Giovani, fieri, militanti. Dall’arte alla musica, dalla letteratura all’estetica, una generazione nuova ?e cosmopolita rivendica le sue radici. Conquista potere. E rimodella gli immaginari di tutti 

Il monumento all’Orgoglio Nero fu eretto nel 2014 in quel di Brooklyn, New York. Ed era di zucchero. Una sfinge di dieci metri di altezza, ventidue di lunghezza scolpita in una immensa zolletta. Corpo leonino, volto dai tratti negroidi, un fazzoletto annodato in cima alla testa, immense tette e immense natiche. Una divinità dolce e oscena al tempo stesso che concentrava su di sé gli stereotipi di tutte le “mammy” della storia americana. «È il cavallo di Troia dell’arte pubblica», disse l’autrice Kara Walker che sulla sua identità afro aveva costruito una poetica per niente conciliante. Le nere silhouette, che l’avevano resa celebre, raccontavano sui muri di gallerie e musei le storie di atroci crimini di uomini bianchi che avevano nei secoli torturato e soggiogato i neri. In cima alla lista: pedofilia, stupro, femminicidio. Una visiva e terribile Spoon River che non dava attenuanti ai padroni e agli oppressori.

Quindi quando le fu chiesto di commemorare con un’opera la chiusura della Domino Sugar Factory di Williamsburg che sarebbe stata presto abbattuta per far posto a un quartiere residenziale, Kara non si fece pregare e per plasmare la degna testimonianza ordinò subito quattro tonnellate di zucchero. Un cucchiaino, se confrontate alle centinaia di migliaia che questa fabbrica produceva rifornendo gli Stati Uniti della metà dello zucchero consumato nel paese. Ma soprattutto scrisse la Walker, «Un omaggio agli operai malpagati, sfruttati e agli antichi schiavi che hanno raffinato il sapore della nostra dolcezza, dalle piantagioni di canna da zucchero alle cucine del Nuovo Mondo».
Kara Walker

Omaggio a pugno chiuso, s’intende e non è l’unico. Lo spirito del socialismo soffia forte e spesso nelle poetiche degli artisti neri. Nel 2015 la più politica delle Biennali dopo il Sessantotto, ovvero quella del curatore nigeriano Okwui Ewezor, aveva affidato al britannico artista e regista di origini caraibiche, Isaac Julien il suo cuore rosso: un’arena nel mezzo del Padiglione Centrale dove ogni giorno veniva messo in scena il pensiero di Karl Marx vissuto nella sua forza epica e narrativa grazie a una quotidiana lettura dal vivo di qualche pagina del Capitale per tutti e sette i mesi della mostra.

Del resto cosa aspettarsi di diverso da una Biennale guidata dal guru del Black Pride? Un mitico curatore africano di nascita, ma newyorkese di adozione, che a 21 anni diventa un protagonista nella “social cultural life” della Manhattan anni Ottanta. Quella dell’ultimo Warhol e della cometa Basquiat, della movida tra il Village e Soho e dell’esplosione delle griffe. Lui, che della moda più spericolata diventa un fascinoso testimonial, è anche un grande storyteller, affabulatore, critico d’arte, poeta. Difende l’arte del suo popolo e di tutti i neri del mondo, si definisce un uomo nella cui anima «la coscienza etica africana e la realtà quotidiana occidentale si mescolano in una costellazione post-coloniale» e grazie a questo intelligente e strabico sguardo è premiato da una eccezionale carriera. Primo nero a guidare Documenta a Kassel, primo a guidare anche la Biennale di Venezia. E soprattutto un precursore.

Oggi di figure così nell’universo dell’arte se ne contano parecchie. Sono gli intellettuali “afropolitani”, neologismo coniato dal filosofo camerunense Achille Membe come sintesi di africano e cosmopolita per definire una classe emergente nelle metropoli del mondo. Una per tutte la quarantenne Elvira Dyangani Ose, dalla Guinea alla Spagna per diventare poi curatore alla Tate, direttore della Biennale di Göteborg, consulente della fondazione Prada e animatrice ovunque di un dibattito intenso fatto di mostre, conferenze e incontri sull’African Diaspora, ovvero l’emigrazione culturale e intellettuale di menti creative dal suo continente.
Illustrazioni di Pierluigi Longo

