Una grande battaglia civile. Vinta con una buona legge. Il numero è in calo. Ma ancor oggi per tante donne è una drammatica lotteria. Tra interventi clandestini, false obiezioni di coscienza e pillole d’emergenza trovate on line

Era una «tragedia italiana», è stata una battaglia collettiva, simbolica, epocale. Una rivoluzione. «Imperfetta ma riuscita», come ha detto il medico e scrittore Carlo Flamigni. Dove è finita, quarant’anni dopo, la legge 194? Dirlo fuori dai cliché è difficilissimo. «Qualche tempo fa eravamo stati chiamati dagli studenti di un liceo di Roma, per discutere Mina Welby del fine vita e io di aborto. Mentre parlava lei i ragazzi erano affascinati, quando è venuto il mio turno erano, invece, distratti. Come se, sotto sotto, si domandassero: questo non è un problema, perché ti riscaldi tanto? Ma che cosa vuoi?». Mirella Parachini, ginecologa pioniera della 194 e attivista radicale, racconta così, con franchezza e ironia, l’ultima frontiera, il punto in cui la ruota si è fermata, per adesso almeno. Per i liceali del 2018, del resto, la legge che rende le donne libere di scegliere sull’interruzione di gravidanza è ancora più lontana di quanto non fosse, per i liceali del 1978 , il diritto di voto femminile. Un frammento delle cronache dell’epoca aiuta a misurare i passi: «Per noi l’autodeterminazione della donna, ormai, è diventata un principio intoccabile», proclamava alla Camera, in piena trattativa sulla legge, D’Alema a Ciriaco De Mita. Ma era D’Alema nel senso di Giuseppe, il padre di Massimo.
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Da quell’«ormai» sono passati quarant’anni. Dal milione e mezzo di aborti clandestini stimati dall’Unesco per l’Italia dei primi anni Settanta, e gli 84 mila effettuati nel 2016 secondo legge, i termini della questione si sono fatti «più sottili». Tra l’applicazione a macchia di leopardo, che in alcune regioni d’Italia muta il diritto «in una drammatica lotteria», come dice Stefania Cantore dell’Unione donne in Italia parlando della situazione difficile di Napoli e Campania, i toni spesso a torto pimpanti delle relazioni ministeriali, le campagne violente da parte degli anti-abortisti, che si sono preparati all’anniversario affiggendo a Roma il cartellone con il feto più grande che la storia ricordi. In mezzo a tutto ciò, si viaggia anche su altri canali di un diritto acquisito. Che va difeso “Per non tornare nel buio” come recita il recente libro di Livia Turco: ricordando, come dice Filomena Gallo, segretaria dell’Associazione Luca Coscioni, che «la 194 tutela la salute delle donne, che quindi renderla inapplicabile significa volerle colpire»; o lottando per migliorare, con una maggior diffusione dei farmaci, o per la contraccezione gratuita. Ma senza tralasciare il dato di fondo: la legge funziona, nonostante molte criticità.
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«Ci sono cose che non vanno, ma non bisogna fermarsi alla lamentela. Se guardo indietro, benedico una legge che è servita a portare avanti la libertà delle donne di scegliere su se stesse», dice ancora Parachini. Un diritto conquistato e in parte svuotato. Non solo per le difficoltà di accesso: anche perché, come racconta uno studio Istat elaborato in occasione dei 40 anni della 194, in Italia si fanno meno figli e in età più avanzata, è entrata in gioco la contraccezione d’emergenza (enorme la crescita di questi anni), e tra bassi tassi di fecondità e bassi tassi di aborti (tra i più esigui dei paesi occidentali), la questione si è spostata, è andata da un’altra parte.
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Molise, il caso limite
Saltano all’occhio, ad esempio, i dati raccolti per L’Espresso  un sondaggio secondo il quale il 90 per cento dei ragazzi interpellati, età compresa tra i 15 e i 18 anni, non è mai entrato in un consultorio; solo il 6 per cento crede che funzionino; soltanto il 4 andrebbe lì a parlare di una eventuale gravidanza. Fotografia di un fallimento. Ben oltre la realtà di una rete che ha sempre faticato ad avviarsi. La 194, in effetti, faceva dei consultori una pietra angolare del contatto con le donne, il primo punto di riferimento, dall’educazione alla contraccezione al rilascio del certificato per abortire. Un ruolo mai davvero sviluppato. Nel 1980 c’erano 917 consultori - nessuno in Molise, quattro in Sicilia. In trentasei anni se ne sono aggiunti appena mille.
Quarant’anni dopo la 194
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Nell’ultima relazione del ministero della Sanità, infatti, i consultori censiti risultano 1.944 (4 in Molise), pari a un tasso dello 0,6 per ventimila abitanti (per legge quel tasso dovrebbe essere 1, cioè quasi il doppio). «È chiaro che i ragazzi non frequentano i consultori, è un dato di evidenza: perché non li conoscono», spiega Anna Pompili, cofondatrice di Amica (Associazione Medici Italiani Contraccezione e Aborto): «Ormai i consultori non riescono più ad andare nelle scuole. Sono ridotti a fare le veci degli ambulatori. Hanno equipe ridotte all’osso, non si riesce a gestire nemmeno l’ordinario».
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La realtà è lontana anche dalle statistiche: «I dati ministeriali non la fotografano. Nella regione Lazio, ad esempio, sotto la voce “consultori” ci sono anche centri vaccinali, per disabili, di psichiatria infantile. A Milano, su 33 consultori, 12 sono privati e, di questi, 10 sono confessionali. Come può parlare di contraccezione il consultorio Massimiliano Kolbe? Al massimo, se va bene, parla di metodi naturali e della loro straordinaria efficacia», dice Pompili. Che porta un altro esempio: «Ho lavorato al consultorio di Cesano di Roma, una frazione importante, più di 10 mila abitanti e tante donne immigrate. In poco tempo sono andate in pensione, progressivamente: assistente sociale, ostetrica, psicologa. Alla fine eravamo rimaste in due ginecologhe con una infermiera. La Asl ci ha spostato ad altri consultori: ufficialmente però quello di Cesano resta aperto, c’è una infermiera due volte a settimana che risponde alle telefonate. E una ginecologa che va a fare i pap test ogni tanto». Sempre nel Lazio, la consulta dei consultori nel 2014 ha fatto una indagine, dalla quale risultava poco più della metà dei consultori avevano equipe mediche complete, e nella grande maggioranza dei casi i locali riuscivano a restare aperti due giorni su sette. La stessa relazione del ministero della Salute, in effetti, non nasconde la problematica di una «non adeguata presenza sul territorio». Che è alla base anche della scarsa diffusione dei metodi contraccettivi tra i giovani, un punto sul quale l’Italia continua a non brillare a paragone con il resto d’Europa
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Benedette pillole
Calano gli aborti: ogni anno sono un po’ meno, sulla serie lunga dagli oltre 200 mila della fine dei Settanta, fino agli 84 mila del 2016. Ovviamente anche perché cambiano gli stili di vita. Di questi anni è ad esempio il boom della contraccezione d’emergenza. Con l’entrata in commercio della pillola dei cinque giorni dopo (2012) e l’abolizione dell’obbligo di ricetta le vendite si sono moltiplicate: secondo i dati Aifa, la distribuzione della pillola dei cinque giorni dopo è schizzata dalle quasi 7,7 mila confezioni del 2012, alle 189 mila del 2016; e quella della Norlevo, nota come “pillola del giorno dopo”, nel 2016 ha registrato un dato di vendita pari a 214,532 confezioni, in aumento rispetto al 2015 in cui registrava 161,888 confezioni distribuite. Il che porta dritti alla domanda: «Visto che proprio per le giovanissime, negli ultimi anni, la percentuale di aborti non è calata, perché non rendere più facile l’accesso a questi farmaci anche per le minorenni?», dice Parachini.

