Può sembrare incredibile , ma uno dei pochi edifici rimasti in piedi in quel “paesaggio dopo la battaglia” che è l’Italia post-elezioni sembra essere il nostro vituperato cinema. O meglio il nostro sistema audiovisivo nel suo insieme, oggetto dell’ambiziosa riforma varata a fine 2016 dal ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini, poi entrata in vigore con molta lentezza a suon di decreti attuativi nell’anno seguente, suscitando ansie e polemiche tra gli addetti ai lavori. Orfani non solo di una interpretazione univoca della nuova normativa ispirata al modello francese, ma soprattutto di quei contributi statali senza i quali l’intero apparato produttivo e promozionale, film, serie tv, festival, distribuzione, premi e premiolini, rischiava di restare a corto di fondi oltre che di credibilità.
Invece: sorpresa e italianissimo miracolo. Mentre il paese affronta la più grave crisi politica del secolo, cinema e televisione cavalcano un’onda sempre più alta, se non sul piano dei risultati artistici, sempre imprevedibili, almeno su quello dei numeri, grazie a una legge cui anche i critici più severi concedono molti meriti. Come l’aver fissato una cifra certa e consistente, non meno di 400 milioni annui, per quel Fondo cinema e audiovisivo che sosterrà l’intero settore, dalla produzione alle sale, dalla digitalizzazione degli archivi alla formazione del gusto nel pubblico. Gusto da coltivare sia insegnando finalmente cinema a scuola, sia imponendo a tv e piattaforme quote crescenti di opere italiane ed europee.
Anche se il fiore all’occhiello della riforma, accanto all’irrobustimento dei tax credit, sono i nuovi criteri “automatici” di finanziamento. I fondi cioè non sono più erogati sul progetto sotto forma di sostegno alla produzione, come una volta; ma a posteriori, sui risultati concreti, grazie a un sistema di valutazione che incrociando criteri economici e culturali attribuisce a ogni film un punteggio in base al quale il produttore, a stagione conclusa, si vede accreditare una certa cifra. Che non può incassare ma solo reinvestire, entro tre anni, nella produzione, nella scrittura o nello sviluppo di un film, un documentario, un cortometraggio, una serie tv.
Che cosa significa in concreto?
Spulciando le tabelle ministeriali scopriamo che quando un film viene venduto all’estero il produttore conquista 10 punti per ogni paese, mentre se la regista è donna, poniamo, si aggiudica 15 punti. Se poi l’opera ottiene contributi da uno dei tanti programmi di sostegno europei, ecco 50 punti di bonus. Se gareggia nei festival di serie A (Cannes, Venezia, Berlino) i punti diventano 100, e 100 sono anche se finisce nella cinquina degli Oscar (200 per la statuetta). Va meno bene alle sezioni parallele e ai festival di seconda fascia: la Quinzaine di Cannes e le veneziane Giornate degli Autori, per dire, valgono 50 punti, ma i festival di Roma, Torino, Giffoni, Rotterdam, Karlovy Vary, e perfino il prestigioso Sundance, crollano a 25.
Non mancano ovviamente gli allori nazionali ed europei. Entrare in cinquina come miglior film ai David e ai Nastri d’argento (ma vale anche per Efa, Goya, Bafta e César) dà 50 punti, che raddoppiano se si porta a casa il premio. Solo 25 punti, invece, democraticamente, per le altre categorie artistiche, che il film vinca o entri in cinquina. Mentre per documentari e opere prime o seconde, categorie a rischio, i punti complessivi vengono maggiorati del 30 per cento. Una sagra della meritocrazia insomma, impostata con criteri un po’ rigidi magari (festival e premi non sono infallibili) ma più che accettabili.
Questa però è solo la metà della torta, anzi il 40 per cento. Il restante 60 per cento viene erogato dal Ministero secondo parametri economici. A fare punteggio, dunque, sono le vendite tv o home video e naturalmente gli incassi (1 punto ogni 5000 euro fino al primo milione, poi 1 punto ogni 7.500 euro e via calando fino a un massimo di 5 milioni, oltre i quali il film evidentemente non ha bisogno di ulteriore sostegno). Ed è qui che tra i produttori e gli autori, in particolare quelli dell’Anac, l’associazione più antica e battagliera, sono iniziate discussioni e polemiche. Perché determinare il 60 per cento dei contributi automatici secondo parametri economici? «Nella prima bozza della legge le percentuali erano inverse, il 70 per cento veniva assegnato su base culturale», assicura Francesco Martinotti, presidente Anac. Poi le imprese riunite nell’Anica si sono impuntate e alla fine ci si è accordati sul 60/40.