Fenomeno in crescita. Nell’ultimo censimento di Artsy (prestigioso sito di riferimento per il mondo dell’arte) sui venti “Most influential young art curators” degli Stati Uniti ben cinque sono neri, giovani, orgogliosissimi e militanti. Dalla Erin Christoval che nella Municipal Gallery di Los Angeles in tempi trumpiani si è distinta con una mostra dal titolo “S/Election: Democracy, Citizenship, Freedom” e con rassegne tutte dedicate alla Black Radical Imagination, fino a Rujeko Hockley del Brooklyn Museum di New York che invece si è concentrata su temi storici e sui movimenti delle donne nere tra il 1965 e il 1985. Titolo di tanta rassegna: “We wanted a revolution”.
Ma nonostante (o forse anche grazie a) intenzioni radicali e bellicose gli artisti neri stanno conquistando sempre più potere e consenso anche all’interno del mercato. Mentre sempre di più sono le mostre, le biennali e le fiere dedicate non solo all’arte afroamericana ma all’emergente scena africana.

Il MaXXI a Roma ne ha appena inaugurate ben due: “African Metropolis”, fino al 4 novembre, che attraverso mega-installazioni, pitture e video racconta la crescita organica e immaginifica delle metropoli del continente e “Road to Justice” (fino al 14 ottobre) che coinvolge nove straordinari artisti da John Akomfrah a Marlene Dumas, a Kendell Geers in un racconto delle lacerazioni nate dal post-colonialismo e dalle guerre.
Sensibilissimo alla nuova ondata è poi il mercato. Se Londra con successo affianca alla settimana di Frieze la fiera tutta africana “1: 54” che in tre edizioni è diventata il polso di un mercato autonomo e forte di un consenso al di sopra di ogni aspettativa, l’ultima asta di Phillips ha portato a un record improvviso e imprevisto uno dei protagonisti della nuova Black Wave: Mark Bradford primo nero chiamato a rappresentare l’America nella scorsa Biennale. Artista eccessivo in tutto a cominciare dalla non comune bellezza e altezza che sfiora i due metri. Bradford nato nel 1961 e cresciuto nei ghetti di Los Angeles, da nero omosessuale e radicale, porta avanti un lavoro fortemente legato alle sue radici sociali e biografiche, raccogliendo rifiuti e frammenti di carta dalle strade trasformandoli in reliquie, potenti installazioni o gigantesche opere dove mescola pittura e spazzatura in un sublime caos che lui chiama “astrazione sociale”. Una di queste tele dai 35 metri di lunghezza ha conquistato il potente collezionista Eli Broad che ha combattuto in asta per portarsela via al prezzo di 12 milioni di dollari. Quotazione che permette al cinquantenne Bradford di raggiungere i valori di un Frank Stella e sedersi nell’Olimpo dei grandi maestri americani.
Cultura
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Molto più a nord nella periferia di Chicago, vive invece un vero guru: Theaster Gates. Figlio di emigranti nato in un quartiere operaio da padre operaio, circondato da otto sorelle nate (forse) nell’attesa del maschio. Venuto alla luce nel 1973, a 10 anni il nostro è già arrampicato sui tetti a lavorar col padre nei cantieri. Da qui nasce una rivoluzionaria poetica che lo porta a lavorare sui rifiuti e sui resti lasciati dall’abbondanza dei bianchi e sugli edifici abbandonati. Ma a differenza di Bradford, Gates non si ferma alla pittura, alla scultura, al video: punta all’opera totale che non conosce confini tra arte e vita. Coinvolge altri artisti (in prevalenza neri), crea comunità che producono opere musica, teatro, gospel, rap, ceramica, architettura. E con loro occupa interi palazzi abbandonati, viaggia in gruppo tra Biennali, fondazioni e musei, raggiunge internazionale celebrità e punta a costruire un nuovo mondo e una nuova forma di lotta politica: «Voglio fare quel che sanno meglio fare i neri. Festeggiare. Creare desiderio». Un desiderio che con orgoglio gli fa dire: «Non voglio sposare il pensiero razionale dell’Occidente. Voglio immergermi in una zona estatica, allucinata, lontana da questo mondo. Voglio lavorare con i miei simili per trovare la strada verso un potere che ci protegga dai poteri. Voglio credere che ci sia potere anche nella povertà». Non sono più parole d’artista, sono parole di un leader pronto a contaminare le arti con una rabbia nuova, più pacata, distillata e trasformata in progetto.