I David di Donatello, gli “Oscar del cinema italiano”, si avvicinano alla consegna, trasmessa dalla Rai il 21 marzo. «Un momento in cui il cinema racconta se stesso», dice Roberto Andò. Capace di rappresentare però la propria parte migliore?
A innescare il dibattito sono stati Ficarra e Picone, record di incassi con “L’ora legale”, che hanno annunciato la decisione di non partecipare al concorso, motivando la scelta con una critica ai meccanismi del voto e all’attenzione dedicata ai film da parte della giuria. Il 2018 potrebbe rivelarsi d’altronde un anno di cambiamenti. Dopo 35 anni sotto l’impronta unica, e storica, di Gian Luigi Rondi, e un periodo di transizione, il consiglio direttivo ha affidato il futuro del David a Piera Detassis, esperta di cinema e fondatrice della rivista Ciak.
«Gran parte dell’insoddisfazione è dovuta al numero e alla qualifica di chi fa parte dell’accademia», spiega Andò, regista, autore, componente dell’assemblea dei soci del David. «È necessario risolvere questo sospetto per ridare al premio la credibilità che merita».
Come gli Oscar o i César in Francia, i David sono un riconoscimento di categoria. Vengono cioè assegnati da chi il cinema lo fa ogni giorno. O almeno così dovrebbe essere. Nell’attuale elenco di circa 1400 giurati, di cui 1200 votanti, ci sono sì, i vincitori e i nominati delle passate edizioni, insieme a registi, tecnici del suono, montatori, attori, produttori. Ma anche alcune “eccellenze del mondo dello spettacolo”, cooptate dal direttivo fino al 2009. Dopo quell’anno, gli inviti si sono fermati. Nel frattempo hanno però consegnato le chiavi anche a funzionari di Stato, giudici, banchieri, generali o imprenditori.
Fra questi si ritrova Roberta Lubich, registrata nel 2008 alla voce “Lottomatica”, di cui curava la comunicazione. Prima moglie di Pier Ferdinando Casini, ha seguito la promozione del Festival dei Due Mondi e si è occupata delle relazioni esterne dell’intramontabile Eur. O ci si imbatte in Giovanni Russo, grande albergatore di Sorrento. In uomini di Stato come Goffredo Mencagli, generale dei Carabinieri in pensione, o Vico Vicenzi, ex direttore degli affari generali del Senato. È rimasto solo accademico l’imprenditore Cristiano Raminella, “padrino della Q8 in Italia”, mentre resta giurato (ovvero ha votato negli ultimi anni) l’ex presidente dell’autorità delle comunicazioni Antonio Catricalà. Dietro le nomination insomma non ci sono solo frequentatori assidui dei set. E a fare massa sono le associazioni di categoria. “L’associazione cattolica esercenti cinema” ha 11 giurati. E così via. Se 1.400 nomi sembrano molti, il confronto con l’estero ci dipinge parchi: in Francia gli accademici sono 4mila, i loro nomi segreti. Negli States, gli Oscar possono contare su una base di oltre 6 mila votanti.
«L’ampiezza della giuria è un punto di forza, una garanzia di imparzialità», riflette Paolo Genovese, sceneggiatore e regista che ha vinto con “Perfetti sconosciuti” il miglior film. «Il problema principale del David resta la scarsa attenzione ai riconoscimenti cosiddetti “tecnici”. Se le cinquine dei candidati sono migliorate, negli anni, su questo resta la sensazione di un automatismo». I migliori fonici, truccatori, acconciatori o scenografi rischiano cioè di vincere solo «a cascata»: «Generalmente il film che prende i premi più importanti fa filotto», e trascina all’assegnazione degli altri. «Il rischio è premiare gruppi di lavoro già consolidati, prestando meno attenzione ai talenti emergenti», continua Francesco Munzi, vincitore nel 2015 con “Anime nere”. «Mentre uno dei ruoli del David dovrebbe essere intercettare eccellenze in tutte le specificità. Bisogna lavorare sulla giuria, sui criteri con cui è stata formata». Per un premio che «sta dimostrando di poter andare oltre ai film più esposti e distribuiti. Negli ultimi anni abbiamo visto una parziale rottura di questi schemi. Lo dico pensando anche ad “Anime nere”, un piccolo film che si è fatto strada da solo, prima a Venezia e poi al David».