Il buco nero del sommerso
I dati sono comunque in discesa. Non solo tra le italiane. Ma anche tra le immigrate, che rappresentano circa un terzo delle interruzioni totali, ma il cui tasso di abortività è in calo da qualche tempo. Tutto a posto dunque? Fino a un certo punto. «In ospedale poco tempo fa c’erano tante nigeriane, che improvvisamente sono tutte scomparse», racconta Pompili: «Il ministero si rallegra per il calo, ma non si domanda dove siano finite, quelle nigeriane. Oltre a sbandierare che siamo sotto i centomila aborti l’anno, si dovrebbe domandare se queste donne abbiano improvvisamente smesso di abortire, o se magari siano andate altrove», nota Pompili. Il sospetto, non riscontrabile in dati, è che in parte il fenomeno ritorni nel privato, fuorilegge, in casa, tra le mura. Non più mammane e ferri da calza, certo. La contemporaneità porta strumenti che prima non c’erano: il web e i farmaci. Via internet si ricava qualsiasi informazione, comprese tutte quelle necessarie ad abortire. Si può sapere a chi rivolgersi per ottenere ricette e certificati, si può trovare un qualsiasi aiuto e ogni genere di istruzione, ci si può anche procurare i farmaci necessari ad abortire. Una procedura più rischiosa, oltreché illegale: ma rendere difficili gli aborti spinge anche in quella direzione. Verso il Cytotec, ad esempio, un farmaco che una volta serviva per le ulcere gastriche. Così, in ospedale ci si finisce d’urgenza.

