Tre mondiali dopo, a Russia 2018, potremo scegliere se sostenere l’Islanda, che ha qualche abitante in più di Bari città, oppure Panama, popolata come il Comune di Napoli. È bello tifare per il più debole. In ogni caso non c’è molto altro da fare visto che l’Italia è stata eliminata alle qualificazioni per la prima volta dal 1958.
La catastrofe del 10 novembre 2017, spareggio perso con la Svezia, ha imposto un severo rigiro di poltrone, alcune dimissioni-non dimissioni e un governo del Presidente (Giovanni Malagò del Coni), in mancanza di una maggioranza dettata dalle urne. Se ricorda qualcosa, per esempio la situazione politica italiana, non bisogna stupirsi. La vita è una pallida imitazione del calcio.
Il lamento collettivo sulla mancanza di talenti si polarizza su una serie di istanze ideologiche, a specchio con quelle dei partiti.
C’è la tendenza grillino-leghista: ci sono troppi stranieri che rubano il posto da mezzala agli italiani. Lo sapevate che la Federcalcio (Figc) ha oltre 12 mila tesserati di nazionalità albanesi (uno ogni quaranta emigrati sul territorio nazionale) e circa 10 mila dalla Romania?
C’è la tendenza vecchia sinistra: abbiamo perso perché non andiamo più nelle periferie a caccia dei Roby Baggio del futuro. C’è la tendenza renzista: abbiamo perso e non abbiamo un governo perché non ci hanno approvato le riforme, però siamo bravissimi lo stesso. C’è la tendenza nostalgia: si stava meglio nella Prima Repubblica, quando c’era più fame, zero telefonini e si giocava in strada invece di rimbambirsi su Facebook. E poi c’è la modernità più avanzata, la stratosfera dove osano le aquile delle neuroscienze applicate al dribbling. Ci sono i guru del Moneyball, il libro (e il film da Oscar) sul manager di baseball Billy Beane e sul calcolo statistico-sabermetrico come base per trovare i campioni che costano poco e vincono tutto.
Sullo sfondo c’è la mitica teoria delle 10 mila ore del sociologo anglo-canadese Malcolm Gladwell, che fissa in quel termine di tempo lo sforzo minimo necessario per diventare bravo in qualunque arte e mestiere, dal violino alla marcatura a zona.
Walter Sabatini, per molti il migliore direttore sportivo italiano, è scettico. «Il calcio», dice, «si sta spostando verso le statistiche, gli algoritmi e l’intelligenza artificiale. Ma il peso specifico di un cross non può essere calcolato. Negli anni Novanta ho iniziato con le giovanili a Perugia, dove ho preso Rino Gattuso, e nella Lazio. Sui campi italiani si avvertiva una pulsione sessuale verso il gioco che oggi è scomparsa. Si parla di troppi stranieri ma è accettabile nel mondo di oggi una battaglia contro gli stranieri? I giocatori italiani non sono scarsi. Sono forti, ma i giocatori del mondo sono ancora più forti e il talento non si costruisce. Al massimo, si accompagna. Quando andavo a vedere i provini in posti sperduti dell’Argentina, nel Tucumán, i ragazzi arrivavano su autobus carichi come tradotte militari. Lo vedevi subito che erano nati per il calcio. In Italia l’inquadramento nelle tattiche inizia molto presto. Al di sotto dei tredici anni, io li farei giocare a pallone dentro una gabbia fino allo sfinimento, senza arbitro e con un semplice accompagnatore. È vero che molti oggi non sanno correre. Io sapevo correre perché rubavo le ciliege e, se il contadino mi prendeva, erano botte».
Il pallone da strada, almeno in Italia, difficilmente tornerà e un’altra cosa è certa: per ricostruire ci vorranno anni. Secondo uno studio condotto a livello europeo sui giocatori arrivati in prima serie, sotto i sedici anni solo il 30 per cento giocava nelle giovanili di un grande club. Il 70 per cento rimanente arrivava dai dilettanti. Anche da qui è nata l’idea di tornare a coltivare un settore che, con il tramonto delle strutture associative legate ai vecchi partiti (Uisp, Acli, Libertas), si era molto inaridito rispetto ai tempi di Moreno Torricelli, arrivato alla Juve dalla Caratese nel 1992.
