita di Rutelli - non sia mai! - è un fiore «petaloso e giallo come il sole»: segue e precede citazione della canzoncina di Sergio Endrigo. Nel frattempo va pure molto la “quarta gamba” - ma l’onorevole Lupi, cui non difetta il candore, ha pure evocato seriamente la terza, che potrebbe essere il suo partitino, vai a sapere.

Ma chi gli crede? Chi gli crede più? Morta la parola, bardato a lutto rischia di ritrovarsi il pubblico, i destinatari, noi, gli allocchi. Così, l’estrema e disperata spudoratezza va a caccia di creduloni riesumando accenni di retorica 2.0. Immancabile, in questo senso, “l’orgoglio”, in genere delle proprie manie e idiozie; e pure immancabili “i nostri figli” - a parte Renzi che con la mano sul cuore rammenta da Stazzema «il dovere della memoria», proprio lui, il Rottamatore.

D’altra parte Berlusconi sempre più parla come Totò, e dopo “l’erba Viagra”, autentico e perfino ammirevole nonsense, davanti agli industriali se n’è uscito con un interminabile pseudo-sondaggio sugli italiani e gli animali domestici da cui, a un certo punto, veniva fuori che alcuni - qui diceva la percentuale - dormono con il cane o il gatto nel letto e alcuni altri - di nuovo la percentuale - lo preferiscono al partner, e nessuno in platea capiva se era vero, se era una battuta, l’applauso stentava, e lui riempiva il silenzio con altri suoni ed elencazioni. Come quando, con un giornalista che stava troppo a sottilizzare su un certo condono edilizio, se lo fosse o se non lo fosse, Silvione se n’è uscito come solo lui: «Chiamatelo un po’ come vi pare», quindi è ripartito in quarta sulle tasse, le pensioni, e altre sue enumerazioni.

E il guaio supplementare è che ci si sente pure in dubbio a esporre, nudo e crudo, il certificato di morte del vecchio e caro elettoralismo ciarliero, delle solite balle, che magari dipende dal livello scarso degli spin doctor, dal ritorno della proporzionale, dalla sicura mancanza di un vincitore, per cui bla bla bla, allo sfinimento.

D’altra parte c’entrano di sicuro anche i giornalisti e in un Paese nel quale la ministra dell’Istruzione dice «il più migliore» sembra vano star lì a formalizzarsi dinanzi ai congiuntivi dell’aspirante premier a Cinque stelle o al sindaco dello Scarpone, Pirozzi, che dice o gli fanno dire «la corazzata Potiosky».

Se è per questo - detto da un consapevole babbione - la classe politica non ha mai parlato peggio. Una linguaccia bastarda, un’orrida favella che tiene assieme italiano, inglese, dialetti, politichese, ammiccamenti filmici e calcistici, segni del consumo, preziosismi notarili e aggressività social: “flat tax”, “inciucio”, “ius soli”, “Spelacchio”, “larghe intese”, “tocca vince” (il suddetto Scarpone), “come Rocky” (il pugile, secondo Paola Taverna), “l’unico scopo precipuo” (comunicato con cui Letta e Ghedini assicuravano di non aver litigato), “Er Moviola” (soprannome consapevolmente accettato dal premier). Tra le virate narcisistiche di Bersani («Io da moderatamente bersaniano dico che...») e Renzi che si paragona alla Red Bull, non fanno più nemmeno effetto gli ormai frequenti accessi radiofonici di Sgarbi che nei confronti del competitor Di Maio mostrano una problematica verve di ordine sadico-anale: «scoreggia fritta», «cacarella», «supposta», «guttalax».

Ma al dunque: fanno sul serio? No, ma è peggio. Già retrocesse a “chiacchiere”, le parole si sono ulteriormente degradate fino a perdere la loro forza connotativa. E per quanto possa suonare cataclismatico, una volta morte si sono allontanate dal mondo reale, non corrispondono più alle cose, hanno perso ogni significato, sono perciò inutili e insieme ingombranti come cadaveri insepolti.

Come sia successo è già più complesso dire: il primato delle immagini, le menzogne premiate, i vaffa-day, le manette facili, la moltiplicazione degli schermi, le gaffe, i lapsus, la dittatura del presente, i cuoricini, la fine del partito pedagogico e di massa, i talk e i crash-show, i 140 caratteri o quanti sono, il deserto dei progetti, la centralità di Razzi & Crozza, il politicamente corretto, il confine mobile tra Bruno Vespa e Barbara D’Urso...
Ma non sono gli elenchi che salveranno il Logos dal vuoto, dal nulla, dall’insignificanza di questo pezzettino di tempo che non sta nemmeno per finire.

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