Quanto ai numeri, difficile quantificare i fuorilegge. Il ministero della Salute pubblica i dati Istat derivati da un modello statistico, che peraltro è invariato da anni. Secondo questi studi, a situarsi fuori dalla legge sono tra i 12 e i 15 mila aborti l’anno, più 3-5 mila delle straniere. Come racconta Filomena Gallo, però, i segnali concreti di questo fenomeno da una parte ci sono, dall’altra sono pochi. La relazione annuale del ministero della Giustizia (anche in via Arenula devono dire ogni anno come sta andando la 194 dal loro punto di vista) segnala che nel 2016 ci sono stati 33 procedimenti penali per violazione della 194, con 42 persone coinvolte. Troppo poche, in rapporto ai 20 mila stimati dall’Istat. Una esiguità che peraltro lo stesso rapporto del ministero della Giustizia sottolinea: quasi fosse una buona notizia, quando invece si tratta del segno di un mistero. Ma allora, come tornano i conti?

Ci sono solo piccolissimi segnali che indicano direzioni possibili. Ad esempio Women on web, un’organizzazione digitale “per il diritto all’aborto” con sede ad Amsterdam, invia per posta, a chiunque ne faccia richiesta, la combinazione di misoprostolo e mifepristone (le due pillole per l’aborto farmacologico) nei Paesi dove la pratica o è illegale o è inaccessibile: ebbene, secondo dati non ufficiali, le italiane li cercano sempre di più: 28 donne nel 2013, 53 nel 2014, 278 nel 2015, fino alle 474 del 2017. I numeri sono relativi, il trend però chiarissimo. Se questi sono i dati di chi sostiene la libera scelta della donna senza fini di lucro, c’è solo da supporre cosa possa accadere nei vasti mondi in cui il guadagno c’entra eccome. Per lo meno, significa che qualcosa non funziona, più di quanto le esultanze ministeriali non dicano.

In Italia del resto l’aborto farmacologico stenta a decollare: entrato in commercio nel 2009, in meno di dieci anni è passato dallo 0,7 al quasi 16 per cento del totale degli aborti. Una crescita veloce, che però è scarsissima, rispetto agli altri paesi in cui è consentito l’utilizzo della Ru486. «Tutti gli altri paesi europei sono sopra il 50 per cento», spiega Anna Pompili. Ci sono limitazioni oggettive, nel nostro Paese, che potrebbero essere superate. Ad esempio, nonostante la commercializzazione sia avvenuta attraverso il meccanismo del mutuo riconoscimento, l’Aifa ha stabilito che le italiane possono utilizzare la Ru486 fino alle sette settimane (49 giorni) mentre negli altri paesi europei il limite è più ampio e arriva a 63 giorni e le ultime raccomandazioni della Fda allargano il regime a settanta giorni, raccomandando che la somministrazione avvenga in casa. Da noi invece nella maggior parte delle regioni è ancora necessario il ricovero ospedaliero di tre giorni. Altro che casa. «Gli stessi farmaci servono per gli aborti spontanei: ma in quei casi, sempre secondo Aifa, possono essere somministrati in ambulatorio. Invece se si tratta di aborti volontari, no», dice Pompili.

Dove il diritto non esiste
Ovviamente, come racconta chi se ne occupa, se si affermasse l’aborto farmacologico sarebbero superati due dei limiti più gravi nell’applicazione della 194: l’obiezione di coscienza dei singoli medici e delle intere strutture ospedaliere. L’ultimo elemento, fa si che la 194 sia garantita, di fatto in poco più di metà delle strutture (si sfiora giusto adesso il 60 per cento): in teoria, invece, dovrebbe essere il cento per cento. Parachini è lineare: «La legge lo dice benissimo. L’ente ospedaliero è tenuto in ogni caso, in ogni caso ad assicurare l’espletamento. 
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L’espletamento, non il trasferimento». In pratica, infatti, tutto ciò significa che per interrompere la gravidanza è necessario spostarsi. Di provincia o di regione. Anche in questo caso i dati del ministero sbiadiscono il fenomeno, perché pubblicano i dati su base regionale. Ma già se, grazie all’Istat si scende a livello di provincia, il discorso è un po’ più chiaro: città come Isernia, Crotone, Frosinone o Fermo totalizzano zero aborti. Là è impossibile interrompere la gravidanza. Le centinaia di donne che ne hanno avuto necessità, sono emigrate per lo meno nella provincia più vicina. Quando non fuori regione. Accade anche l’inverso, come racconta ad esempio il caso di Petralia Sottana, tremila abitanti e almeno 300 donne che ogni anno arrivano da fuori per fare gli interventi di interruzione di gravidanza, in una regione dove l’obiezione supera l’86 per cento.