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C’è una via privata alla ricerca del talento e una via pubblica. La prima è quella dei club professionistici che, dai tempi della legge Bosman (1995), si sono spaccati fra chi crede nel vivaio (Roma, Atalanta) e chi compra, per lo più all’estero. La via pubblica è quella della Federcalcio, che dovrebbe avere come unico scopo la formazione dei campioni del futuro. Un paio di anni fa, dopo un filotto di risultati mediocri alle fasi finali di Mondiali ed Europei, la Figc ha inaugurato il sistema dei Centri federali territoriali (Cft) della Figc per iniziativa dell’allora presidente Carlo Tavecchio e del suo dg Michele Uva.
Il primo biennio ha prodotto risultati inapprezzabili, per citare il compianto Sandro Ciotti. Secondo fonti della federazione, una cinquantina di atleti selezionati sono arrivati alle soglie del professionismo.
Al momento, sono stati aperti 37 Cft. Entro il 2018, si arriverà a 50 sui 200 previsti a regime. La spesa messa a budget è di 9 milioni di euro per completare il lavoro. Da lì, bisognerà calcolare un costo complessivo annuale di altri 9 milioni di euro.
Ogni centro formerà 75 ragazzi e 25 ragazze con un allenamento al lunedì mattina. Il sabato un workshop di formazione potrà spaziare da temi come il cyberbullismo fino ai genitori che augurano la morte violenta al terzinuccio di 10 anni che ha dato un calcetto al loro piccolo Messi.
Alla fine, si calcola di avere un Cft per ogni 35-40 chilometri di raggio. Ogni centro avrà un dirigente (200) e ogni regione avrà un supervisore (20). I tecnici impegnati, coordinati da Roma, saranno circa 1200. Non saranno assunti ma pagati a rimborso spese, con l’escamotage fiscale in vigore fra i dilettanti che consente di fatturare fino a 10 mila euro di reddito l’anno esentasse. Quando i tecnici non saranno impegnati nell’allenamento o nell’organizzazione dell’allenamento, gireranno la loro zona di competenza in cerca di talenti da reclutare.
Rispetto alle dimensioni dell’impegno e alla quantità di persone coinvolte, i 9 milioni di euro all’anno sembrano una cifra molto ottimistica o, se si preferisce, poco attraente. Quasi 1500 persone ricaverebbero in media circa 6 mila euro all’anno.
Se si pensa che per un corso di preparatore atletico a Coverciano (una novantina di diplomati ogni anno) bisogna investire 2 mila euro, il rischio è che i nuovi reclutatori, nonostante l’enfasi sui nuovi sistemi, sugli allenamenti con il Gps e sulle scienze neuromotorie, siano amatori poco qualificati, magari pronti a chiamare il procuratore amico e a firmare scritture private di agenzia con le famiglie dei ragazzi alla prima vaga manifestazione di talento.
Il sistema dei Cft, ispirato alle esperienze di Francia, Belgio e Germania, è considerato promettente dalla maggioranza degli addetti ai lavori. Con una postilla. «Dipende da come sarà selezionato lo staff», dice Sabatini, «da chi lo dirigerà e come. In questo ambiente ci sono persone con qualità enormi che nessuno gli riconoscerà mai. Restano ai margini perché non hanno un aggancio».
Il calcio in Italia è diventato sempre più un sistema relazionale e sempre meno meritocratico, come dimostrano i risultati. Le dinastie si moltiplicano. Il cittì di Germania 2006, e dell’eliminazione al primo turno del 2010, Marcello Lippi è stato escluso dal posto di direttore tecnico della Figc nel 2016 perché il figlio Davide fa il procuratore. Carlo Ancelotti, che ha appena rifiutato la Nazionale, si è portato il figlio come secondo al Bayern. Anche Cesare Prandelli aveva scelto il figlio tra i preparatori atletici della sua Nazionale.
