È una questione di fortuna: dipende da dove abiti,  dai dottori che incontri, dalla disponibilità del servizio quel giorno. A volte ci si deve affidare  a metodi non ufficiali

Quando un lunedì all’alba, nella sala d’attesa dell’ambulatorio, dicono a Maria - nome di fantasia - che magari può provare a chiedere una pillola per abortire, invece di fare l’intervento di aspirazione (il «tubo grosso così», lo chiamano le donne in attesa senza complimenti ), lei allarga gli occhi per la sorpresa come di fronte a una rivelazione rivoluzionaria. Una pillola?, domanda. Stenta a credere, tace. Non ne ha mai sentito parlare. Le sembra strano. E d’istinto ritiene di non averne diritto.

Maria ha 39 anni, non è italiana ma sta nel nostro Paese da venti, vive in un paesino in provincia di Roma. Ha un mutuo, tre figli che studiano, pensa a tutto lei. Un quarto bambino proprio non se lo può permettere. Così ha preso un treno la mattina presto, senza dire niente. È integrata, Maria, tanto da sapere che al San Camillo, a Roma, c’è un posto che fa per lei. Prima era uno dei due ospedali, insieme col San Filippo Neri; uno dei sei, adesso, a dare a Roma la Ru486 .
Battaglie civili
Aborto, la pillola negata: ancora una volta l'Italia è fanalino di coda
16/10/2017

Il seminterrato dall’apparenza abbastanza infame del reparto di Ostetricia e Ginecologia - sopra le nascite, sotto le interruzioni - dove da decenni la intrattabile e appassionata dottoressa Giovanna Scassellati protesta, non fa carriera, non fa altro che aborti. E ci crede, persino. Lo raccontano i fogli attaccati al vetro con lo scotch, scritti grandi in modo che siano visibili all’esterno, anche quando è tutto chiuso: «L’ambulatorio apre tutti i giorni alle otto, dal lunedì al venerdì. Presentarsi un quarto d’ora/venti minuti prima». E poi: «Servono fotocopie di un documento e della tessera sanitaria: NON SCADUTI», in maiuscolo. Ancora: «Contraccezione d’emergenza: le maggiorenni possono richiederla in farmacia senza ricetta». Senza ricetta è sottolineato: anni di battaglie per quel foglio, per quella sottolineatura.

Ecco perché non è che in Italia sia tutto buio, no. È a sprazzi di luce, tra vortici di inferno nero. Insopportabile e ingiusto mix tra l’una e l’altra cosa. Dipende da dove vivi, dipende a chi chiedi. Un filo logico non c’è. Lo racconta ogni anno la relazione sullo stato di attuazione della legge 194, un ridicolo far le medie tra inferno e luce, per raccontare con sollievo fuori luogo una coerenza che invece nella realtà non si ritrova da nessuna parte. Come quando nella relazione si scrive con disinvoltura, parlando dell’obiezione di coscienza, che «in particolare emerge che le interruzioni volontarie di gravidanza vengono effettuate nel 59,6 delle strutture disponibili» – quasi che il restante 40,4 per cento delle strutture disponibili sia percentuale trascurabile, dove magari ci si astenga dal fare aborti per mero caso, per eleganza. Oppure, quando si sostiene che i non obiettori sono «in numero congruo» perché «considerando 44 settimane lavorative in un anno, a livello nazionale ogni non obiettore effettua 1,6 interruzioni a settimana, un valore medio tra il minimo di 0,4 della Val d’Aosta e il massimo di 4,7 del Molise» Quando è chiaro, chi attraversa questi mondi lo sa, che il tema non è mai il numero medio: è la disponibilità specifica, di quel giorno o di quella settimana, in un certo ospedale. E se il medico non obiettore è uno solo, la realtà che gli sta intorno segue i suoi ritmi, anche vitali.

È cronaca, del resto. Come quel ginecologo di Bari: lui andò in ferie, il servizio di somministrazione della Ru486 e relativo numero verde vennero sospesi per tutto il periodo. O il medico del Policlinico Federico II a Napoli: lui morì, il servizio di interruzione gravidanze fu interrotto per due settimane: non c’era nessuno che potesse sostituirlo. E due settimane, per chi deve abortire, sono moltissime. Per la Ru486 ne possono trascorrere massimo sette, e di solito le prime quattro o cinque passano nell’inconsapevolezza di averne bisogno.

