All’ombra delle architetture glamour vive una città noir, nostalgica e meticcia, sfondo di molti romanzi. Viaggio con cinque scrittori, guide d’eccezione: Biondillo, Colaprico, Kuruvilla, Philopat e Robecchi. Che costruiscono un contro-racconto potente e alternativo della metropoli. Mentre tutto si trasforma nello spazio di un mattino

Come una spada conficcata nel cielo, la guglia aguzza della Torre Unicredit svetta in fondo a viale Zara, oltre il quartiere Isola. Il simbolo della Milano contemporanea domina il nuovo skyline insieme ai grattacieli di CityLife: la Torre Isozaki, la Torre Hadid e la nascente Torre Libeskind, dai nomi delle archistar che le hanno progettate. La città cool strizza l’occhio all’Europa e si proietta nel mondo con la sua movida, il Fuorisalone e il Bosco verticale di Stefano Boeri, piazza Gae Aulenti e la torre firmata Rem Koolhaas, appena inaugurata nella sede della Fondazione Prada. Ancora una volta Milano abbraccia la modernità, che diventa la nota dominante di una narrazione a senso unico.
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Complice il degrado di Roma, il capoluogo lombardo si consolida come icona scintillante di progresso. In parallelo, però, alcuni scrittori, artisti, registi e autori di graphic novel costruiscono un contro-racconto potente e alternativo della città, ribaltano luoghi comuni, mettono in luce contraddizioni, si allontanano dal centro, mentre tutto si trasforma nello spazio di un mattino. Senza nostalgismi, ricordano il passato e celebrano i protagonisti di un tempo. La Milano impoverita dei figli degli operai di Sesto San Giovanni e del Giambellino, la Milano della “ligera”, la malavita milanese di Francis Turatello e Renato Vallanzasca, che ispirò Ornella Vanoni, Enzo Jannacci, Giorgio Gaber, poi soppiantata da camorra e ’ndrangheta.
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Insieme ad alcuni scrittori abbiamo esplorato come flâneur l’altra Milano, sfondo di racconti e romanzi: con Alessandro Robecchi siamo stati alla Maggiolina, enclave residenziale un po’ anonima stretta tra due vialoni che portano verso la periferia nord; con Gianni Biondillo abbiamo attraversato a piedi la multietnica via Padova fino alla zona dei giovani creativi, North of Loreto (NoLo); con Gabriella Kuruvilla abbiamo visitato la brulicante Chinatown; insieme a Marco Philopat abbiamo percorso i Navigli ricordando gli anni Ottanta della controcultura, mentre la città era «infestata da yuppie e zombie televisivi». Con lui siamo tornati nello storico centro sociale Cox 18, oggi assediato da sushi bar, focaccerie, ristoranti peruviani.

SUL LUOGO DEL DELITTO
Solo due chilometri separano il grattacielo Unicredit dai villini liberty e dalle bizzarre case a forma di igloo della Maggiolina, ma questo quartiere sembra un atomo fuori dal tempo. Eppure Robecchi, giornalista, autore tv di Maurizio Crozza e di fortunati romanzi editi da Sellerio (“Torto marcio”, “Dove sei stanotte”, tra gli altri) ha deciso di ambientare in queste strade tranquille il suo quinto giallo, “Follia maggiore”. «Tu stai pensando che in quella zona lì, specie il versante Maggiolina, in quelle vie con le ville, non succede mai un cazzo. È vero. Però pensi anche che le coincidenze non ti piacciono. Ieri vi dico di dare un’occhiata lì, una zona tranquilla, niente da segnalare, invece nel giro di due giorni abbiamo un tizio che dice di essere dei nostri e chiede il pizzo, e adesso questa qua, che ne dite?»: così parla nel romanzo il commissario Gregori, sferzando la coppia di poliziotti Ghezzi e Carella, alle prese con la misteriosa morte di una insegnante di 59 anni, Giulia Zerbi, che sembra uno scippo finito male ma in realtà è un caso più complesso per i due investigatori, Carlo Monterossi e Oscar Falcone.
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Un romanzo che oscilla tra realtà e fiction. «Racconto una Milano in cui la precarietà di vita non riguarda solo il proletariato ma ha contagiato il ceto medio, che ha paura e si vende agli strozzini per 30mila euro», dice Robecchi mentre torniamo, se così si può dire, sul luogo del delitto: via Torelli Viollier numero 18, dove l’insegnante di “Follia maggiore” viveva con la figlia Sonia, promettente soprano. Nella realtà tutto torna: il bar del cinese, i villini, i palazzi residenziali. E mentre attraversa il quartiere lo scrittore 57enne riflette sulla città e sul suo immaginario. «Milano è una città piccola, fatta a spicchi. Esistono vie che diventano confini tra mondi diversi, come i casermoni di viale Zara: attraversi la strada e cambia tutto. Non si tratta solo di differenze di classe, ma antropologiche».