Elio Germano racconta di aver scritto “attore” sulla carta d’identità solo dopo la prima vittoria al David: «Sancisce un ingresso. Capita spesso che performance incredibili non vengano scelte, mentre ti ritrovi incoronato per altri titoli solo perché di maggior successo», prosegue: «Il cinema è uno sforzo collettivo. Sono queste le professionalità che dovrebbero essere al centro del premio. Ogni reparto funziona quando sparisce, quando non lo vedi. Io faccio l’attore da 20 anni e posso capire il lavoro dei miei colleghi, ma come faccio a giudicare il miglior truccatore?». Ha una proposta: «Allargare il più possibile la base di voto per il miglior film, come fosse Sanremo. Renderlo popolare. E limitare ai tecnici di ogni settore le altre categorie».
Anche il regista Andrea Segre ha una proposta. Rivolta ad affrontare un altro dei problemi dei David: l’improbabilità che i 1200 giurati “attivi” vedano tutti i 120 film in concorso ogni anno - ovvero i film proiettati per almeno sette giorni nelle sale, oltre ai 70 documentari. «Molte persone, compreso il sottoscritto, non riescono a vedere tutto. Diamo precedenza a ciò che ci attrae per critica o gusto. Mea culpa», racconta Segre, riprendendo parole dette da tutti gli intervistati: «Ma forse è il meccanismo di voto che dovrebbe diventare più competente e responsabile. Ad esempio: se fossi chiamato a votare, non so, ogni quattro anni, potrei dedicare di certo l’attenzione che il premio merita, come quando sono coinvolto in un festival». Segre è convinto «che ci sia spazio di democrazia» nel risultato. Che vada solo migliorato un po’. Per sbrogliarlo dal rischio di correnti, condizionamenti, che ogni concorso di mercato proietta.
Ne è molto meno convinto Pietro Valsecchi, produttore di Checco Zalone e altri successi, che guarda al David come espressione di una «lobby obsoleta che non ha mai dato molto al cinema e ha perso il suo peso specifico». «Non frequento gente del cinema, quello che mi preme è fare buoni film», dice netto. Valsecchi sogna un premio «solo per gli emergenti», a cui una candidatura servirebbe davvero, mentre ora sono propri i “piccoli” a far più fatica a farsi notare. «Recentemente ho visto l’esordio di un regista napoletano, girato con 16 mila euro: un capolavoro, distribuito in pochissime sale», racconta Claudio Bonivento, il produttore di film ormai classici come “La Scorta” o “Mery per sempre”: «È a lavori così che dovrebbe essere rivolto il concorso. Sono felice della nomination di “A Ciambra”, la meritava. Che il premio serva a farli conoscere». Più che accreditare sistemi già saldi.
Interrogarsi sul voto è importante, d’altronde, vista l’importanza del premio. Non tanto economica (il David non dà assegni) quanto di autorevolezza: è l’unico a rappresentare l’accademia in Italia. A differenza di riconoscimenti come il Nastro d’Argento, assegnato dai circa 200 iscritti al Sindacato dei giornalisti di settore. Nastri e David hanno in comune però il valore dato loro dal ministero dei Beni Culturali. Nella nuova legge sul cinema è previsto che chi entra in questi concorsi riceva automaticamente dai 25 ai 100 punti. Sono i due premi del paese. Per questo i Nastri ottengono circa 170 mila euro di contributo statale all’anno: gli altri fondi arrivano da sponsor. Che i David non hanno, contando su uno stanziamento pubblico di 740 mila euro. E non chiedendo (per ora) un contributo agli associati, a differenza degli omologhi francesi.
Ora tutto è nelle mani di Piera Detassis. Appena insediata, promette che dal 22 marzo ascolterà i professionisti e lavorerà per ridare fiducia al premio. Del suo programma può anticipare poco: prima dovrà discuterlo con il direttivo. Ma ha alcune certezze: aumentare la presenza femminile (solo 500 le giurate). Valorizzare i titoli minori. E portare oltre la cerimonia questa festa per il cinema. Per far sì che lo rappresenti davvero.