Chi viene dalla gavetta si lamenta degli ex campioni che saltano le tappe e diventano allenatori in serie A o dirigenti per il loro passato in campo. È il caso di Billy Costacurta, il subcommissario federale, che deve affrontare un passaggio molto delicato da intrattenitore su Sky a dirigente, dopo una breve esperienza sulla panchina del Mantova.
Quando si parla di sistema relazionale, si parla di Calciopoli, della Gea, di Luciano Moggi. Oggi la Gea è espatriata a Dubai, ma è sempre in mano ad Alessandro Moggi, il figlio del direttore sportivo della Juve finita in B per illecito sportivo. È davvero finito quel modo di fare calcio? Molti pensano di no. Il modus operandi è simile. Solo la qualità dei talenti è inferiore.
Al momento, in cima alla piramide del calcio giovanile c’è il pugliese Vito Tisci, nominato a fine 2014. Ma il plenipotenziario è l’avvocato Luca Bergamini, ex portiere della nazionale italiana di calcio a cinque. Bergamini è nel direttivo del Settore giovanile scolastico (Sgs) della Figc su nomina della stessa Figc commissariata da Malagò e retta da Roberto Fabbricini con la responsabilità dei centri di eccellenza Cft. Oltre all’incarico di matrice pubblica, Bergamini è l’inventore dell’As Roma academy insieme al dg dei giallorossi Mauro Baldissoni.
Dal 2014 è consigliere del Bologna calcio di Joey Saputo con delega agli affari generali. Uno dei suoi figli è dirigente accompagnatore delle giovanili romaniste. L’altro gioca in Lega Pro con il Gubbio ed è rappresentato dal procuratore Diego Tavano, che ha come suo cliente principale il calciatore del Bologna Sebastien De Maio. Bergamini è amico, collega e socio nel Circolo canottieri Aniene dell’avvocato Antonio Romei, braccio destro del presidente della Sampdoria Massimo Ferrero, che ha creato un’academy fra le più dinamiche.
Bergamini ha una società (Lm srl) che presta “consulenza e assistenza nella gestione delle coperture assicurative dell’As Roma” ed è sindaco effettivo della Mater Olbia, la clinica con albergo e impianti sportivi finanziata con 1 miliardo di euro dal nuovo sponsor della Roma, l’emirato del Qatar. Non ci sarà un conflitto d’interessi in questo misto fra nomine pubbliche, incarichi privati, attività professionale e imprenditoriale? O forse è tutta invidia di chi osserva da fuori l’irresistibile ascesa del Partito Anienista del presidente Malagò.
L’idea di fondo è che nessuno del circolo dei cooptati da re Giovanni sarà lasciato indietro. Tavecchio, che ci ha messo dieci giorni a dimettersi dopo Italia-Svezia, ha conservato la poltrona in Federcalcio srl, la società che fra gli altri compiti ha quello di individuare il nuovo centro federale a Roma. L’ex presidente della Lega di serie B, il romano Andrea Abodi, sconfitto da Tavecchio alle elezioni per la Federcalcio del 2017, è riuscito a ottenere una prestigiosa nomina di fine legislatura dal ministro dello Sport Luca Lotti, empolese con posto in tribuna vip nella semifinale di Champions fra Liverpool e Roma. Pur non avendo esperienze note come banchiere, Abodi è diventato presidente del Credito Sportivo, unico istituto pubblico italiano, l’8 febbraio scorso.
La questione del conflitto di interessi non è banale. I Cft, piaccia o non piaccia, sono in concorrenza con il mondo, ricco e potente, dei club privati che fanno montagne di soldi con le scuole calcio. Basta dare un’occhiata al sito della Fundación Real Madrid o a Fcbescola, la scuola calcio del Barcellona. Solo per i mesi estivi e solo in Italia, i due club maggiori della Liga spagnola organizzano decine di football camp e clinics. La terminologia anglosassone segnala che i maestri del settore sono gli inventori del calcio. Non vincono un Mondiale dal 1966 ma per la prima volta nella storia tutte le venti squadre della Premiership hanno chiuso il bilancio con il margine operativo positivo.
