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Russia 2018 è la sua ultima chance. Quattro anni fa, con le Olimpiadi invernali a Sochi è stata una catastrofe. Per andare con sci, bob e slittini sul Mar Nero i costi sono impazziti. Da un budget previsionale di 12 miliardi di dollari il conto finale è stato di 51 miliardi: i Giochi più cari della storia. È vero che la Russia ha dominato il medagliere ma il prezzo è stato un ricorso sistematico al doping di Stato che ha rinverdito l’epoca sovietica e che è stato denunciato nel novembre 2015 da un rapporto della Wada, l’agenzia antidoping del Comitato olimpico internazionale (Cio). Nel 2016, ai Giochi estivi, decine di atleti russi sono stati esclusi dalle gare mentre altri hanno partecipato a titolo personale.
Anche con i Mondiali del 2018 non è stata una passeggiata. L’assegnazione alla Russia, decisa nel 2010, è avvenuta all’ombra del sistema corruttivo governato dal presidente della Fifa di allora, Joseph Blatter, finito al centro di un’inchiesta della magistratura svizzera e del Fbi, l’agenzia federale Usa. Nonostante tutto, Putin è riuscito a mantenere l’organizzazione del più grande spettacolo sportivo del mondo e a presentarsi davanti alle telecamere per il suo discorso di apertura il 14 giugno allo stadio Luzhniki, l’impianto moscovita un tempo dedicato a un altro Vladimir, Ili? Uljanov detto Lenin.
Anche se i bilanci si fanno alla fine, a 65 anni e con una lunga vita al potere ancora davanti, il presidente russo avrà qualche difficoltà a trasformarsi in Mister Nice Guy. Lui ha sempre guardato al calcio con distacco, com’è quasi normale per un pietroburghese. La tradizione vuole che il calcio russo, o sovietico, coincida in larga parte con Mosca, luogo dal clima mite rispetto agli inverni baltici. Nella capitale del nord Volodja, come lo chiamava sua madre, è nato e cresciuto. Lì ha amato e praticato il judo, sport indoor, e l’hockey, giocato dagli appassionati sul primo stagno ghiacciato. Le esibizioni vincenti della cintura nera Putin sul tatami sono diventate un classico della propaganda nazionalista, insieme alla caccia nella taigà siberiana a torso nudo e alle foto con le tigri albine. Quanto all’hockey, un mese prima dell’inaugurazione dei Mondiali le televisioni hanno trasmesso l’incontro fra le vecchie glorie del Nhl (la maggiore lega professionistica internazionale). Il gradito ospite Putin è stato protagonista con cinque gol e un assist.
Per controllare lo sport, veicolo potente di popolarità già ai tempi dell’Urss, il leader russo si è sempre affidato a uomini di totale fiducia. Il ministro dello sport è Pavel Kolobkov. L’olimpionico di spada era il rappresentante russo nella Wada finché è stato cacciato per lo scandalo del doping di Stato del novembre 2015. Nel 2016 l’ex schermidore è stato nominato ministro al posto del vero uomo chiave di Putin nel settore, Vitalij Mutko, squalificato a vita dal Cio e nominato vicepremier tanto perché fosse chiara la sensibilità del Cremlino alle sanzioni internazionali. Oltre alla promozione, Mutko si è tenuto la presidenza della Federcalcio che aveva già guidato tra il 2005 e il 2009.
È chiaro che per il judoka-hockeista Putin il calcio rimane uno sport da signorine. Ma al mondo ci sono miliardi di signorine che portano consenso. In questo, il football non si batte. Una delle prime azioni di politica sportiva dell’era putiniana è stata il potenziamento dello Zenit San Pietroburgo. Per trasformare il depresso club della sua città natale in una potenza capace di competere con gli avversari moscoviti (Dinamo, Spartak, Lokomotiv, ?ska), il presidente ha tirato in ballo come sponsor-proprietario il colosso di Stato Gazprom che ha permesso uno shopping capital-intensive sul mercato calcistico mondiale.
Putin però resta un nazionalista. Lo scorso novembre ha avuto modo di lamentare, quasi fosse Arrigo Sacchi, il ricorso eccessivo dello Zenit agli stranieri nel match di Europa league contro la Real Sociedad. C’erano solo tre russi sugli undici titolari schierati in campo. Dopo la partita, peraltro vinta 3-1 dai pietroburghesi, l’allenatore dello Zenit Roberto Mancini si è detto assolutamente d’accordo e ha fatto autocritica a 360 gradi.
L’autarchia suggerita da Putin al mister italiano ha funzionato poco. Lo Zenit ha chiuso il campionato al quinto posto con tre squadre di Mosca al vertice della classifica. Mancini si è separato consensualmente dal club ed è diventato commissario tecnico della nazionale italiana dopo la mancata qualificazione a Russia 2018.
Quello di Mancini è stato un licenziamento soft. Non sempre Putin è così cortese e questo gli ha creato più di un problema diplomatico. Alla partita inaugurale dei Mondiali, vinta facilmente dalla Russia contro l’Arabia Saudita, in tribuna d’onore c’era il principe ereditario di Ryad, Mohammed bin Salman, altro amante dei modi spicci che aveva da poco rimesso in libertà il cugino al Walid dopo la retata anticorruzione dello scorso novembre. Chi mancava al calcio d’inizio del torneo erano i leader del mondo occidentale. Non c’erano i premier della Germania, campione del mondo in carica, della Francia e della Gran Bretagna, la più accanita nelle sanzioni alla Russia dopo l’avvelenamento dell’ex spia russa residente a Londra Sergeij Skripal e della figlia. La ruggine anglorussa ormai è una costante. Il proprietario del Chelsea Roman Abramovich, oligarca da sempre fedele a Putin, si è visto negare il visto d’ingresso nel Regno Unito e Londra ha tentato fino alla fine di sostituirsi alla Russia nell’organizzazione di questo mondiale dopo lo scandalo del 2010.
Eppure le vie del calcio sono infinite. Mentre Theresa May sta a casa, la nazionale inglese è regolarmente fra i presenti alla competizione. Ma appunto si chiama Inghilterra, non Gran Bretagna, che nel calcio esiste soltanto per il torneo olimpico. Sarebbe bizzarro se la nazionale dei Leoni scegliesse proprio questo torneo per tornare a una gloria smarrita dall’unica vittoria nella competizione (1966). L’Inghilterra però non è fra le favorite. Ancor meno la Russia che nella sua storia è stata presente al Mondiale solo tre volte senza mai superare il girone all’italiana. Vedremo quanto andrà avanti la nazionale guidata da Stanislav ?er?esov. Un piazzamento dei padroni di casa fra le prime otto sarebbe un successo, Fra le prime quattro, una sorpresa da sbancare le case di scommesse. Ma è questo il bello del calcio. Non sempre vince il più forte. Ed è per questo che il presidente russo continuerà a non amare il calcio. Putin vuole essere sicuro che il più forte, ossia lui, vinca sempre. Per la simpatia ci sono i racconti di ?echov.