Dai gialli di Robecchi nasceranno quattro film per la tv (Sky Movie), la Palomar ha acquistato i diritti: dovrebbero girare i primi due il prossimo inverno, la messa in onda è prevista nel 2019. Nei romanzi precedenti lo scrittore ha scandagliato a fondo la città: “Dove sei stanotte” è ambientato anche al Corvetto, zona di frontiera dove ogni giorno la gente si mette in coda per pane e latte, il quartiere che l’investigatore Monterossi «pensava fosse solo un’uscita della Tangenziale, e invece è un mondo». Riflette Robecchi: «Milano è stata raccontata benissimo fino all’inizio degli anni Ottanta, nella letteratura e nel cinema. Ma l’ultima volta che in un film si è vista una casa di edilizia sociale era il 1974, con “Romanzo popolare” di Monicelli. In seguito Milano è diventata la città burina e funzionale dell’orribile commedia all’italiana degli anni Ottanta e Novanta, oppure è prevalsa l’idea rassicurante della città ricca ed efficiente che si basa su una fake news in parte vera: la città funziona, effettivamente, ma se chiedi a un abitante del Corvetto: “Hai visto l’Expo?”, quello ti guarda come una mucca guarda il treno. Non sono contrario alla modernità, anzi. Ma questa narrazione è tossica, nasconde le diseguaglianze».
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LE DUE MILANO CHE NON SI INCONTRANO MAI
A guardare le statistiche, Milano non è mai stata così rappresentata da cinema, tv, moda, pubblicità. Oltre tremila set in sei anni, in crescita esponenziale. I lungometraggi si contano sulle dita di una mano, niente a che vedere con la macchina produttiva romana. Tra i film recenti il teen movie “Succede” diretto da Francesca Mazzoleni, tratto dall’omonimo best seller della youtuber Sofia Viscardi; la commedia “Il vegetale”, scritta e diretta da Gennaro Nunziante con Fabio Rovazzi, ambientato tra i grattacieli dove il protagonista Fabio, laureato, onesto e idealista, si aggira distribuendo volantini; “Gli sdraiati” di Francesca Archibugi, tratto dal successo di Michele Serra, tra adolescenti pigri e genitori troppo presi da se stessi. I film mostrano quartieri diversi, anche se la classifica dei luoghi più immortalati è dominata dal solito quartetto: Duomo, Galleria, Scala e Palazzo Reale.

Più che l’industria audiovisiva, dunque, è la letteratura a indagare l’altra Milano. Via Padova, ad esempio. Simbolo del melting pot milanese con polemiche annesse, decine di etnie concentrate in una lingua d’asfalto che parte da piazzale Loreto e si spinge verso nordest. Il resto d’Italia se ne accorge solo sull’onda della cronaca, quando si evocano il coprifuoco e l’esercito. La realtà è più complessa e sorprendente.
Nel parco ex Trotter ad esempio, considerato centro di spaccio a cielo aperto, sono quasi finiti i lavori di ristrutturazione dell’ex convitto degli anni Venti, finanziati con 12 milioni di euro da Comune e fondazione Cariplo. Sette padiglioni comunicanti dove presto traslocheranno gli studenti dell’istituto comprensivo Giacosa, la scuola più multietnica della città.
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«Da sempre Milano è terra di accoglienza e immigrazione. Prima gli altri settentrionali, poi meridionali e veneti, infine gli stranieri. Io ne sono la prova vivente: papà campano, madre siciliana. Si sceglie di essere milanesi, Scerbanenco diceva che Milano è la Chicago d’Italia proprio per questa mescolanza, il luogo ideale in cui ambientare un giallo», afferma Gianni Biondillo, architetto e scrittore 52enne, mentre sorseggia un’aranciata al bar della bocciofila Caccialanza in via Padova 91, intorno a noi gli anziani giocano a carte.