Club come l’Arsenal ricavano decine di milioni da un business fatto tutto di marchio e del merchandising che i venti ragazzini iscritti al campus ricevono con tanto di nome sulla maglietta. Sono 400-500 euro per tre giorni con un allenatore locale preso poco prima attraverso un workshop gratuito e pagato quattro soldi mentre un accompagnatore del club spedito da Madrid, da Londra, da Manchester o da Milanello o da Trigoria o da Appiano Gentile, veglia sulla sgambatura.
Enrico Fabbro, nello staff dell’ultima Lazio primavera capace di vincere uno scudetto di categoria (stagione 2000-2001) dice: «Le academy dei grandi club, i campus estivi, i clinic sono macchine da soldi. Vedi questi bambini cicciotelli con allenatori presi chi sa dove, maniaci della tattica che li schierano con il 4-3-3 o a con lo schema ad albero di Natale. Manca del tutto il rapporto con la scuola pubblica. Alle elementari non si fa nulla. Chi insegna nelle palestre che qualifiche ha? Dagli otto ai dodici anni il problema non è che non sanno correre, è che non sanno camminare. Non ci si può stupire se oggi in nazionale, dall’Under 21 a scendere, non c’è un laterale destro d’attacco. È vero che talento si nasce e non si diventa ma di talenti ce ne sono due o tre per squadra. Gli altri sono buoni professionisti che si possono costruire. Quando ho preso Lorenzo De Silvestri alla Lazio, gli ho chiesto dove voleva giocare. Mi ha risposto: dove vuole lei, mister, io vengo dallo sci di fondo».
Le eccezioni ci sono o non sarebbe valida la regola. Uno dei più promettenti calciatori del vivaio milanista è Marco Frigerio, classe 2001 (Allievi nazionali). Figlio di un dirigente d’azienda, non è stato scoperto in Brianza, dove vive, ma ad Ancona durante un Milan camp estivo. Forse in un altro paese starebbe già giocando in prima squadra. Lo stesso si può dire per il coetaneo Daniel Maldini, considerato un talento come il padre Paolo, che però ha esordito in serie A a 16 anni.
Nessuno dei due ragazzi viene da famiglie disagiate. Diversamente, il piccolo calciatore è spesso un investimento, un mutuo, una polizza integrativa. All’inizio, è di sicuro una spesa, un investimento di tempo e di energie.
La frase “vorrei allenare una squadra di orfani”, attribuita a un allenatore delle giovanili, è forse apocrifa. Invece, la frase “gioco per comprare il Cayenne a papà” è autentica, anche se non può essere affiancata a un nome e cognome. L’ex difensore di scuola Milan Davide Corti ha girato il mondo, dalla Norvegia all’Algeria, da Ostia Lido all’Aspire academy del Qatar. Oggi allena i giovani della Cedar Stars Academy del New Jersey, in collaborazione con Tab Ramos, responsabile dell’Under 20 Usa. «A sedici anni», dice, «ero in panchina con il Milan di Arrigo Sacchi. Ero considerato una persona. Oggi il calciatore, appena firma un contratto e guadagna, diventa la pedina di un gioco di scambi. Mi sono spaventato a vedere la fretta dei genitori italiani che considerano i figli come un assegno. Ma non credo che siano il problema principale. Il nostro paese fatica a riconoscere e a premiare l’individuo, preferisce vivere di clientelismo: metto l’amico, competente o incompetente che sia. L’obiettivo dei nostri dirigenti è tenersi la poltrona fino in fondo. Così si è creato un buco educativo di 15-20 anni mentre l’Islanda costruiva centri sportivi e investiva nelle giovanili. Aggiungiamo che noi facciamo le regole per poterle aggirare. All’estero non funziona così. Dopo il suo primo gol con la maglia del Chelsea, Andrij Shevchenko, che veniva dalla serie A e dagli stadi con le barriere, si è buttato fra la folla. La signora responsabile degli steward dei Blues gli ha chiesto di non rifarlo più perché poteva creare problemi di ordine pubblico».
Povero Sheva. Diecimila ore per diventare italiano e cinque minuti per diventare inglese.