Gli ostacoli che si incontrano sulla strada dell’interruzione non sono tutti visibili al primo colpo d’occhio. L’ultimo emerso in ordine di tempo è quello di Napoli dove, certificato da una inchiesta del Mattino, è saltato fuori che il Pertini accetta fino a sette persone al giorno, e il Cardarelli fino a quattro il martedì e il giovedì. In una regione dove da anni non si riesce a quantificare quanti siano gli obiettori di coscienza. Gli ultimi dati, del 2013 e comunque parziali, parlano dell’81,8 per cento dei ginecologi.

È proprio l’obiezione a restare l’aspetto più critico di tutti. Percentuali altissime, picchi che sfiorano il 90 per cento, come in Basilicata, o casi da fiction, come il caso di un unico “non obiettore” in tutto il Molise. Il tema si è posto fin dall’inizio. Già nel 1980 gli obiettori erano il 70 per cento della popolazione medica. E, nonostante la vertiginosa discesa del numero di aborti, la situazione non accenna a migliorare, anzi. Il numero dei “non obiettori” continua a calare: un po’ perché molti raggiungono l’età della pensione, come ha segnalato la Laiga già tre anni fa, un po’ perché la prevalenza di medici obiettori ai vertici di ospedali e università non incentiva certo a prendere quella strada. Nel 2016, al congresso Fiapac di Lisbona sono stati presentati i risultati di un questionario sottoposto agli specializzandi in ginecologia delle università romane. Ebbene, un medico su tre aveva una conoscenza «insufficiente» della 194 e solo il 15 per cento si era occupato di interruzione volontaria, contro il 74 per cento che invece aveva affrontato gli aborti spontanei. Senza formazione, è difficile poi spingersi a scegliere quelle strade.

Idea: cambiare i concorsi
Ma come mai, anno dopo anno, il ministero certifica che «non ci sono particolari criticità nell’erogazione del servizio di Ivg», mentre invece dalle realtà locali arrivano notizie talvolta drammatiche? Silvana Agatone, presidente di Laiga, spiega: «Per arrivare ai dati che diffonde il ministero, ogni anno noi medici riempiamo una scheda, un foglio per ogni aborto. Accade che, se io vado in pensione, non faccio più schede. La ministra Lorenzin dirà: bene, sono calati gli aborti. Fa ridere? È questo quel che accade: non ci sono rilevazioni sulla richiesta di interrompere la gravidanza, ma solo sugli aborti effettuati. Se, ad esempio, il San Camillo di Roma riesce a offrire dieci posti al giorno ma la richiesta è di trenta, delle donne che restano fuori nessuno sa nulla, al ministero non arriva. A Trapani c’era un “non obiettore”. Faceva ottanta interruzioni al mese. È andato in pensione: non si sono fatti ottanta aborti. Domanda: dove sono finite le donne che non hanno potuto abortire a Trapani?». Invece, nessuno lo chiede: quando diminuisce l’offerta magicamente sembra diminuire anche la domanda. Chiosa di Parachini: «Al che, la ministra fa una cosa geniale. Prende il numero degli aborti, prende il numero degli obiettori, fa la divisione e conclude: ammazza, i “non obiettori” avanzano. La verità è che si tratta di un calcolo demenziale».

Se è per questo, c’è chi l’obiezione vorrebbe toglierla del tutto. E chi pensa che i due diritti possano continuare a convivere. Ma, spiega Filomena Gallo, comunque «servirebbe una legge per disciplinare l’obiezione di coscienza, magari per impiegare in modo diverso chi fa quella scelta. Servirebbe anche un albo pubblico dei medici obiettori, cosicché le donne possano scegliere da chi farsi seguire, e la garanzia dei concorsi divisi a metà: cinquanta per cento dei posti per gli obiettori, l’altro cinquanta per i non obiettori».

Proprio attorno a questo tema si muovevano le (poche) proposte di legge per modificare la 194 nell’ultima legislatura: avanzate, in termini diversi, da sinistra, Forza Italia e Cinque stelle. Non che gli attacchi alla 194 siano finiti. Anche se siamo lontani dall’epoca in cui Giuliano Ferrara chiedeva «la moratoria», le associazioni degli integralisti dell’antiaborto non hanno perso vigore. L’iniziativa più recente è quella di Pro-vita onlus, che si è appoggiata ai senatori di Lega e Fratelli d’Italia per promuovere, anche dalle aule del Senato, una campagna in cui chiede al ministero della Salute di diffondere fantomatiche informazioni «relative ai danni che l’aborto può causare alla salute delle donne». Ed è già alle viste un convegno sulla denatalità e un corteo anti-aborto. Buon anniversario, legge 194.