Non è insolito quindi - con percentuali di obiezione così alte - ritrovarsi senza un ginecologo disponibile nei giorni che servono, che spesso sono appunto pochi - soprattutto con la Ru. È accaduto ad una signora di Salerno: niente medici non obiettori disponibili, a Salerno e ad Avellino. Così lei, quattro figli, 35 anni, a rischio di finire su una sedia a rotelle se si fosse arrischiata in una nuova gravidanza e parto, finì a prendere un traghetto per Capri, l’ultimo per via del mare forza otto, in pieno inverno. Drammatico come un racconto mensile di De Amicis, eppure reale: il ginecologo disponibile più vicino era là, sull’isola.

Insomma un conto sono le grandi città: altra storia i piccoli centri e il sud.

Se a Roma come a Milano almeno sei e sette ospedali distribuiscono la Ru486, in Basilicata e Calabria ce ne sono due, in tutto il Molise soltanto uno. Nelle Marche c’è San Benedetto del Tronto, mentre Ascoli Piceno l’anno scorso è finita sul New York Times perché l’unico presidio sanitario in zona per l’interruzione di gravidanza era garantito dall’Aied.

Altro che pillole. L’associazione italiana per il controllo demografico (Aied appunto) ha un accordo con la Asl locale: tre medici non obiettori fanno i pendolari, da Roma e da Milano, per organizzare aborti una volta a settimana (il sabato), da realizzarsi appoggiandosi alla struttura ospedaliera, che di suo è priva di un ambulatorio per le interruzioni di gravidanza.

È chiaro che di somministrare la Ru in questi casi nemmeno si parla, è considerato un lusso: servirebbe appunto che ci fosse il servizio di interruzione, con un numero sufficiente di ginecologi non obiettori per garantire i turni. E comunque la procedura di appoggio all’Aied non è ufficiale, un percorso ben definito, qualcosa che stia affisso ai muri dell’ospedale: è un passaparola, affidato agli umori, alle simpatie, alla buona volontà, al caso. Devi essere fortunata.

Ecco, in posti come questo, già è un buon risultato - raccontano gli operatori - riuscire ad abortire prima che scadano le 12 settimane previste dalla 194. «Spesso le donne ce le mandano che stanno al limite, dopo aver fatto loro perdere un sacco di tempo, perché il problema grosso è il territorio che dà l’avvio alle procedure, è lì che si fa la differenza tra chi può contare su un servizio efficiente e chi no, tra chi trova un modo per organizzarsi e chi no», racconta Ernesto - nome di fantasia - che da vent’anni pratica aborti perché ci crede, pure lui. Anche se è arrabbiatissimo: «A sentire i racconti che mi fanno le donne, certi medici vorrei prenderli a calci. I maltrattamenti, la mancanza di rispetto. Molto si gioca attorno al fatto che le donne vivono l’aborto come un problema di cui non parlare. Se uno va in ospedale e non può fare le analisi perché la macchina per l’emocromo si è rotta, va a protestare: se una donna deve abortire, mica va in direzione sanitaria a lamentarsi perché non c’è un servizio di interruzione di gravidanza, o non danno la Ru486. Non trovi mai una donna che denuncia queste cose, perché le donne si vergognano», racconta.

Eppure gli aborti calano, lo certificano le statistiche. Questo significa che la legge funziona? «Sì certo, funziona, come no. Anche noi abbiamo notato, in questi ultimi anni, un calo degli aborti fatti in ospedale, che però non è dovuto al miglioramento del servizio sul territorio, né alla somministrazione ospedaliera della Ru486, né all’aumento dei medici non obiettori. Il sospetto è che tutto sia finito inghiottito dentro il mercato degli aborti clandestini, coi farmaci, che è sempre più diffuso».

Passare per la via legale è spesso difficile e farraginoso: il commercio online, con tutti i rischi che comporta, è invece di sempre più facile accessibilità. C’è anche chi lo racconta, dietro l’anonimato della rete. Come A., che alla fine di una accurata spiegazione della sua interruzione farmacologica fatta in casa, conclude: «Sì, è stato complicato, ma le testimonianze che ho letto in rete, mi hanno fatto capire che un aborto legale sarebbe stato troppo difficile da ottenere, per me».