Cresciuto a Quarto Oggiaro, in periferia, è venuto ad abitare in questa zona con la famiglia. Qualche anno fa ha scritto insieme a Michele Monina “Tangenziali”, struggente diario di viaggio di due viandanti ai margini di Milano tra luoghi, aneddoti, cantieri in corso. E ha inventato l’ispettore Michele Ferraro, protagonista di noir di successo usciti per Guanda (“Con la morte nel cuore”, “Cronaca di un suicidio”). «L’ispettore Ferraro è il mio espediente per muovermi nella città e raccontarne il cambiamento. Lo metto in situazioni estreme partendo da fatti di cronaca, per disegnare la topografia di Milano», prosegue lo scrittore.

Nel romanzo “L’incanto delle sirene” il poliziotto deve risolvere il caso di un omicidio di una top model durante la settimana della moda, vicenda che si intreccia con l’occupazione di case popolari, «per raccontare le due Milano che non si incontrano mai». Per l’occasione lo scrittore ha immaginato una sfilata in piazza Gae Aulenti, il più scenografico palcoscenico della metropoli. «Da architetto dico che è un posto tamarro, da milanese ci vado», aggiunge Biondillo, ma precisa: «È la natura di questa città: cambia di continuo, ha voglia di modernità e poi ha nostalgia di ciò che ha perduto», conclude mentre ci allontaniamo dalla bocciofila: i muri a ridosso della ferrovia sono coperti di graffiti, qua e là sono spuntati studi di design, startup, gallerie d’arte. Ha un nome nuovo la zona dei giovani creativi a nord di piazzale Loreto: North of Loreto o NoLo, acronimo che profuma di gentrificazione così come South of Sesto (SoS), a sud di Sesto San Giovanni.

COLAZIONE A CHINATOWN
Cambia in fretta la città, dalla periferia al centro storico. Via Paolo Sarpi, Chinatown, esterno giorno. Qui i nuovi milanesi con gli occhi a mandorla sono i parenti lontani di quelli che insorsero nel 2007 per una multa, mettendo a ferro e fuoco il quartiere. Adesso fanno gli imprenditori, aprono locali fighetti, si vestono alla moda, parlano un italiano perfetto. Con mille contraddizioni. Gabriella Kuruvilla indaga la società meticcia con gli strumenti della letteratura: insieme ad altre autrici (Ingy Mubiayi, Igiaba Scego, Laila Wadia) diversi anni fa pubblicò per Laterza la fortunata antologia di racconti “Pecore nere”.

La scrittrice è nata a Milano a fine anni Sessanta da padre indiano e madre italiana, lo sguardo giusto per raccontare l’altra metà di Milano mescolando italiano, neologismi, dialetto. “El burg di scigulatt”, il borgo degli ortolani come un tempo chiamavano il quartiere cinese. «“Alura i sciopa anca lur”, mi ha detto un signore. “Pare di sì”, gli ho risposto. La leggenda che i cinesi, una volta defunti, vengano fatti sparire per riciclare i documenti, non prevede l’ipotesi del funerale classico: le teorie più gettonate sono quella culinaria, i cadaveri vengono cucinati nei ristoranti e quella chimica, le salme vengono sciolte nell’acido», dice Stefania, la pittrice protagonista di una delle storie di “Milano, fin qui tutto bene” (Laterza), intreccio di vicende tra via Padova, viale Monza, Corvetto e, appunto, via Sarpi. All’epoca in cui Kuruvilla scrisse il libro erano considerate quattro zone a rischio, sotto coprifuoco. «In realtà basta guardarsi intorno per capire come mai i cinesi in Italia non muoiono mai», prosegue il personaggio nel libro: «Quelli giovani, la maggioranza, non hanno l’età per farlo e quelli vecchi, la minoranza, preferiscono tornare in patria appena possono. Adesso però preferirebbero rientrare in Cina comunque: alcuni hanno problemi economici, altri soffrono di disagi psicologici. C’è chi diventa barbone, e chi folle. C’è anche chi si suicida. Non è vero che i cinesi in Italia non muoiono mai».
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Leggende metropolitane, luoghi comuni da sfatare. «A differenza di New York o Londra, dove le Chinatown sono abitate dai cinesi, a Milano non sono qui ma in altre zone: via Padova, San Siro. In via Paolo Sarpi vivono soprattutto italiani tra i trenta e i cinquant’anni che fanno mestieri creativi», dice Kuruvilla seduta nel déhors del bistrot Sarpi Otto. A giudicare dal tipo di clienti del locale sembra avere ragione: «Milano è una città piccola, i quartieri scivolano uno nell’altro. La contaminazione tra mondi diversi è possibile, soprattutto di notte». Notti che non finiscono mai, tra risse, cocktail e microspie, come quelle trascorse da Corrado Genito, ex investigatore dei carabinieri passato alla sicurezza privata, protagonista del romanzo “La strategia del gambero” (Feltrinelli) di Piero Colaprico, scrittore e capo della redazione milanese di Repubblica. Per ripulire dalla mafia Ranirate, immaginario comune della Brianza, Genito mette insieme una squadra d’eccezione: un anziano pugile specializzato in locali notturni, un truffatore d’alto bordo, un gruppo di mercenari serbi, un plotone di escort ucraine. «Da sempre Milano è la metropoli più gangsteristica d’Italia, ha vissuto sulla propria pelle il crimine prima di altre città: le bande di strada, lo spaccio degli studenti bene», spiega Colaprico: «Solo che ora la criminalità organizzata si è allargata ai paesi dell’hinterland, uno scrittore noir non può limitarsi a via Padova e Quarto Oggiaro. Deve guardare oltre».