Punto ai produttori e palla al centro, dunque. I progetti e gli autori più esposti possono contare sui “contributi selettivi” assegnati da una commissione di esperti. A meritare cure particolari per sopravvivere alle durezze del mercato sono i registi esordienti, gli sceneggiatori (per la prima volta), gli autori under 35 e tutti i film detti “difficili” (non è un obbrobrio italiano ma una definizione europea), nel senso di difficili da finanziare, non da consumare, le startup, con aiuti e meccanismi che consentono agli autori più abili di autoprodurre o autodistribuire un film. Ma anche qui non mancano i dubbi.
Primo: a vagliare, gratis, la massa mostruosa di progetti accumulatasi nel limbo del 2017 (solo le sceneggiature complete sono più di 500) saranno cinque esperti anzi quattro, dopo le dimissioni di Pupi Avati: Daria Bignardi, Marina Cicogna, Enrico Magrelli e Paolo Mereghetti. L’idea era abolire le chiacchierate commissioni ministeriali degli scorsi decenni, spesso teatro di scambi e pastette. Ma da soli non possono farcela. Ed ecco entrare in scena un battaglione di consulenti candidati dalle varie associazioni professionali, e scelti dal Ministero d’intesa con i quattro supercommissari per aiutarli a districare la matassa di script e progetti.
Impresa titanica oltre che impervia. «Il lavoro di scrematura è delicato, implica competenza ma anche riservatezza», ammonisce Roberto Andò, il regista di “Viva la libertà” e “Le confessioni”, ora al montaggio di “Una storia senza nome”. «Vero, ma bisogna anche fidarsi e imparare a prendersi le proprie responsabilità», gli fa eco Riccardo Tozzi, fondatore di Cattleya, prima società di produzione italiana. «In Francia e Gran Bretagna decidono in pochissimi, qui invece domina la cultura del sospetto».
Resta il fatto che la coperta dei contributi selettivi è corta, anche perché dai 72 milioni in dotazione devono uscirne circa 40 destinati a finanziare Istituto Luce, Centro Sperimentale, Biennale Cinema di Venezia, Cineteca di Bologna, Museo del Cinema di Torino. Una scelta forse inevitabile che però vede contrari anche i più accesi sostenitori della legge.
Alla fine resta sul tappeto la domanda forse più importante. La nuova legge, «fortemente orientata al sostegno delle imprese più che a quello degli autori», come ricorda Andò, finirà per favorire solo i soggetti più forti o consente di crescere anche a piccole e medie produzioni, numericamente dominanti in Italia? È presto per dirlo, i segnali sono controversi. Intanto «il tax credit, portato al 30 per cento, ora è cedibile alle banche, dunque può diventare denaro contante da investire in produzione, dettaglio fondamentale per una piccola società come la nostra» dice Gregorio Paonessa di Vivo Film, reduce da Berlino con “Figlia mia” di Laura Bispuri.
Però a guardare bene «il problema è proprio qui», sottolinea Francesca Medolago Albani, dirigente Anica e membro del Consiglio superiore del cinema e dell’audiovisivo, nuovo organismo consultivo del ministro con compiti di controllo e indirizzo. «Le nostre aziende audiovisive sono troppo piccole per competere a livello internazionale. Cattleya era 25ma nell’ultima classifica europea. Vicino a francesi e inglesi siamo nani».
Il futuro del nostro audiovisivo (cinema e serie tv, in pieno boom grazie anche allo sbarco di Amazon e Netflix come produttori), sarà industriale o non sarà, sembra dire la legge. Chi ricorda il passato artigianale del nostro cinema, anche il migliore, non può nascondere un brivido. Ci saranno ancora sale per i film più originali e coraggiosi? O dopo i festival finiranno direttamente in tv, di notte o on demand?