C'ERA UNA VOLTA IL PUNK
Riaffiorano suggestioni, echi lontani. Un passato che torna con sfumature diverse, la nostalgia di Milano che si specchia nel futuro e rimpiange i tempi andati, tra le pieghe di graphic novel come “Un romantico a Milano”(Bao Publishing), in cui Sergio Gerasi racconta con un bel tratto intimista la vicenda di Drogo Colombo, illustratore in crisi che passa le giornate a cercare se stesso tra un cocktail e l’altro, passeggiando nei luoghi più caratteristici della città, mentre intrattiene conversazioni immaginarie con poeti, artisti, scrittori del passato: Alda Merini, Dino Buzzati, Piero Manzoni. Oppure, fumetti con un registro diverso come "Era Brera" (Coconino Press - Fandango) di Paolo Bacilieri (auotre di “Sweet Salgari”, “Fun” e “More Fun”, pubblicati dallo stesso editore), la storia di una famiglia milanese, i Brambilla, e del loro rapporto con la Pinacoteca nell’arco di un secolo.

Per costruire l’immaginario gli autori seguono strade diverse. Marco Philopat trasforma la storia che ha realmente vissuto in un romanzo pieno di episodi esilaranti, imprese incredibili e disavventure ai confini dell’impossibile. Vent’anni dopo aver raccontato la storia del punk italiano con “Costretti a sanguinare” (Agenzia X), lo scrittore ha dato alle stampe “I pirati dei Navigli” (Bompiani), appassionante pezzo di memoria della città tradotta in forma letteraria, un viaggio nella cultura underground tra il 1984 e il 1989, tra la Milano da bere e il crollo del Muro, azioni e provocazioni, eroina e speranze. È spiazzante tornare con Philopat nel centro sociale occupato Cox 18 (i milanesi lo chiamano Conchetta dal nome della strada), a due passi dalla Darsena che da anni è la patria della movida permanente dei Navigli. Occuparono lo spazio nei primi giorni del 1988, «in sordina, quasi di nascosto, simulando un trasloco della vecchia sede anarchica ai locali dell’ex ristorante il Genovese, di cui abbiamo addirittura le chiavi», scrive Philopat, che nel frattempo ha fondato due case editrici, Agenzia X e ShaKe Edizioni. Mentre al Cox 18 ancora oggi organizzano concerti, presentazioni di libri, festival di poesia, attività per il quartiere Ticinese, e ospitano la leggendaria Libreria Calusca fondata da Primo Moroni. Dietro l’angolo, la birreria Frizzi e Lazzi in via Torricelli resiste da allora, mentre intorno tutto cambia, soprattutto i prezzi delle case. «La nostra Milano è più moderna di quella di CityLife, perché si basa su un ideale di trasformazione della società più forte dell’individualismo dominante», conclude lo scrittore con una provocazione: «Bisogna alimentare queste sacche di resistenza, per affermare un nuovo modello di sostenibilità». La sfida è lanciata, Davide contro Golia. Squarci di utopia nella Milano dei grattacieli.

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